Lasciare vincendo: Marco Belinelli

Beli è sempre stato un giocatore fuori categoria. Fin dagli inizi della sua carriera, quando ho avuto modo di vedere i suoi primi passi con la maglia della nazionale. Avremmo potuto essere anche compagni di squadra, a Biella. Provai a farlo venire in Piemonte ma già allora si capiva che era destinato a grandi cose. Scelse infatti la Fortitudo e da lì il salto negli Stati Uniti e in NBA. Quando lo incontravo da avversario non potevo fare a meno di pensare a quanto eccezionale fosse il suo talento. E anche il suo atletismo. In tanti lo vedevano come il tiratore che è sempre stato, in pochi si ricordano quanto saltasse a inizio carriera! Anche se già a 18 anni sapeva usare i blocchi come un veterano ed era in grado di prendersi dei tiri che a quasi tutti erano preclusi. Con il passare del tempo è maturato, è diventato un giocatore diverso, più completo, un passatore troppo spesso sottovalutato e più consapevole. Agli inizi certo, ha commesso qualche errore di gioventù, quella gioventù di chi sa di essere più forte degli altri: quante volte in nazionale si alzava all’ultimo momento per venire all’allenamento del mattino? E io, che da veterano gli rompevo le scatole ricordandogli di fare colazione, lo vedevo sorridere e… continuare a farlo. È stato un patrimonio del basket italiano. Intanto per una carriera più che decennale in NBA, praticamente sempre in doppia cifra di punti e in un ruolo come la guardia dove, storicamente, c’è sempre la maggiore concentrazione di talento. È stato un giocatore vero per la NBA, anche se a ogni stagione qualche 'espertone' gli suggeriva di tornare in Europa, a prescindere dal minutaggio. Per fare il protagonista, dicevano. E lui, giustamente, si arrabbiava perché era convinto di valere la NBA, di appartenere a quel mondo, dimostrandolo anno dopo anno, fino ad arrivare a vincere un anello nel 2014: un’impresa fino a oggi unica per il basket italiano. Le caratteristiche per farsi strada anche negli Stati Uniti le ha sempre avute: testa dura e voglia di dimostrare. Tutti hanno ben impressi nella memoria i 25 punti che ha segnato contro Team Usa ai Mondiali del 2006 in Giappone, la partita che gli ha aperto le porte del draft del 2007. Non che nessuno gli abbia mai regalato niente nella sua carriera. Anche le gambe e il talento li ha sempre avuti, ma con l’impegno e la professionalità ha saputo evolversi e costruirsi più di dieci stagioni di NBA, anche in contesti da playoff. È stato un maestro nelle uscite dai blocchi. Per ulteriori dettagli basta chiedere a Jaylen Brown, Mvp delle Finals del 2024, che lo ha definito come il più difficile da marcare in assoluto per il suo “non stare mai fermo”. Non ha mai rinunciato alla Nazionale, ha sempre risposto presente. Per lui era una vocazione e, giustamente, un onore. Quindi posso solo immaginare il rimpianto che è stata la maglia azzurra per lui, anche se sarà orgoglioso del percorso che ha fatto. Perché è un agonista. Perché, nei fatti, una medaglia con l’Italia è l’unica cosa che gli manca in un palmares ricchissimo. Quando ha iniziato eravamo una squadra in ricostruzione, l’insuccesso poteva essere messo in conto. Tutti gli altri anni, quelli con i ‘big three’ , e poi Datome, Gentile, Hackett, Melli: quanta sfortuna. L’unica piccola parte della sua carriera che, conoscendolo, gli ha lasciato un po’ di amaro in bocca. Ha vinto l’Mvp della Serie A non più tardi di un anno fa, a 38 anni, spiegando basket ancora a tutti. Eppure il sentore che potesse essere l’ultima stagione c’era. D’altronde di chilometri ne ha percorsi, e anche tanti. Dopo tutti questi anni di professionismo lascia da vincente, dopo lo scudetto con la sua Virtus, che ha portato al successo nazionale e continentale: anche qui, come per l’anello con San Antonio, non una cosa da tutti. Non è mai facile per un atleta dire basta, farlo come ha fatto lui forse lo ha reso meno complicato. Probabilmente aveva ancora un’altra stagione nel serbatoio, ma quanto è bello chiudere con un trofeo? Non so cosa gli riserverà il futuro. Se dovessi scommettere, per un po’ starà in famiglia, staccando dalla pallacanestro. Poi chissà, magari un ruolo in federazione, per dare ancora una parte di sé stesso al movimento cestistico italiano. Nessuno dimenticherà mai quella sua stagione con San Antonio: vincitore della gara da tre punti e titolo di campione NBA nello stesso anno, con quelle lacrime durante i festeggiamenti che certificavano che sì, lì ci poteva e doveva stare. Per non parlare della celebre esultanza degli ‘attributi’ in maglia Bulls: un instant classic della storia della recente della NBA. Anche se per me Beli rimarrà per sempre quel ragazzino esuberante che durante i ritiri della nazionale si svegliava all’ultimo momento prima degli allenamenti e che passava intere serate con Stefano Mancinelli a fare scherzi telefonici. Perché sì, ci hai fatto tanto emozionare, ma mi hai fatto anche molto ridere. E di questo ti ringrazio.

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Matteo Soragna