Miracolo a Milan: la storia vera che ha ispirato il film Hoosiers con Gene Hackman

Il 20 marzo 1954, un piccolo liceo dell’Indiana cambiò la storia di un’intera comunità vincendo il titolo statale contro la superpotenza Muncie Central grazie a The Shot: il ‘colpo vincente’ di Bobby Plump. Sette decenni dopo, il ricordo di ‘The Milan Miracle’ è più vivo che mai. Ma è un sogno che, con la riforma dei campionati liceali introdotta nel 1997, non potrà più ripetersi… «And most important… don’t get caught up thinking about winning or losing this game. If you put your effort and concentration into playing to your potential, to be the best that you can be, I don’t care what the scoreboard says at the end of the game, in my book we’re gonna be winners! OK?!» «I love you guys.» – Timeout di coach Norman Dale nella partita decisiva per andare in F4 ai suoi Hickory Huskers, Hoosiers «Sono stato formato come diventare un attore, non una star. E per interpretare ruoli, non per avere a che fare con fama e agenti. Se iniziassi a comportarmi da star, perderei il contatto con la gente comune che meglio so interpretare. Perché se si guarda a sé stessi come a delle star, si è già perso qualcosa nel rappresentare un essere umano». – Eugene Allen Hackman «There was no finer actor than Gene. Intense and instinctive. Never a false note.» – Clint Eastwood a Variety «A Milan, la gente non ci guardava come se fossimo speciali. Eravamo solo parte della comunità. L’unica volta in cui capii che lo eravamo diventati fu quando un poliziotto motociclista accese il motore e ci fece passare con tutti quei semafori rossi». – Bobby Plump, Teacher Magazine Un tipo da Oscar Non era tipo da red carpet degli Oscar, lui che pure ne ha vinti due. Il primo per Jimmy ‘Popeye’ Doyle, il bad cop della narcotici in ‘The French Connection’ di William Friedkin, che neppure lo voleva, idem per il protagonista con la parte. Il secondo per lo sceriffo Little Bill Daggett nel western ‘Unforgiven’ di Clint Eastwood, suo amico per la vita. E in nomination c’è andato altre tre volte, in altrettanti instant classics: per Buck Barrow, il fratello maggiore di Clyde in ‘Bonnie & Clyde’ di Arthur Penn; il quarantenne ignavo vedovo newyorkese e professore universitario Gene Garrison in ‘I Never Sang for My Father’ di Gilbert Cates; e per Rupert Anderson, l’iconico federale partner dell’agente speciale Alan Ward in ‘Mississippi Burning’ di Alan Parker. Storia tragicamente reale, l’assassinio di tre attivisti per i diritti civili degli afroamericani – James Chaney, Andrew Goodman e Michael Schwerner – compiuto nella notte tra il 21 e il 22 giugno del 1964 da appartenenti al Ku Klux Klan, comandati e coperti dalle autorità locali della Jessup County. A partire dallo sceriffo Ray Stuckey e dal sindaco Tilman . La scena-cult del vicesceriffo Clinton Pell interrogato da Anderson/Hackman “alla sua maniera” sulla poltrona girevole del barbiere è da antologia del cinema. Ma altro che il pur grande Lex Luthor, “La più grande mente criminale del nostro tempo”, in tre dei quattro ‘Superman’. O il finto cinico e disincantato Avery Tolar, l’associato senior di un losco mega-studio legale e mentore del rampante Mitch McDeere in ‘The Firm’ di Sydney Pollack. Nell’immaginario di noi gente di sport, Eugene Allen Hackman sarà per sempre, e prima di tutto, coach Norman Dale in ‘Hoosiers’ di David Anspaugh. Forse, e fors’anche senza forse, uno dei più grandi film a tema sportivo di sempre. Di sicuro – con ‘He Got Game, Glory Road’ , ‘Coach Carter’, ‘Blue Chips’, ‘Rebound’ , ‘White Men Can’t Jump’, ‘Hoop Dreams’ e pochi altri – fra i più riusciti di basket. E sul