Tutti gli allenatori hanno un modello al quale hanno rubacchiato i segreti del mestiere, ma anche lo stile di leadership. C'è quello permissivo e quello severo, chi regala sorrisi e chi preferisce il bastone alla carota. La festa del papà è un po' anche la loro
Diceva Vujadin Boskov, con una delle sue insuperabili massime, che «allenatore deve essere maestro, amico e poliziotto». Non citava la figura che lo caratterizzava di più, proprio lui che per i suoi ragazzi era sì maestro, sì amico, poliziotto quanto basta ma soprattutto padre. Capita poi che un allenatore si riveli anche un “papà calcistico” tanto bravo da invogliare gli allievi a seguirne le orme nella loro seconda carriera, quella in panchina. E capita anche che qualcuno di questi allievi ricordi in modo particolare il maestro, o comunque abbia in lui il suo punto di riferimento. Sono soddisfazioni, dopo una vita passata a dispensare insegnamenti e carezze, alternandole agli urlacci e ai castighi.
Il papà orgoglioso
Giovanni Galeone non ha mai nascosto un debole per il suo “figlioccio” Max Allegri, pupillo da giocatore e orgoglio “di papà” adesso che da allenatore si è imposto come uno dei migliori al mondo. Già quando giocava “era troppo avanti”, ha raccontato di recente. “Io me lo sono portato ovunque ma con altri, tipo Tabarez e il Trap, non s'è preso. Fece una tournée col Milan, ma diciamo che non incontrò l'affetto di Capello. Fabio è legnoso, duro. I due caratteri non si conciliavano”. Pescara (dal '91 al '93), poi Perugia (stagione 95/96), Napoli (dove Galeone arriva nel novembre ’97 al posto di Mazzone e a dicembre si fa comprare Max), di nuovo Pescara due anni dopo: uno in panchina e l’altro in mezzo al campo, bastava uno sguardo per capirsi e poi, diciamolo, con i piedi Allegri ci sapeva fare eccome, ché “se doveva fare un lancio di 47 metri, lo faceva di 47 precisi”, ricorda Galeone come farebbe un papà rivedendo le vecchie pagelle del figliolo primo della classe, oggi affermato dottorone. Alla sua fonte si sono abbeverati anche Giampaolo e Gasperini, altri due che renderebbero orgoglioso ogni papà: portano avanti la tradizione del bel gioco ad ogni costo, valorizzano i giovani. Ma con Max, figliolo prediletto, il feeling è unico. E come dimenticare quei mesi passati insieme all’Udinese: autunno 2006, Galeone al timone dei bianconeri, Allegri da poco a piedi dopo essere stato esonerato dal Grosseto. Era ancora agli inizi, Max: gli serviva fiducia. Il suo mentore gli lanciò una scialuppa, prendendolo al proprio fianco come collaboratore tecnico: durò fino a gennaio 2007, fino all’esonero di Galeone, e l’ultima panchina in carriera del maestro coincise con il rilancio dell’allievo, che da lì in poi inizierà la scalata che in tre anni appena lo porterà al Milan, via Sassuolo e Cagliari. Chiamatela pure eredità.
Il papà burbero ma divertente
C’è anche chi ha faticato parecchio a scrollarsi di dosso un’etichetta, dimostrando che gli insegnamenti di papà possono essere interiorizzati e rielaborati, non per forza riproposti pari pari. Per anni Eusebio Di Francesco è stato “il nuovo Zeman”, lo “Zeman 2.0”: è bastato che, da allenatore, riproponesse un 4-3-3 molto verticale, come quello che era abituato a praticare da giocatore della Roma allenata dal boemo, e subito si è scatenata la corsa al soprannome. Zemaniano sì, perché la scuola è quella e non si discute, ma meno integralista del maestro, se vogliamo vedere l’attenzione che ci mette alla fase difensiva. Di Francesco non nasconde di aver imparato tanto da Zeman (“Un punto di riferimento”) e non gli nega mai un grazie: ma è come uno di quei figli che pur rivedendosi nel padre a un certo punto rivendicano la propria indipendenza, prendono una strada diversa. Il “piccolo” Eusebio oggi gioca anche con moduli diversi, spiega calcio anche ai difensori. Ricorda il “papà” nel modo in cui attacca con tanti giocatori, verticalizzando e con la porta avversaria come obiettivo ben chiaro nella testa; nell’importanza del gioco senza palla (tempo e spazio, variabili fondamentali di ogni teorema di Zeman); nel coraggio e nel piacere con cui lancia i giovani; nelle poche – ma chiare – indicazioni che costituiscono le linee-guida del suo calcio: “Lo dico sempre ai miei ragazzi: due passaggi in orizzontale sono già troppi”. Non crediate che abbia dimenticato Zeman: difficilmente lo dimentica chi ha fatto i suoi gradoni. Eppure il ricordo è dolce, nonostante le salite: “Era dieci anni avanti. Con lui mi divertivo in campo e fuori: è l’unico allenatore che mi ha fatto ridere”.
