Di Stefano "el mas grande", 10 anni senza la Saeta Rubia

Alfredo Di Stefano, la Saeta Rubia. La cui leggenda, nel decennale della scomparsa, non accenna a sbiadire, anzi, insiste nell'amplificarsi. Nessun mistero, le ragioni sono tante, e tutte solidissime. L'irresistibile fascino del personaggio , lo spessore unico del fuoriclasse, il clamoroso sequestro di cui fu vittima e naturalmente il peso straordinario delle conquiste. Nel suo romanzo lampeggiano 2 Palloni d'Oro e 5 Coppe dei Campioni di fila, dal '56 al '60, con la sua firma tra i marcatori in tutte le finali, in quel tonante ciclo del Real Madrid, squadra cannibale illuminata anche da Gento, Puskas, Kopa. Insomma, pezzo unico Don Alfredo. Neppure Pelè aveva dubbi sulla sua grandezza: "E' stato il migliore. Più completo di me e Maradona". E il motivo amava spiegarlo Enzo Bearzot: "Perché il suo raggio d'azione - s'infervorava il Vecio - era il campo, erano 110 metri". Di Stefano fu il campione che anticipò la svolta eretica di Cruijff. E' stato, come l'olandese, come pochi altri nell'evoluzione del gioco, anticipatore e progressista, il suo calcio profumava costantemente di futuro. Al centro il concetto di squadra-orchestra declinato attraverso visioni cartesiane. Quelle di un Von Karajan che dirigeva sé stesso, dall'alto o dal basso, a seconda delle esigenze. Non esisteva dimensione nella quale Di Stefano non sapesse calarsi. Difendeva, costruiva, finalizzava con identica efficacia. Come avere due giocatori in ogni ruolo. Caratura simile a quella di Valentino Mazzola, altro sublime tuttocampista, "un torello coi piedi divini", copyright bonipertiano. Di Stefano era mix superbo di muscoli e neuroni, era bacchetta e violino, rifinitore e centravanti, regista e terzino, dominus e, se necessario, persino portaborraccia. Ovunque spalmava il suo estro, la superiore intelligenza registica. A guidarlo la religione del fisico e la supremazia del "noi" rispetto all' "io". Con qualche deroga, serenamente accettata da chi, affiancandolo, disponeva del privilegio di respirarne la genialità. Magari chiudendo un occhio davanti alla sproporzione degli ingaggi. "Tra i miei obiettivi nella vita - il succo del luccicante pragmatismo della Saeta - c'è anche quello di accumulare capitali". Investire sul suo immenso repertorio era comunque affare garantito. "Lui era al principio, durante e alla fine delle giocate da gol - ha scritto Eduardo Galeano - e segnava reti di tutti i colori". Mai gol banali, solo svolazzi d'artista. Come quello in maglia Spagna contro il Belgio nel '57. Miguel a crossare dalla destra e la Saeta a lanciarsi in orizzontale con sorprendente scelta di tempo. E lassù, sospeso in quota, il prodigio figlio del suo istinto acrobatico. E della lucida follia del fenomeno. A quel punto troppo facile, per uno come lui, optare per l'incornata. Troppo bello, semmai, incendiare lo stupore della platea. Come puntualmente accade quando Di Stefano congegna il crimine perfetto, con un colpo di tacco al volo spara un proiettile all'incrocio. Magia, una delle tante. Che forse il gruppo di guerriglieri filocastristi, travestiti da militari, che lo rapirono nell'Agosto del '63, a Caracas, mentre era in tournée con il Real, intendeva godersi in privato. Di certo si trattò di un sequestro politico, in linea coi tempi, quando certe azioni dimostrative erano funzionali ad una causa, ad un manifesto eversivo. Di Stefano era la preda perfetta, vista la sua fama planetaria, per le Forze Armate di Liberazione Nazionale in lotta contro il Presidente del Venezuela. Venne prelevato dalla sua stanza d'albergo, legato, bendato, incappucciato. E per 56 ore si temette per la sua vita. Con la moglie a lanciare continui appelli da Madrid. Tensione che si sciolse solo quando Di Stefano venne liberato davanti all'ambasciata spagnola di Caracas. Senza un graffio. E con tante scuse. Si scoprirà che aveva ingannato il tempo giocando a carte coi suoi 'carcerieri', leggendo i giornali, spiluccando macedonia. Nessuno sfregio alla sacralità della figura. Anzi, lo scampato pericolo ne ingigantì il mito. E Di Stefano allo status di numero uno ci teneva, eccome. S'infuriava quando i media lo accostavano ad altri campioni. Capitava con Luis Suarez, l'architetto della Grande Inter. "Suarez resta in trincea e manda gli altri all'assalto - ringhiava indispettito - io faccio lo stesso lavoro e in più segno quaranta gol all'anno". Nessun timore della concorrenza, fede assoluta nel proprio talento, massima cura nella gestione della griffe. E idee chiarissime, vagamente romantiche, su chi ringraziare a fine carriera. Nel giardino della sua villa, nei pressi del Bernabeu, Di Stefano fece erigere una scultura con una palla in bronzo. Su cui tuttora campeggia, ben visibile, la scritta: "Gracias vieja", grazie vecchia mia. Come dire, senza di te l'epica della Saeta Rubia non sarebbe mai esistita. L'inchino, devoto, del mas grande.