In ricordo di Beppe Viola: ironia dissacrante, il derbycidio e quell'intervista sul tram

Ogni epoca cade addosso ai suoi attori come un abito, ma solo alcuni riescono a indossarlo compiutamente, interpretandolo per dargli senso, eleganza, spessore. Ogni luogo ha un’anima e una storia, ma solo alcuni riescono a incardinarne la narrazione cogliendone l’essenza, la complessità, le sfumature. La Milano degli anni ’70 non era ancora quella ‘da bere’ e non era sinonimo di moda. Al contrario era una realtà sospesa tra provincialismo e grandeur, tra rivolte studentesche e boom economico, tra fabbriche e tensioni sociali. Niente grattacieli o multinazionali, ma tante drogherie, cartolerie, mercerie e bar, di solito d’estetica proletaria e filosofia popolare. Beppe Viola si è mosso tra i nodi di quella trama incomprensibile senza la pretesa di scioglierli, ma di analizzarli, descriverli, esorcizzarli. Di lui hanno scritto in tanti giganti della penna e del giornalismo, da Brera a Mura, e per chi abbia un minimo di umiltà e misura è impossibile aggiungere qualcosa di significativo ai loro tratteggi. Ma oggi dalla sua morte sono passati 42 anni, esattamente quelli che vantava all’anagrafe quando, nell’ottobre del 1982, se ne andò. E allora forse vale la pena che un uomo attempato, allora adolescente, ricordi il respiro di quella figura così bonaria ed empatica che sollecitava le sensibilità e le menti. Sembrava un personaggio da cartone animato: outfit approssimativo, coiffure sgangherata, pinguitudine rassicurante, sorriso malinconico e occhiaie da ore piccole. Si muoveva con ironia, talvolta delicata, talvolta tagliente. Confezionata con una cantilena tipicamente milanese, malgrado le origini salernitane del nonno. Del resto, quella Milano lì era un laboratorio di integrazione, non sempre lineare ma spesso amorevole. E suscitava attesa perché tutti sapevano che il suo successivo servizio avrebbe avuto contenuti divertenti ma pieni di spunti di riflessione. Non si può parlare di Beppe Viola se non per metonimia, una parte per il tutto, perché è dalla singola pennellata che si riconosce lo stile di un artista. E lui lo era. Ricordava il Perozzi, indimenticabile personaggio di ‘Amici miei’, il giornalista dissacrante che non prendeva mai nulla sul serio proprio perché è l’ironia l’unica chiave seria per interpretare la follia del mondo. Un ‘carattere’ non a caso messo in scena da Monicelli, genio della regia che vibrava con le stesse corde di Viola. Tanto che Beppe ne divenne sceneggiatore e dialoghista in un altro capolavoro, ‘Romanzo popolare’. Quello cantato da ‘Vincenzina e la fabbrica’ di Jannacci, quello in cui Giulio , avvolto da un cappotto sgualcito, interrompe la moglie Vincenzina alle prese con il bucato sulla terrazza di un anonimo e proletario palazzone per offrirgli la poesia di un panorama fatto di una lunga teoria di ciminiere. “Ogni operaio si innamora della sua fabbrica – le dice con espressione sognante – e la riconosce tra mille. Vedi quella ciminiera che getta fumo giallognolo, là sulla sinistra? E’ lei, la mia”. Una grottesca traslazione del leopardiano colle dell’infinito, cui segue l’inevitabile rasoiata di Vincenzina: “Boh, a me sembrano tutte uguali”. Perché la poesia è un lusso, una piccola oasi di malinconia in un deserto di banalità e sacrificio. Ecco perché l’ironia dissacrante, ecco perché la necessità di sorridere di tutto, anche di noi stessi. “Lei è mai stato innamorato? – una sua celebre battuta – No, ho sempre fatto il benzinaio”. E probabilmente non è un caso che in un servizio sul Golf, Beppe Viola ne vantasse le arti tecniche con una definizione monicelliana: “passo da millepiedi, precisone e velocità di braccio”, quasi un omaggio alla definizione di genio in ‘Amici miei’. Ha attraversato e raccontato momenti storici del calcio, senza enfasi o prosopopea, come l’ultima di Nereo Rocco e Sandro Mazzola, Finale di Coppa Italia tra Milan e Inter, raccogliendo la fierezza contadina del primo e la citazione dantesca del secondo. Ma anche la preparazione al Mondiale 1982 dell’Italia di Bearzot in ritiro ad Alassio. In un resort chiamato ‘La puerta del sol’: “come augurio ci siamo – disse Viola – ma non è stato scelto per questo o per il nome spagnolo, semplicemente perché qui gli azzurri non spendono niente”. E se tutta l’opinione pubblica approcciava a quell’appuntamento con la solita tensione italica, lui prima descrisse l’aura monacale del ritiro azzurro con sarcasmo… “la Patria la si difende sì, sgozzando Camerun e Polonia, ma anche portando la cintura di castità per una quarantina di giorni, col rischio tra l’altro che alla fine persino Bruno Conti possa essere scambiato per Ornella Muti”, poi intervistò Ciccio Graziani buttandogli lì un “ma omosessuali in Nazionale ce ne sono?” e infine a Bearzot, condottiero prossimo alla spedizione, non chiese nulla del Mondiale che sarebbe