molto altro che, philjacksonianamente, il meraviglioso giochino si porta dentro. Per approfondire sul tema, cliccare qui. Il paradosso di una vita da film almeno quanto il suo misterioso e inquietante epilogo, è che, fra i vari sport che Hackman ha recitato sul set e praticato fuori , non era il basket quello che più lo appassionava. Erano piuttosto le corse automobilistiche in pista, e tra un ciak e l’altro ne ha pure vinte tre gareggiando per beneficenza fra celebrities. Una passionaccia, quella per i motori, contratta durante le riprese di ‘The French Connection’. E che lo ha portato a trionfare nella Toyota Pro-Celebrity Race a Watkins Glen e a Long Beach. A precisa domanda di Steven Cole Smith, ai tempi reporter del ‘Dallas Times Herald’, su quale fosse stato il vip più talentuoso, Bob Bondurant, racing coach di tante celebrità, rispose pronto: “Gene Hackman. Il più impressionante”. Sul set, invece, è stato il maestro di sci che si scontra col giovane Robert Redford, arrogante discesista con un sogno nel cuore, in ‘Downhill Racer’ di Michael Ritchie, girato con riprese spettacolari su veri campi di gara come Kitzbuhel e Wengen. E ancora allenatore, ma nel football, nella parte di coach Jimmy McGinty, in ‘The Replacements’ , ambientato durante lo sciopero – vero – dei giocatori NFL del 1987 e con Keanu Reeves nel ruolo di quarterback. Ma niente è paragonabile al tourbillon di emozioni regalateci nei panni di Norman Dale, coach degli Huskers della fittizia Hickory High School. Un luogo dell’anima talmente penetrato nell’immaginario collettivo non solo degli appassionati da indurre gli Indiana Pacers a giocare, il 6 novembre 2015 alla Bankers Life Fieldhouse di Indianapolis contro i Miami Heat, la storica prima ‘Hickory Night’: una partita ufficiale di regular season NBA giocata con quella divisa rossa-oro e sulla canotta la scritta ‘Hickory’. Anche marketing e merchandising hanno un cuore. Ah, per la cronaca i Pacers così bardati vinsero 90-87, con top scorer Paul George in doppia-doppia da 36 punti e 12 rimbalzi, più tre stoppate, altrettanti recuperi e una stoppata. «In 49 States it’s just basketball… But this is Indiana» – motto della Indiana Basketball Hall of Fame ‘The Milan Miracle’ L’Indiana. Stato “crocevia d’America”, recita un motto locale, e francese per oltre duecento anni , fu dapprima terra degli ‘indiani’, da cui il nome , poi, in competizione con il limitrofo Ohio, riserva agricola di granturco e frumento. Questo l’humus che ha nutrito “la più grande storia di basket mai raccontata”, stando all’omonimo libro di Greg Guffey. E, pur con qualche forzatura hollywoodiana, una delle meglio propagandate: il titolo statale delle scuole superiori vinto nel 1954 – dunque due anni dopo rispetto alla stagione in cui è ambientato il film – dalla minuscola Milan High School contro la grande Muncie Central. Superpotenza locale dell’omonima – e anonima – cittadina nella Delaware County dove nel 1968 David Letterman, hoosier DOC di Indianapolis, sposò in prime nozze Michelle Cooke, sua sweetheart alla Ball State University, in “Un garage del giudice di pace” perché “là non c’erano nemmeno un casinò o un’agenzia di scommesse”. Il 20 marzo, battendo 32-30 i Bearcats davanti a 15 mila pazzi scatenati disposti, quel sabato sera, a spendere fino a 50 dollari per stipare la Butler Fieldhouse di Indianapolis, la Milan diventa la scuola più piccola a laurearsi campione statale dal jurassico 1915, quando fu la Thorntown a superare la favorita Montmorency. La storiella di Davide e Golia ‘tira’ sempre, specie quando il sasso scagliato dal piccoletto abbatte il gigante non solo nelle sacre