Da Tolstoj a Rodri, passando per Orson Welles, quello che i premi non dicono

Dai premi pretendiamo: che siano giusti; che siano onesti testimoni del tempo che attraversano; che esaltino e non dimentichino. Attribuendo a questo ‘momento’ un valore etico che discende da un proprio gusto elevato a criterio, innalzato a giustizia, i premi in fondo servono anche a questo: a far discutere. La discussione è un motore del mondo . La scelta di altri, molti altri o pochi altri, diventa un valore universale solo perché i premi ci aiutano a ri-costruire una memoria. Come ogni cerimonia, resta, rintocca nella vita, ricorda e consacra. Avessimo un rapporto più autorevole con la memoria e un rispetto più genuino per le emozioni, avremmo meno bisogno di questa liturgia alla quale infine non crediamo. Eppure, una conta dei vinti basterebbe a dissacrare il concetto di premio, o meglio: a lasciarlo come passaggio non conclusivo, non esaustivo, e per origine stessa non ‘pacifico’ di qualsiasi cosa stiamo parlando: Tolstoj prima di salutarci fece in tempo a vedere il Nobel per la Letteratura andare a una decina di coevi, e non a lui. James Joyce ne contò una quarantina, e poi Borges . E prima Scott Fitzgerald, e poi ancora Roth e per ultimo Cormac McCarthy. E fra le scrittrici: Yourcenar e De Beauvoir . Saremmo provinciali a ricordare che Vasco Rossi e Zucchero arrivarono penultimi a Sanremo, preferiamo da cinefili ricordare che ‘Quarto Potere’ non vinse l’Oscar, e nemmeno il De Niro di ‘Taxi Driver’ e che a parlare de ‘La Regola del gioco’ c’è da essere accatastati nel culturame. Ma l’elenco dei vinti è infinito, disperso in ogni posto dove si assegna qualcosa a qualcuno. Diamo troppa importanza ai premi perché ci semplificano l’eterno e angosciante e velleitario dibattito su chi siano i migliori, perché vogliamo trovare una graduatoria comune e perfino unanime, ci rassicura pensare di condividere una classificazione che invece deve essere liberata, e magari lasciata al deposito più prezioso: la memoria. Iniesta, Pirlo e Xavi sono stati i maggiori centrocampisti del brevissimo millennio, e non hanno vinto il Pallone d’oro. E Ibra, o Buffon, o Lewandoski o Robben non lo avrebbero meritato? Sì, senza dubbio. Ma sono stati campioni in un’era in cui il messaggio che lo sport voleva veicolare era quello dei miti, il duello, e allora la sfida Messi vs Ronaldo ha sequestrato la fantasia e la ragione, e per 13 volte anche il Pallone d’oro, togliendolo agli altri e sottraendolo un po’ anche al senso stesso di un premio. E infatti Iniesta non lo ha mai vinto, e domandarsi perché è una domanda senza risposta possibile, logica, senza realtà come certe bugie ripetute e ossidate. Ci può salvare il fegato il menefreghismo e ci può onorare il tempo: i campioni vanno oltre i premi, chi abita l’immaginario ha vinto, e per sempre. Lunedì sera però il nostro scetticismo romantico ha in un certo senso trionfato, allorquando la cerimonia è stata rovinata e superata in interesse dalla penosa recita dei madri-tristi, neologismo da condanna: sì. Leggo dall’immenso Slalom dell’amico Carotenuto, che svolge un lavoro di rassegna e selezione assai apprezzato da noi pigri, le parole vergate sull’Equipe dove i francesi giustamente s’incazzano: “Il Real Madrid ha aggiunto una sconfitta morale a una sconfitta elettorale, tre giorni dopo essere stato schiacciato dal Barcellona. Il club ha scelto, senza classe, di calpestare il valore dello sport che consiste nel rispettare i vincitori. È senza dubbio questa la logica di un club così indifferente all'interesse generale del calcio, che vorrebbe scegliersi da solo gli avversari e disputare invece della Champions League una Superleague che pensava di poter controllare meglio”. Vincent Duluc lo ha scritto pari pari per conto nostro. E la responsabilità è anche soggettiva, e a noi dispiace che nessuno da Madrid abbia contestato questa arroganza Real, e abbia lottato per essere comunque presente in una serata dove la squadra e il proprio tecnico erano comunque premiati come i migliori del mondo e tre giocatori sono stati classificati fra i primi cinque . Il ripudio riduce la portata del premio alla sua mera nomenclatura, come già nel caso del sequestro suddetto da parte di Messi e Ronaldo, lo assimila al catasto, alla vetrina da mostrare per vanità, per necessità di valutarsi dentro un premio. E nel caso sfugge anche dalla dialettica e dalla sensibilità: non ha vinto Bjelanov ma un centrocampista di purissimo valore, certamente meritevole , un giocatore che riscatta qualcuno dei trofei sopra rimpianti. Uno dei maggiori fra i cuori bianchi di Madrid, il pensoso e schietto Jorge Valdano, alla vigilia della finale del Campionato Europeo scrisse su El Pais: “Se la Spagna vince e Rodri non riceve il Pallone d’Oro, penserò che il calcio, oltre a essere confuso, è anche cieco”. Noi temiamo che il calcio non abbia perso diottrie ma qualcosa di più intimo, nativo, di giocoso e superiore, perfino di colto: quei valori che sembrano muovere l’azione di Rodri, per cercare una rima a questo pezzo, una chiusura che raggrumi tutto. Qualcosa di divinamente sfuggente ma necessario, come una pagina di Borges. Qualcosa di terreno, antropico come la traversata di un cowboy di McCarthy. Qualcosa di enorme, importante, come quei capolavori di Tolstoj o di Joyce. Qualcosa quindi da impacchettare e recapitare a Madrid.

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