La beffarda leggerezza di Jérémy Ménez

Ménez è stato intermittenza in cuoio e ossa. Una volta gli andava, una volta non gli andava. Ha sempre funzionato così. Come tutti noi, o quasi, in fondo. Se ci piace è anche perché il suo modo di stare al mondo giustifica e consiglia quella buona dose di autoindulgenza che non guasta mai. Con la fine dell’estate, in questo 2024 che rimarrà l’ultimo tra i suoi anni da calciatore, il francese ha deciso di chiudere la lunga stagione da professionista. Prendendo tutti un’altra volta in controtempo: per carità, poteva anche essere l’ora, ma nessuno si aspettava che per dare l’annuncio avrebbe scelto un podcast francese tutto sommato qualsiasi. Chissà quanto sia stata ponderata e quanto, invece, gli sia venuto così. Due secondi prima, magari, in testa aveva tutt’altro. Come in campo. Nessuna nostalgia e nessun rimpianto, almeno pare. Poteva fare di più, per carità, ma cosa sarebbe cambiato? Rimangono i viaggi in giro per il mondo, diventati troppi - con tanta inevitabile Francia e una bella fetta di Italia - ma finisce la sopportazione per una vita di privilegi che può portare allo sfinimento. Senza dimenticare che giocare a pallone è stata la grande fortuna della sua vita. È la lezione che darebbe al sé stesso bambino, se solo fosse possibile. Un piano B c’era, erano i tempi del Sochaux con Ménez poco più che ragazzino, ma si chiamava ragioneria: una materia non esattamente affine al genio estemporaneo di Jérémy. Il suo nome e il suo cognome, Jérémy Ménez, si scrivono mettendo l’accento sulla “e”, tutte tranne l’ultima. Quello acuto, come il suo modo di intendere il calcio, lo stesso che si utilizza per scrivere la parola “perché”. Avverbio interrogativo che inevitabilmente accompagna la carriera 'rollercoaster' di Ménez. Perché è normale immaginare cosa sarebbe potuto essere, ma anche perché è doveroso ricordare cosa avremmo potuto perdere. E invece Geremia , sostituendo agli accenti un pizzico di fantasia all’amatriciana, dalle nostre parti ne ha combinate parecchie. Con la maglia gialla e rossa a fianco a Totti, uno che ha sempre apprezzato la sua compagnia calcistica, ha fatto il calciatore da alta marea: quello che compare, scompare e magari ti porta via. Con i colori del Milan, scelto da Galliani, andando in doppia cifra ha centrato la miglior stagione della carriera. Non è mai stato un tipo da salotto buono, piuttosto da sala giochi. Di quelli che una volta mandano in tilt, l’altra ti lasciano senza gettoni nelle tasche. Ma comunque vale la pena rischiare. Ecco: Ménez è stato allo stesso tempo un motivo e una risposta. Per tanti, compreso il ritornello anni ‘60 di Rita Pavone. Perché ti lascio sempre sola? Perché gioca Ménez. Anche se, in effetti, per la stessa ragione potrei portare anche te. Mica facile descriverlo: più seconda punta che esterno alto, una fucina di calcio in campo aperto, un professore nell’arte di passare attraverso gli avversari, un portento nell’abilità di toccare il pallone senza toccarlo, un maestro in materia di palloni piazzati alle spalle dei portieri. Per il suo incedere in campo ricordava una Citroen 'due cavalli' lanciata sullo sterrato, a proposito di Francia, tra una buca presa e un’altra evitata. Un numero 7 ciondolante per nulla classico, con qualcosa di Gigi Meroni e qualcos’altro dell’uccellino Garrincha. Fantasia al potere e dribbling in libertà. Non è mai stato né allenabile né gestibile, andava semplicemente messo dentro. Alcuni allenatori lo hanno capito e sopportato più di altri: Spalletti all’inizio dell’avventura romanista, Ancelotti nella stagione del titolo con il Psg, squadra del cuore di Ménez, Inzaghi – intendendo Pippo – prima