scritture ma anche nella realtà. Una realtà resa romanzesca, e sul set e nei ricordi, assai romanzata dalla drammaticità agonistica del canestro vincente segnato quasi all’ultimo secondo dalla guardia Robert Gene Plump . Un campagnolo locale cui il suo ‘The Shot’ cambierà la vita. Tramandata ai posteri dall’immancabile autobiografia, ‘Last of the Small Town Heroes’ che mai avrebbe scritto continuando a fare il benzinaio. E sul cui mito costruirà il proprio avvenire di consulente finanziario, agente assicurativo e immobiliare per la sua Bobby Plump & Associates e, più prosaicamente, il ‘Plump’s Last Shot’, ristorantino di poche pretese e tanti cimeli al 6416 di Cornell Avenue, nel quartiere di Broad Ripple, a Indianapolis. “Bobby Plump è un mito. Avrebbe potuto diventare Governatore di questo Stato se lo avesse voluto”, giurava Roger Dickinson, dal 1999 al 2009 Executive Director della Indiana Basketball Hall of Fame. Aveva ragione. L’Indianapolis Monthly Magazine lo ha inserito fra i più importanti ‘Hoosiers’ del secolo. Sports Illustrated del 6 settembre 1999 ha nominato gli Indians al 12° posto tra le più forti squadre del Novecento e Plump all’11° tra i più grandi atleti dello Stato. Certo, ben distante dallo scontatissimo podio – John Wooden, Larry Bird, Oscar Robertson – ma davanti a George McGinnis , Glenn ‘Big Dog’ Robinson , Clyde Lovellette , il cattivone Kent Benson , il monumento Steve Alford , il tiratore folle Rick ‘the Rocket’ Mount , Shawn Kemp , il pugile Tony Zale , che batté in due su tre epici match Rocky Graziano negli anni ’40; e persino l’iconico Tony Hinkle , 557 vittorie nel basket e oltre 1000 totali per la Butler University, che gli intitolò l’arena della famosa finale vinta dalla Milan nel 1954. Quasi ovvio, quindi, cercare di fare di una bella storia un successo anche al botteghino delle sale cinematografiche. ‘The Milan Miracle’ – così l’epica cavalcata di quegli Indians è passata alla storia – ha dunque ispirato ‘Hoosiers’, nel doppiaggio italiano criminalmente tradotto in ‘Colpo vincente’, con ovvio riferimento a ‘The Shot’ segnato da Plump. ‘Il tiro’ della vita, che però in inglese sta anche per grande chance . ‘Hoosiers’ è ritenuto a tutt’oggi uno dei più bei film di sport, addirittura il migliore secondo USA Today. Nel 2001 la United States Library of Congress ha giudicato la pellicola, candidata a due Academy Awards , meritevole di essere preservata nel National Film Registry perché “culturalmente significativa”. Il copione, poi, è perfetto. Una trama avvincente, l’ideale – indiscutibilmente americano – dell’underdog che alla fine ce la fa, l’ottimismo post-bellico non ancora ossessionato dalla caccia alle streghe maccartista, personaggi nei quali il pubblico poteva rispecchiarsi. Bastava aggiungere un generoso pizzico di sale che insaporisse, per usare le parole dello sceneggiatore Angelo Pizzo, “le vite troppo normali di quei troppo bravi ragazzi”. Diretto da quel volpone di Anspaugh , un altro con cui le scintille con Hackman non sono mancate e però bravo a rendere la veridicità delle azioni di gioco senza abusare del ralenty, ‘Hoosiers’ racconta una vicenda realmente accaduta. Narrata però seguendo un plot che il chicagoano Pizzo, hoosier adottivo, ha adattato a nomi fittizi e con situazioni di fantasia attinte dai ricordi di quando studiava alla Indiana University di Bloomington. Quella poi così indigesta a Larry Bird da indurlo a lasciarla, in autostop, dopo appena 24 giorni. Wood, così non Dale Peccato solo che lo spigoloso Norman Dale fosse quanto di più lontano – sul piano caratteriale e di carriera più che anagrafico – dal vero coach