Forte come Iniesta ho visto solo Paolo Maldini

Adesso che Andres Iniesta ha annunciato anche ufficialmente il suo ritiro, una postilla rispetto all’addio vero che fu quello al Barcellona , ripenso con nostalgia a quello che fu un amore a prima vista. Il classico colpo di fulmine. Arrivato a Barcellona per raccontare le prodezze di Ronaldinho e l’ascesa del prodigioso Leo Messi, rimasi letteralmente imbambolato davanti al tocco di palla di Iniesta. Era l’autunno del 2005, lui 21enne aveva ancora i capelli, indossava la maglia numero 24 e giocava in tutti i ruoli del centrocampo a seconda di quale dei titolari mancasse, che fosse l’euclideo Xavi oppure Thiago Motta con i capelli raccolti dietro in uno chignon, o magari il capo branco Deco e perfino Van Bommel, che a dispetto del livello tecnico meno stellare calciava in porta ogni pallone che gli capitava a tiro, e gli altri un po’ sbuffavano. Era il Barcellona di Frank Rijkaard, il ponte fra la brutalità del secondo Van Gaal e il genio di Guardiola, l’artefice di un passaggio fondamentale nella storia del club catalano perché fu lui a ricreare in prima squadra l’ambiente disteso della Masia. Eccola qui, la prima parola chiave della storia di don Andres: la Masia, la splendida casa di campagna in stile catalano che sorge accanto al Camp Nou, per molti anni residenza del vivaio del Barcellona, la famosa cantera. Proveniente dalla Mancha, Iniesta ci entrò a 12 anni e passò i primi mesi a piangere, essenzialmente, perché 12 anni sono troppo pochi per separarsi dalla famiglia. Timido e sensibile, Andres racconta nella sua autobiografia “La jugada de mi vida” che il primo a prenderlo sotto la sua ala protettiva fu Victor Valdes, di due anni più grandicello ma soprattutto dotato di un carattere spavaldo. A vegliare sul dormitorio, a impedire le sopraffazioni dei bulletti ai danni dei ragazzini, c’era il capitano di sempre Carles Puyol, più anziano di sei anni, l’uomo che poi l’avrebbe accolto nello spogliatoio della prima squadra. Il libro racconta la nascita di un gruppo che avrebbe fatto la storia del calcio , e dell’educazione alla competizione a partire dalle regole d’ingaggio. Quelle che Ibrahimovic, che viene da un’infanzia più difficile, stentava a sopportare nel suo breve passaggio per il Barça, stupefatto dall’accondiscendenza senza capricci dei “migliori giocatori del mondo” al loro allenatore. Fuori dalla razza dei goleador implacabili, che fatalmente monopolizza l’albo d’oro dei premi individuali, Andres Iniesta e Paolo Maldini - un centrocampista e un difensore - sono i campioni più luminosi che abbia avuto il privilegio di seguire in tanti anni di calcio. È sicuramente paradossale, come rilevò Emiliano Battazzi su Ultimo Uomo in occasione dell’addio al Barça, che la più grande fonte di gioco mai vista venga ricordata per due gol, importantissimi ma diavolo, non era quello il suo core business. Su quelle reti torneremo più avanti, perché io voglio dire che di Iniesta mi tengo un passaggio, e se volessimo inviare un satellite nello spazio infinito per raccontare agli alieni cosa sia il calcio metterei quello, assieme ovviamente ai gol di Messi e Ronaldo. Erano entrambi in campo, la sera di quel passaggio, ma curiosamente non segnarono: 29 novembre 2010, la noche de la manita. Ero in tribuna al Camp Nou e del 5-0 del Barcellona di Guardiola al Real Madrid di Mourinho rammento innanzitutto l’assist di Iniesta a Xavi per il primo gol. Danzava in mezzo a quattro uomini, don Andres, mentre il compagno si infilava in area un po’ a sorpresa, perché non era uno dei suoi percorsi abitudinari. Xavi entrò scivolando fra altri due difensori del Real, e il passaggio di Iniesta attraversò uno spazio nel quale gravitavano sei avversari. Un laser-pass che per viaggiare dieci centimetri fuori dalla portata di così tanti giocatori non doveva soltanto seguire una traiettoria perfetta, ma doveva anche essere perfetto nel dosaggio della forza, che Iniesta scelse alta tanto che Xavi riuscì a controllarla solo in due tempi, o meglio la palla gli si impennò davanti al primo stop, e lui la infilò in porta con un secondo tocco. Mi è rimasto in memoria come il passaggio per antonomasia, e rende omaggio all’arte precipua del fuoriclasse spagnolo: la visione. Come il grande scacchista sa prevedere lo sviluppo di una partita fino a una ventina di mosse avanti, così Iniesta agiva interpretando il movimento di compagni e avversari, e immaginando dove si sarebbero trovati da lì a dieci secondi. Poi ci sono i due gol, pazzeschi per il tempismo e la mostruosa importanza. Il primo è del 6 maggio 2009, l’1-1 del Barcellona a Stamford Bridge, passaporto per la prima finale di Guardiola, quella vinta a Roma sul Manchester United. È un gol che sancisce un’ingiustizia, perché l’arbitraggio di Ovrebo obiettivamente danneggiò il Chelsea. Premesso questo, è un gol che Andres vede arrivare, tanto da fermarsi mentre Messi - siamo al 93’ - risale la linea dei sedici metri da sinistra a destra in cerca di un’idea estrema: i difensori proseguono invece la loro corsa verso l’area, e l’indugio regala a Iniesta un magico momento di sospensione libera che lui sfrutta calciando quasi da fermo, di destro, all’incrocio dei pali. È il gol che cambia tutto, perché da lì il Barça accede alla finale, e poi alla Supercoppa Europea e al Mondiale per club: in 18 mesi vince sei titoli, senza quella prodezza si sarebbe fermato al massimo a tre. L’altra rete capitale di Iniesta è naturalmente l’1-0 della finale mondiale 2010, minuto 116, e dunque alla fine dei tempi supplementari: la freddezza sovrannaturale di infilare il diagonale di destro su assist di Cesc Fabregas e dare alla Spagna il titolo mondiale. Iniesta racconta di aver sentito al momento del tiro un silenzio assoluto attorno a sé, e siccome ovviamente il rumore di Soccer City - vuvuzela incluse - era assordante, sappiamo quel che succede a un campione nei momenti decisivi. È solo col gesto che deve compiere, in preda a una concentrazione da posseduto. Chissà se in un frame di quell’attimo assoluto - quello in cui si dice che ti passi la vita davanti - c’era un bambino di 12 anni che si asciugava una lacrima.