cominciato di lì a poco, ma semplicemente se dopo il torneo ritenesse di dover restare ancora Ct. Nessuno si offendeva davvero, perché certe punture erano ammantate di apparente leggerezza e il tono ironico lasciava all’interlocutore le porte aperte all’uso dello stesso registro. “Quale incriminazione si potrebbe dare a due squadre che hanno depresso un incasso di più di 600 milioni?” chiese all’avvocato Prisco dopo un derby vinto dall’Inter 1-0 senza spettacolo. “Beh, noi interisti abbiamo contribuito moltissimo a quell’incasso – rispose il vicepresidente nerazzurro – e credo lo ‘butteremmo’ molte altre volte se questo significasse vincere contro il Milan”. E sempre di derby Beppe Viola trattava quando decise di coprire con immagini di un Milan-Inter d’annata il suo servizio su un derby deludentissimo del marzo 1977, finito 0-0: “Andiamo a vedere se Inter e Milan si ricordano che per noi il derby è ancora una cosa seria. Così pensavano i 70.000 di San Siro… – l’incipit del suo pezzo – Una festa soprattutto per i due beniamini, Mazzola e Rivera, forse alla loro ultima stretta di mano pubblica. Poi invece una partita bruttissima, un autentico derbycidio. Quando un appassionato di musica torna a casa deluso da un concerto che tanto prometteva, per rifarsi le orecchie sistema sul giradischi un pezzo classico, un espediente insomma che provveda all’immediato riavvicinamento alla cosa amata. Noi, per rispetto dei tanti tifosi milanesi, abbiamo avuto più o meno la stessa idea, riaprendo l’album dei ricordi. Proponiamo un pezzo da cineteca, roba buona, un derby del febbraio 1963”. E via al racconto di un derby passato per sovrapporre emozioni positive al nulla vissuto poche ore prima allo stadio. Perché il derby è una cosa seria. Sì, serissima, allo stesso modo del Derby inteso come locale che, come noto, Beppe Viola frequentava insieme a quella nidiata di comici che ha fatto epoca, da Cochi e Renato a Boldi-Teocoli, da Abatantuono a Porcaro. E con i quali aveva costituito l’Ufficio Facce, altro rimando strepitoso all’apparente sarcasmo da Amici Miei. Una persona qualsiasi entrava nella pasticceria Gattullo e il gruppo, praticando una sorta di surreale fisiognomica, si pronunciava sulle sue simpatie calcistiche. Seguivano scommesse e verifica. Un po’ come andare sul binario e salutare con uno schiaffone i disorientati viaggiatori affacciati al finestrino, un po’ come psicanalizzare ‘il Righi’ e coinvolgerlo in un’improbabile banda criminale. Un modo per dissacrare e ridere. Non di loro, ma con loro. E di noi stessi, dei vizi e delle virtù di un popolo in evoluzione ma sempre ancorato a luoghi comuni e rigide tradizioni. Non è solo arte, è politica, è sociologia. Come l’idea di trascinare un calciatore osannato fuori dallo stadio e portarlo su un tram, il numero 15, in un normale giorno feriale. Per porgli domande che andassero oltre al pallone. “C’è una frase di Jannacci: nessuno si occupa di quelli che prendono il tram. Tu te ne occupi?”. L’interlocutore era Gianni Rivera per un servizio natalizio della Domenica sportiva. E su quei binari si snodò un’intervista intima e sociale, rimasta nella storia. Quasi a evocare ‘io e te’ un testo di Beppe per una canzone di Enzo Jannacci: “l’avvenire è un buco nero in fondo al tram”. Già, Jannacci e “quelli che…”. Jacques Prévert nel 1931 aveva scritto “tentativo di descrizione di un banchetto a Parigi” utilizzando quella formula. Enzo ne ha fatto una canzone blues adattandone i contenuti ai suoi tempi e sfoderando un capolavoro di ironia. Il blues è il tempio della malinconia, l’ironia e la risata ne sono le ancelle più fedeli. E non è un caso che Beppe abbia scritto il testo di un’altra canzone famosa di Enzo: “Rido, rido di tutto e rido. Non faccio apposta e rido, questo è il mio mestiere…”. Quando il Perozzi in Amici Miei muore improvvisamente, il Melandri si abbandona a uno scatto di rabbia: “Ah, come vorrei che venisse fuori un funeralone! E migliaia di persone, e tutti a piangere! E corone, telegrammi, bande, bandiere…puttane, militari…”. Per poi accasciarsi alla tristezza. Ma durante il corteo funebre tutti e 4 i sopravvissuti ‘amici miei’ non resistono. E camminando dietro al feretro trovano il modo di lanciare una battuta sferzante, nascondendo l’emersione del riso dietro la finzione delle lacrime. In precedenza, il Mascetti, disorientato alla notizia della morte dell’amico, non era riuscito a dire altro se non “Ma che, è morto davvero?”. La stessa frase che un adolescente di 14 anni disse a sé stesso di fronte alla notizia del decesso di Beppe Viola il 18 ottobre 1982. E che oggi, 56enne, non può che ricordare sorridendo. Perché nulla va preso sul serio, nemmeno la morte: “Rido, chiude la ditta e rido, tolgo il disturbo e rido. Rido, si è spento un sogno e rido, allora o vivo o rido, e poi non rido più”.

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