della Milan del 1954. L’allora 26enne Marvin Wood, era subentrato da due anni al popolare Herman ‘Snort’ Grinstead, licenziato dagli amministratori della scuola per aver ordinato senza autorizzazione le nuove divise da gioco. Nel film, Dale è invece un grintosissimo signore già di mezza età, con un discusso passato collegiale e l’uzzolo di farsi espellere per testare squadra e assistente-vecchia gloria, Wilbur ‘Shooter’ Flatch , dal gomito troppo spesso alzato. O di lasciare in campo soli quattro giocatori, se il quinto non rispettava gli ordini del coach. La Hickory, al cui capezzale era stato chiamato dal preside Cletus Summers , suo amico di lunga data, era per Dale l’ultima spiaggia: oltre alla cattedra di insegnante di educazione civica e storia, doveva preoccuparsi della squadra, caduta come il resto della comunità in un profondo stato di prostrazione per la morte del vecchio coach. Una perdita che aveva tolto la voglia di giocare alla stellina della squadra, ‘Jimmy C’ Chitwood , che, dopo la dipartita del genitore aveva trovato nel defunto allenatore un secondo padre prima ancora che un mentore. Figura che fu invece nella realtà coach Wood per l’ala titolare Bob Engel, i cui genitori si erano separati quando aveva due anni. Del tutto inventato, ma ritenuto funzionale alla causa del prodotto, il flirt fra Dale e la giovanile vicepreside Myra Fleener . Peraltro, ben visto dalla madre di lei, Opal , impicciona a fin di bene che per accasarla invita Dale alla loro fattoria per un pranzo domenicale rivelatosi poi ‘decisivo’. Sarà infatti allora che i due maturi piccioncini romperanno gli indugi, anche se fin dall’inizio Myra col collega era stata così acida che già dal primo incontro/scontro a scuola si era capito come sarebbero andati a finire. Insieme. Miss Fleener: "You’re not the new coach?" Mr. Dale: "Were you expecting somebody different?" Miss Fleener: "Younger, I guess." Mr. Dale: "I’m sorry to disappoint you." Mr. Dale: "You know, if everyone is as nice as you, country hospitality is going to get an awful name." Love story fittizia come il contorno, comunque. Entrambe le Fleener erano state un punto di riferimento per Jimmy C, ancora alle prese con la complicata elaborazione di aver perso il suo vecchio coach. Per proteggerlo, Myra cercava di evitargli le pressioni di un’intera comunità che non vedeva l’ora di rivederlo in squadra. Superfluo precisare che nulla di tutto ciò ebbe a che fare con la formazione campione nel 1954. Wood era di Milan e a 20 anni aveva sposato una ragazza del posto, Mary Lou, che gli aveva dato due figlie. Più che di un attempato sciupafemmine i suoi biografi, tra cui Kerry D. Marshall, autore di ‘A Boy, A Ball & A Dream: The Marvin Wood Story’, parlano di un fervente adepto Metodista , devoto alla famiglia e più ancora al basket. “Se al centro del campo ci fossimo stati io e un pallone da basket, Marvin chi o cosa avrebbe scelto?”. Un dubbio, quello di Mrs. Wood, che la dice lunga sui sacrifici offerti dal ménage familiare sull’altare dei successi sportivi del capofamiglia, che allenò fino all’ultimo , prima di arrendersi, a 71 anni, a un tumore alle ossa il 13 ottobre 1999. Capolinea di un viaggio che nell’Indiana lo aveva portato a guidare licei di French Lick , New Castle, Indianapolis North Central e Mishawaka e le ragazze del St. Mary’s College di South Bend. La realtà ‘reale’ però fu anche tante altre cose. È vero che in finale si affrontavano un piccolo liceo di provincia, con 161 studenti, 75 maschi, 58 dei quali provinati per la squadra, di un altrettanto piccolo centro rurale e un colosso dal bacino di utenza sette volte superiore, 