al Milan poi alla Reggina. Altri mister lo hanno capito e sopportato meno: Ranieri sempre a Roma e Blanc a Parigi. Quando sei fatto così, fa parte del pacchetto. La formula del successo risiede nella continuità, almeno pare, ma non funziona così per gli uomini che vivono di periodi, come fanno gli artisti. Nel loro animo è incastonata una luce al neon. Che c’è, si spegne, poi si riaccende. A Ménez nelle fasi 'on' veniva tutto facile, in quelle 'off' non veniva nulla. Anzi, non c’era proprio. Ha fatto parte della generazione di fenomeni francesi nati nell’87, la stessa di Benzema e Nasri per intenderci, ma soprattutto è stato uno degli esponenti di un calcio incantevole un po’ perso. Compreso ma fino a un certo punto e tutto sommato mezzo incompiuto. Con due occhioni illuminanti, prima maniera con le guance pulite più avanti con la barbetta non fatta, una volta con la testa rasata e quella dopo biondo ossigenato. Senza troppe regole, anzi senza regole. Perché il suo piano A, quello riuscito, gli ha permesso di non fare il ragioniere. Conquistando quella libertà che è anche un colpo di tacco. C’è un gol più giusto da ricordare rispetto a tutti gli altri, quello segnato da Jérémy sul campo del Parma con addosso la maglia del Milan. È la rete del 5-3 di una partita pazza vinta 5-4. Tutto spostato sulla sinistra, dentro l’area avversaria, Ménez sfrutta un mezzo malinteso della difesa infilandosi come una scheggia sul retropassaggio. A questo punto fa il minimo per inventare il massimo. Togliendo spazio al superfluo per restituire senso a quel poco di tempo che ha a disposizione: un tocco d’esterno per superare il portiere, passando dall’altra parte, e un colpo di tacco facendo impennare il pallone, solo lui sa come, per fregare il tentativo di ritorno dei difensori e del portiere stesso. Qualcuno obietterà: i gol belli alla fine valgono come quelli brutti. Ma qui la storia è diversa: il tacco di Ménez al Parma è una sorta di manifesto programmatico di quello che è stato il suo calcio. Menefreghista ma non irrispettoso, polemico ma non pesante, pigro ma tutto sommato generoso, arrogante ma solo in apparenza. Le sue carte francesi, un carico pesante, Jérémy se l’è giocate con la leggerezza tipica di una farfalla. Le prime le porta tatuate sul dorso della mano sinistra, la seconda sul braccio opposto. E oggi in due lingue, la sua ma anche un ottimo italiano un pizzico virato romanesco, può raccontare di essere stato il più giovane di tutti, a 16 anni, a firmare un contratto da professionista in Ligue 1 e il più veloce di tutti a mettere a segno una tripletta nella stessa serie. Può dire di aver indossato la maglia dell’Antalyaspor in Turchia e di aver frequentato il campionato messicano con quella del Club America. Può fregiarsi di aver condiviso l’attacco con Ibrahimovic come stella casalinga del primo Psg dei qatarioti e di essere stato accolto in Italia da un signore del calcio come Totti. Può ricordare a sé stesso le apparizioni con i colori della Francia, segnando persino in occasione dell’Europeo 2012. Senza dimenticare una coda di stagione calcistica, intendendo gli ultimi spasmi di pallone, tra Serie B e C, con le maglie storiche della Reggina, ritrovando Pippo Inzaghi, e del Bari. Sempre portando avanti la sua filosofia, che nel tempo qualcuno sarà anche riuscito a fare sua, chissà: vedere cose che non ti aspetti è molto più bello di aspettarsi cose. Una pura questione di punti di vista e niente più. Evviva Houdini, allora, il maghetto del pallone che ha tolto le catene al mondo. Con relativa fraternité, senza badare troppo all’égalité, ma con molta molta liberté.

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