Il calcio come passaggio di testimone, un'eredità che si trasmette di generazione in generazione. Lo racconta Fulvio Paglialunga nel suo libro: noi abbiamo scelto 5 storie, compresa quella dell'autore
Intervenendo alla presentazione del libro, Paolo Condò ha parlato di tenerezza. Una parola bella, che non siamo più abituati a usare (colpa nostra o di questi tempi?). La tenerezza è il filo conduttore che lega le storie di padri e figli nel calcio raccolte in “Un giorno questo calcio sarà tuo” di Fulvio Paglialunga (Baldini&Castoldi), perché con tenerezza, innanzitutto, sono raccontate. La tesi: la fede calcistica come un’eredità che si trasferisce di padre in figlio, di generazione in generazione; un patrimonio genetico che non è immune a mutazioni (capita, quando tifi per la squadra della tua piccola città che non conosce da anni la Serie A e ti ritrovi in casa un figlio juventino). Insomma: anche una cosa profonda come il rapporto padre-figlio si può raccontare attraverso una cosa semplice come il calcio.
Una giornata Genkissima
Vogliamo immaginare che si scriva con la K, “Genkissima”, perché così fa più giovane. Il termine però deriva da Genchi, inteso come Genchi Giuseppe attaccante del Taranto per un paio di stagioni, dal 2014 al 2016. “Quando ho portato per la prima volta mio figlio allo stadio con me”, racconta Paglialunga, tifoso del Taranto, “ho sentito di aver alzato il livello di condivisione con lui: era qualcosa di più dell’essere andati allo stadio insieme”. Lo stadio è quel luogo magico in cui le generazioni si incontrano a metà strada, con i bambini che fanno il loro ingresso in un mondo di adulti (immaginiamo la scena: “Papà, cosa vuol dire cornuto?”. Ma potrebbe andarvi anche peggio) e gli adulti che tornano un po’ bambini (a patto di non dare del cornuto a nessuno). È anche il posto in cui la fede calcistica ti tocca, e da quel momento in poi sarà difficile liberarsene. “Quand’è che segniamo?”: un figlio si rivolge al papà usando il “noi”, a quel punto è fatta. Il Taranto ha un nuovo tifoso; ha anche vinto 1-0, gol di Genchi. Uscendo dallo stadio, il figlio commenta: “Papà, è stata una giornata Genkissima”.
Da Peter a Kasper: gli Incredibili
Le due storie più incredibili del calcio moderno, quelle che per comodità chiamiamo favole, sono legate da un cognome: Schmeichel. Papà Peter, al piccolo Kasper, non ha trasferito solo la passione per il calcio e per il ruolo di portiere: deve avergli passato anche la predisposizione all’impresa. Il loro album di famiglia è fantastico: tenero, soprattutto, per tornare alla premessa. Dalla foto di Peter, sul prato dell’Old Trafford, mentre regge i suoi trofei insieme al piccolo Kasper, vestito anche lui con la divisa dello United, a quella del figlio che riceve la coppa della Premier, immortalato dal papà che voleva portarsi a casa uno scatto privato di quel momento. Ma soprattutto: Peter Schmeichel è il leggendario portiere del Manchester United entrato nella storia anche con la nazionale danese, quella che all’Europeo del 1992 non doveva neanche partecipare e che, richiamata dopo l’esclusione della Jugoslavia, andò a vincere contro qualsiasi pronostico. Kasper, all’epoca, era solo un bambino: ventiquattro anni dopo “ripeterà” l’impresa del papà facendoci sognare con il Leicester dei miracoli. Da quel momento in poi, non sarà più soltanto “il figlio di”, pesante etichetta che, con il cognome, si porta dietro chiunque abbia avuto un padre famoso. Lo certifica lo stesso papà Peter, con un gesto al contempo così social e così tenero, dopo la vittoria del Leicester: in un’era in cui per gli altri siamo quello che dice la nostra bio di twitter, lui la cambiò in “Papà del campione della Premier”. Un passo indietro, una “retrocessione”: per lasciare il posto – anche quello nella storia – al figlio.