1162 immatricolati ; e di grande tradizione, testimoniata dal record di otto titoli, gli ultimi in back-to-back nel 1951 e 1952, e dalle 17 partecipazioni alle State, le Final Four statali. È anche vero però che l’anno precedente, guidati dal nuovo coach Marvin Wood, gli Indians erano arrivati alle State, perdendo in semifinale contro la South Bend Central, poi campione. Erano forti quindi, e le conferme non erano mancate né in regular season, chiusa sul 19-2, né nella seconda fase del torneo, quando nelle Semi-State avevano eliminato la Indianapolis Crispus Attucks che schierava in un quintetto di neri un sophomore di nome Oscar Robertson e che al titolo conquistato nei due anni successivi avrebbe aggiunto la finale del 1957 e quello del 1959. In più, nel corso della stagione la Muncie Central aveva già perso contro una piccola, la Seymour. Un precedente beneaugurante per la cenerentola del confermatissimo Wood, che poteva contare su un gruppo affiatato, composto di dieci giocatori più due riserve. E il cui nucleo-base non era stato alterato dalle partenze di Jim Call, Ralph Preble, Dale Smith e Jim Weidelman, sostituiti con Glenn Butte, Rollin Cutter, Ken Delap e Bob Wichman. In quintetto, Ray Craft affiancava Plump nel backcourt, con il primo più point guard e il secondo più guardia tiratrice, anche se i due erano abbastanza intercambiabili, e come lunghi le ali Bob Engel e Ron Truitt e il centro Gene White. Come rincalzi due ali, il sophomore Cutter e Ken Wendelman, che in finale giocherà part-time da backup di White. «I play, coach stays. He goes, I go» – ‘Jimmy C’ Chitwood Come al gatto col topo Come Dale nel film, ambientato nel 1952, anche Wood aveva chiuso gli allenamenti al pubblico e cambiato il sistema di gioco che aveva ereditato dal predecessore. Politica e diversi metodi di insegnamento incomprensibili per una piccola comunità, fosse la reale Milan o la fittizia Hickory. Un piccolo mondo antico che viveva di basket e mai avrebbe permesso all’ultimo arrivato o al novellino di romperle, o sfilarle di mano, il giocattolo. Wood si ritrovò in una situazione difficile, ricordava Dickinson: “Aveva giocato alla Butler e gli piaceva quello stile. Si ritrovò nel più classico dei run and gun e lo rivoluzionò completamente”. Appena insediatosi però, Wood varò un “programma di continuità cestistica” forte di una difesa fatta di trappole disseminate a tutto campo e di un attacco a quattro angoli da lui chiamato ‘The cat and the mouse’, perché così voleva che i suoi ragazzi giocassero: come al gatto col topo. Al solito, le polemiche vennero sopite dalle vittorie, che per la stagione 1954 l’ambiente cominciava quasi a pretendere dopo l’exploit che l’anno prima aveva portato gli Indians nei primi quattro fra i 751 licei dello Stato. Suggestiva ma poco verosimile la situazione vissuta da Dale, che in una riunione cittadina, con tanto di votazione che avrebbe dovuto costargli il posto, si vede salvare la panchina dall’intervento di Jimmy Chitwood. L’introverso campioncino entra in scena all’improvviso per annunciare urbi et orbi che sì, tornerà a giocare, ma a una condizione: “I play, coach stays. He goes, I go” . Nella realtà, Wood non era messo così male il primo anno, figuriamoci il secondo, iniziato con otto vittorie consecutive. Inoltre, a differenza degli Huskers, gli Indians non dovettero attendere metà stagione prima che la loro stellina uscisse dal guscio e salvasse la panchina al coach: Bobby Plump, inevitabile ‘Mr. Basketball’ statale dell’anno, giocò male, semmai, proprio la finale: “In due anni di torneo, la mia peggior partita”. Fino a “The shot heard ’round the world”, il