Tra i papà severi come non citare Sacchi: Ancelotti il suo pupillo, voluto prima a centrocampo nonostante un’invalidità del 20% a un ginocchio che non convinceva Berlusconi (“Presidente, mi preoccuperei se l’invalidità ce l’avesse al cervello”) e poi al suo fianco nello staff della Nazionale. Oggi, se Sacchi dovesse indicare un erede, direbbe Sarri. E poi il burbero Lippi: dalla sua scuola esce Antonio Conte che però, come spiegato agli inglesi da un articolo del Guardian, ha anche qualcosa di Trapattoni, Sacchi e Ancelotti. Chi ha avuto tanti papà, e tutti di altissimo livello, è portato a rubacchiare il meglio da ognuno di loro, per farne una sintesi propria. “Sono un allenatore che copia e attinge un po’ da tutti”, ha spiegato ad esempio Gasperini citando i suoi maestri Catuzzi, Galeone e Lippi (sulla panchina della Juventus quando Gasp allenava le giovanili bianconere). “Non sono uno che inventa: prendo spunti da tante situazioni, cercando di dare una mia interpretazione”.
Tutti i figli di Sven, il papà buono
Approccio diverso, da papà comprensivo e sempre disposto al dialogo, quello di Sven Goran Eriksson. Lo scudetto con la Lazio fu il frutto di un sapiente lavoro di equilibrismo, non solo in campo ma soprattutto nello spogliatoio. Mancini, Veron, Mihajlovic, Simeone, solo per citare i più carismatici: personalità forti, con una certa propensione allo scontro. A volte basta una scintilla per far esplodere uno spogliatoio. Eriksson riuscì a tenere alta la concentrazione sull’obiettivo comune: con infinita pazienza, fingendo di non sentire in più di un caso (specie se sostituiva Mancini), perdonando qualche mattana. C’era sempre una carezza per tutti. Oggi, fresco settantenne, ha “figli” sparsi in tutto il mondo, da Sergio Conceicao ad Almeyda, da Mihajlovic a Nesta, da Mancini a Simeone, e tutti – a turno – lo ricordano come un maestro saggio e buono, ammettendo di aver imparato qualcosa da lui. L’ultimo della nidiata è il piccolo Simone Inzaghi (“Mi sta stupendo, è bravissimo”, la benedizione di Sven), che ricorda papà per certe idee tattiche, tipo quella di affidarsi a un centravanti solo supportato da una schiera di centrocampisti dall’inserimento facile.
La squadra-famiglia
Orgoglioso del lavoro fatto non può che essere anche Ancelotti. Il Gattuso allenatore, in fondo, è una sua creatura, frutto di quel rapporto speciale che si era creato ai tempi in cui Carletto allenava il Milan. Ancelotti è stato il papà che ha fermato Rino sulla porta, quando deluso e amareggiato dopo la notte di Istanbul voleva scappare di casa: “Resta qui, riproviamoci insieme”. Come ha ricordato Gattuso nel giorno dei suoi 40 anni, ringraziando gli ex compagni, la rivincita di Atene è arrivata grazie ad Ancelotti e ora lui sta riproponendo il suo stile di leadership – con una spruzzata di peperoncino in più – fatto di rapporti schietti e amicali con i giocatori. La squadra come una famiglia, e Ancelotti conferma quando fa i complimenti a Ringhio, capace di “inculcare nella testa dei calciatori l’idea del collettivo”, concetto a sua volta trasmessogli da papà Arrigo e che lui negli anni ha ammorbidito con comportamenti più da amico e meno da poliziotto, per tornare a Boskov. Gattuso ringrazia e replica: "Lui per me non è stato solo un allenatore ma anche fratello, amico e papà". Eccola qua, la massima di nonno Vujadin rielaborata da uno dei suoi nipotini.