Se Paolino avesse detto Inter
“Vuoi giocare nel Milan o nell’Inter?”. La domanda la rivolge papà Cesare al piccolo Paolo, quando si accorge che quel ragazzino è davvero portato per il calcio, forse anche più di lui, come dirà il Barone Liedholm quando lo farà esordire. Ciò che stupisce è che Cesare di cognome fa Maldini e che del Milan è stato bandiera, capitano, simbolo. Eppure, quella domanda la fa lo stesso: non vuole che Paolo segua una strada già tracciata, preferisce vederlo scegliere, anche sbagliare se necessario. Paolo risponde “Nel Milan” e la risposta si rivelerà esatta. Sarà a sua volta bandiera, capitano, simbolo del Milan: alzerà, con la fascia al braccio esattamente come il papà, la Coppa dei Campioni. Regalerà a Cesare due nipotini (Christian e Daniel), passati anche loro dal settore giovanile rossonero. Dopo il ritiro di Paolo, nessuno ha più indossato la maglia numero 3 del Milan: è stato deciso che potrà farlo, un giorno, se mai capiterà, solo un altro Maldini.
I Conti non tornano
Nella città che ha avuto sette Re più un ottavo in campo, e un Principe, Conti era il Sindaco. Per la Roma sarà anche altro: dirigente, tecnico del settore giovanile, allenatore-traghettatore nel momento del bisogno. Il tutto dopo essere stato un indimenticabile numero 7 nell’epoca in cui numero 7 significava ala di qualità, dal dribbling facile, dal cross morbido, mossa dal piacere per l’assist e per la giocata un po’ brasiliana. Bruno Conti, alla sua Roma, regala anche un figlio: Daniele inizia a muoversi nelle giovanili giallorosse, lascia intravedere quel talento necessario a esordire in prima squadra a 17 anni. Colleziona 5 presenze con la maglia che era stata del papà, segna anche un gol al suo esordio da titolare e va a esultare sotto alla Curva Sud, come fanno i veri figli della Roma. Festeggia così tanto da essere persino espulso. Pochi mesi dopo viene ceduto in comproprietà al Cagliari: ancora non lo sa, ma non tornerà più indietro. Lo farà solo in occasione delle sfide all’Olimpico, da avversario, dove – fischiatissimo – non mancherà di punire la sua ex-squadra, quella di papà, lasciando anche da parte l’ipocrisia di quelli che non esultano per rispetto. Arriverà persino a togliersi la maglia e a sventolarla a mo’ di bandiera. Lui, da bandiera del Cagliari, sotto gli occhi di papà Bruno.
Derby in famiglia
La Juventus che ha fatto incetta di scudetti e di nuovi piccoli tifosi non è riuscita ad ammaliare quello che sembrava il più facile da conquistare. Papà Leonardo è un leader dello spogliatoio, un mattone importante della imperforabile BBC, uno che non ha paura di dire quello che pensa, anche se si tratta di verità scomode. Ha allevato un figlio con gli stessi valori, e ad un certo punto anche Lorenzo ha deciso di fare di testa sua. Il figlio di Bonucci non solo non tifa Juve ma addirittura tifa Toro, e la voce inizia a spargersi il giorno della cerimonia della consegna dello scudetto 2016-2017, il sesto di fila per la Juventus. In campo è festa, sono tutti felici tranne uno: un bimbo triste “costretto” a vestire la maglia bianconera, come si usa in questi casi, quando le famiglie posano sul prato regalando scatti di pura gioia e serenità. Leonardo non ha mai fatto nulla per cercare di fargli cambiare idea: “Me lo tengo così”, ha sempre risposto allargando le braccia e il sorriso. Per vederlo felice è bastato poco, poi: gli ha fatto incontrare il suo idolo, a un derby. E l’abbraccio tra Bonucci Jr e il “Gallo” Belotti è una delle immagini del calcio che vogliamo lasciare ai nostri figli.