tiro di cui si sarebbe sentito parlare in tutto il mondo, Plump aveva tirato con un orribile 2 su 10 , poi segnò il canestro della vita e con esso entrò nella leggenda. «Se lo avessi sbagliato? Sarei ancora alla stazione di servizio a fare pieni di benzina” ripete spesso Bobby, con il sorriso stampato di chi sa quanto gli sia andata grassa e senza stare a chiedersi troppi perché. “La sola cosa che andò nello stesso modo è il tiro all’ultimo secondo”, spiega Craft. “Hanno provato a rendere tutto il più autentico possibile, ma non ci furono mai così tante polemiche. Sì, perdemmo un paio di partite all’inizio ma i problemi sparirono quando ricominciammo a vincere. Non so dire se fossimo presuntuosi o semplicemente sicuri di noi, però sentivamo di poter vincere ogni gara. E andavamo in campo con la filosofia di dover affrontare una partita alla volta. Non parlavamo mai di vincere il titolo, ma essere arrivati fin là l’anno prima ci aveva preparati. Non credo che avremmo vinto senza l’esperienza della stagione precedente”. Altro che spuntati dal nulla. Gli Indians erano ‘piccoli’ ma convinti e consapevoli delle proprie possibilità. Ciononostante, pare sia veramente accaduto l’episodio in cui Wood, preoccupato che i suoi scontassero l’impatto emotivo di disputare le State nella soggiogante arena della Butler University di Indianapolis, per tranquillizzarli misurò davanti a loro l’altezza dei canestri: anche nell’enorme Hinkle Fieldhouse era la stessa di quelli della loro palestrina alla Milan. Quel gesto, dirà poi al South Bend Tribune il reverendo Daniel Motto, rassicurò la squadra, che riuscì a scacciare la paura. Un racconto a parte merita il casting del coprotagonista, Maris Valainis. Homeboy di Indianapolis e di origine lettone, degli otto giocatori scritturati era uno dei due a non aver giocato a basket alle superiori: era stato tagliato per tre volte ai provini del suo liceo, la Bishop Chatard High School. Classe 1963, era stato invitato alle selezioni per il film dopo che il direttore del casting Ken Carlson lo aveva visto giocare in una serata ‘open’ in palestra. Stufo d’aspettare in fila con altre centinaia di aspiranti a una particina, Valainis stava per andarsene ma poi Carlson lo aveva riconosciuto e gli aveva chiesto di venire a sostenere l’audizione. Jimmy C: “I’ll make it”. Coach Dale: “All right. Buddy, Get the ball to Jimmy top of the key!” ‘Jimmy C’ il fenomeno La finale fu dura, equilibrata, con ritmo e punteggio bassi. Una diretta conseguenza della mancanza del limite temporale per andare al tiro. L’attacco degli Indians, molto orientato sulle guardie, i senior Craft e Plump, era stato tenuto vivo più dal primo che dal secondo, che non pareva in serata di grazia. Almeno fino al suo immortale ‘The Shot’. A 7’41” dal termine, con i suoi sotto di due , Plump palleggia per la bellezza di 4’13” prima che coach Wood chiami timeout nel tentativo di superare la zona 2-3 disposta dal collega avversario Jay McCreary. Alla ripresa del gioco, Plump sbaglia dal vertice sinistro dell’area. Barnes prende il rimbalzo difensivo ma la Muncie perde palla per un brutto passaggio di Flowers. Mancano 2’33” dall’ultima sirena. Dalla destra, Craft segna da 4-5 metri: 28-pari. Si va dall’altra parte, ancora Flowers sbaglia dalla destra. Rimbalzo difensivo di Truitt, fallo di Barnes. In lunetta Plump fa 2/2: 30-28 Milan. I Bearcats perdono un altro pallone , ne approfitta Craft che va dentro per il layup, ma il pallone gioca col ferro ed esce. Rimbalzo difensivo di Hinds, Flowers su assist di Barnes pareggia in sottomano: 30-30. A 18” dalla fine, Wood chiama ancora timeout. Quello decisivo. Nonostante l’errore appena commesso, l’ultima speranza è affidata a Plump, il miglior tiratore degli Indians ma certo non il leader visto negli ultimi 78” di gioco nel film ‘Hoosiers’, peraltro gli unici davvero aderenti alla realtà. “Ero un ragazzo timido e riservato, non avrei mai pronunciato una frase del tipo ‘Lo farò io’” dice Plump, riferendosi a quella detta nella finzione cinematografica da Jimmy C dopo aver letto lo smarrimento negli occhi del compagno inizialmente designato. Quell’“I’ll make it” che nel basket ha un duplice significato: prendersi sì il tiro, ma pure segnarlo. Plump stavolta non fallisce. Cinque secondi allo scadere, Bobby parte in palleggio dalla destra, per non commettere fallo Barnes gli consente l’arresto-e-tiro esiziale: 32-30, e Indians della Milan HS nella storia. Un appuntamento celebrato l’indomani con la parata di 35-40 mila tifosi, compresi quelli che per seguire la squadra avevano formato una carovana notturna di automezzi lunga 18 miglia. Per non parlare del 90 per cento della contea impossibilitato a recarsi a Indianapolis che si era sintonizzato alla radio. Un sentimento popolare sviscerato, ma per il football, come forse solo in ‘Friday Night’ di Harry Gerard ‘Buzz’ Bissinger. Il finimondo che ne seguì rientra nel bollente calderone della Hoosier Hysteria, l’isterismo collettivo di un’intera comunità che non sarebbe stata più la stessa. A cominciare dai giocatori. “Venivamo da una piccola comunità” disse Craft, che della Milan HS fu poi, per quattro anni, allenatore e amministratore. “Non avessimo vinto non saremmo mai potuti andare al college, invece nove dei dodici ragazzi della squadra si sono laureati. Fu un evento importante per tutti”. «Dobbiamo vincere per tutte le piccole scuole che non arriveranno mai fin qui». – Merle Webb , Hoosiers «La IHSAA ha eliminato lo Stato dalle finali statali. Nessuno sarà più campione statale, ma solo di categoria». – coach Bill Green Niente più miracoli Altri tempi, in tutti i sensi. E che difficilmente torneranno, dato che le chance che una piccola scuola sconfigga una ‘grande’ sono state azzerate dalla riforma dei campionati introdotta al termine della stagione 1997 dalla Indiana High School Athletic Association , l’ente che governa e supervisiona l’intero movimento del basket scolastico statale. E di cui fra gli associate commissioner all’epoca della riorganizzazione dei campionati, tanto avversata da Plump, annoverava quel Ray Craft suo compagno di backcourt negli Indians campioni nel 1954. Un paradosso d’anacronismo che alcuni chiamano modernità. L’esperimento doveva durare due anni, e se non avesse funzionato si sarebbe tornati al passato. Invece, ha segnato un futuro irreversibile. E non da favola. Niente più Miracoli a Milan: un mondo fantastico in cui “buongiorno voleva ancora davvero dire buongiorno”. Letture consigliate Greg Guffey The Greatest Basketball Story Ever Told The Milan Miracle 50th Anniversary Edition Indiana University Press Pieratt Marty, Ken Honeywell Bobby Plump: Last of the Small Town Heroes Good Morning Alessandro Mamoli, Michele Pettene Basketball Journey Viaggio on the road tra luoghi e leggende del basket USA Rizzoli Kerry D. Marshall A Boy, A Ball & A Dream The Marvin Wood Story Scott Gayle L. Johnson The Making of Hoosiers How a Small Movie from the Heartland Became One of America’s Favorite Films CreateSpace Phillip M. Hoose, Bob Plump Hoosiers: The Fabulous Basketball Life of Indiana Indiana University Press

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Miracolo a Milan: la storia vera che ha ispirato il film Hoosiers con Gene Hackman

Christian Giordano