Mohammed Salim, la storia del primo calciatore asiatico in Europa che giocava scalzo

Forte dei suoi domini, protettorati, mandati, delle sue colonie e degli altri territori amministrati dal Regno Unito, l'Impero britannico fu il più vasto impero di tutti i tempi: ‘the pink Empire’, così come venne soprannominato dai cartografi, che per una più semplice leggibilità erano soliti rappresentarlo colorato di rosa su globi e carte geografiche del primo Novecento dello scorso Millennio. L’Impero più vasto della storia, stimato alla fine del primo ventennio in circa 37 milioni di chilometri quadrati di estensione e popolato da poco meno di 460 milioni di persone. Nel quale si parlava inglese, ma anche irlandese, hindi, arabo, swahili e urdu, francese e afrikaans, maori e maltese, si comunicava in lingue australiane aborigene e in dialetti ai più ostili e sconosciuti. Un Impero nato con i possedimenti d'oltremare e i trading post fondati dall'Inghilterra tra la fine del XVI secolo e l'inizio del XVIII secolo, per oltre un secolo potenza globale e superpotenza in grado di dettare legge a un quinto della popolazione mondiale, vantando confini per quasi un quarto dell'intera superficie della Terra. Un passato del quale ancora oggi è difficile sbarazzarsi in molti campi e che rende giustizia alla frase che lo definisce perciò “l'Impero su cui il sole non tramonta mai” . Intorno alla metà del 1919 montò forte l’insofferenza in India, in coincidenza con l’approvazione del ‘Rowlatt Act’ che estendeva le restrizioni belliche anche in tempo di pace. La nascita del movimento di disobbedienza civile promosso da Mohāndās Karamchand Gāndhī e il massacro di Amritsar incrinarono le certezze di Londra, che non si attendeva di dover fronteggiare un sussulto anticoloniale, pro-Califfato e nostalgico verso i passati fasti dell’Impero Ottomano. Tuttavia, mentre faticosamente quel mondo conosciuto come ‘Bengal Presidency British’ stava cambiando, intorno la vita pretendeva di scorrere come se nulla stesse accadendo. Ignorando lotte, sangue, rivendicazioni e pretese. Mentre per l’India Gandhi diventava il Mahatma , nel lontano Regno Unito tutto arrivava sfuocato, gli echi delle rivolte erano lontani e la gente era -come noto- matta per la birra, i pomeriggi al pub e il calcio. Da un lato Gandhi predicava che la ricchezza delle materie prime sottratte alle colonie -fra le quali l’India- indeboliva chi le produceva e non ne migliorava le condizioni di vita, lasciando il Paese in povertà e costretto a vivere di importazioni per cedere la sua vitalità al Raj britannico. Dall’altro, le società di football scrutavano oltre le onde minacciose per scoprire degli allora improbabili talenti nella terra del kabaddi e del cricket, pronte a estirpare dalle proprie radici promettenti calciatori da trapiantare nell’umido e piovoso atlantico clima dell’Impero. Ma in verità sarebbero passati almeno altri quindici anni prima che uno solo di questi potenziali assi varcasse fisicamente la Manica. Mentre Gandhi giocava la sua partita politica, però, si può dire che in parallelo ci fosse un ragazzo che con il pallone tra i piedi faceva impazzire altrettanto i britannici che cercavano di arrestarne le legittime velleità. Gandhi si difendeva passivamente, l’altro attaccava a suon di finte e di gol davanti agli occhi stupìti dei ‘british enthusiasts’ che, in mancanza di meglio, si recavano a seguire il calcio locale a Calcutta, non riuscendo proprio ad appassionarsi a un battitore su un pitch o alle incursioni di un ‘marauder’ a caccia di punti nel campo avverso in una sfida di kabaddi. Comprensibile per chi, da lontano, aspettava notizie fresche da Londra sulle gesta mirabolanti di William ‘Dixie’ Dean o dell’Arsenal di Herbert Chapman. Quel ragazzo si chiamava Mohammed Salim, era nato nel 1904 a Garden Reach, nel Bengala Occidentale, in un’area prima gestita dalla Compagnia delle Indie francese, poi finita sotto il dominio britannico dal 1858, non distante dalla capitale Calcutta . A Metiabruz, Garden Reach, abitava allora il ceto medio basso indiano, in mezzo al quale si confondeva qualche piccolo professionista. Mohammed aveva avuto la fortuna di poter studiare e riuscire a diplomarsi come chimico e farmacista. Qualche sbocco lavorativo la sua zona di residenza glielo offriva, visto che si affacciava sul fiume Hughli, il lungo ramo del delta del Gange famoso per essere stato il luogo dal quale oltre 34mila indiani erano salpati su ben 64 velieri tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, diretti alla volta del Suriname. Ma più delle formule Mohammed amava il calcio e appena poteva si dilettava con il pallone fra i piedi. Aveva trovato una società della capitale, lo Sporting Club Mohammedan, che lo aveva inserito nella ‘rosa’ della seconda squadra. E per le sue qualità era stato notato subito da Pankaj Gupta, primo vero imprenditore sportivo del Paese, appassionato di calcio, cricket e hockey su prato, che tutti già chiamavano ‘Mr. Hockey’, che nel 1938 sarebbe persino diventato il primo tecnico della Nazionale Indiana di calcio, portandola in tour in Australia. Allora Gupta si limitava ad osservare e investire e decise di puntare sul giovane Mohammed, che prese sotto la propria ala e presentò ai dirigenti dello Sporting Union riuscendo a farlo ingaggiare. Salim rimase lì fino al 1931. Per poi tornare allo Sporting Club Mohammedan nel 1934, ma stavolta in prima squadra. Per cinque volte consecutive il Mohammedan con Salim, centrocampista esterno d'attacco, veloce e abile nel dribbling, vinse la Calcutta Football League. E Salim divenne presto un idolo per tutti gli appassionati, che desideravano vederlo all’opera e vederlo eseguire quella sua particolare finta -una sorta di elastico che poi, in tempi molto più recenti venne ripresa ed elaborata dal brasiliano Ronaldinho- con la quale ubriacava e saltava tutti gli avversari. Nel 1936, la Federazione Indiana organizzò due amichevoli con la Nazionale Cinese appena giunta in India. Non esistendo una vera e propria nazionale, la squadra fu denominata All India XI e -ovviamente- Salim ne fece parte. Fra il pubblico era presente anche un cugino di Salim, tale Hasheem, emigrato in Inghilterra per lavorare su un piroscafo e già abituatosi all’ambiente fumoso dei pub, ai fiumi di birra e a interminabili discussioni sul calcio. E Hasheem rimase talmente impressionato dalle capacità del cugino che gli propose di fare la valigia e partire con lui per Londra. Dove un certo interesse per i calciatori delle colonie era montato, ma probabilmente in India nessuno aveva ancora allungato lo sguardo. D’altra parte Hasheem qualche conoscenza l’aveva maturata e all’epoca i controlli non erano così fitti e accurati come oggi. Per cui, quando fu il momento dell’ingresso in campo delle formazioni per il secondo confronto, sul terreno di gioco uscirono tutti meno Salim. Lo cercarono ovunque. Militari, compagni, polizia, pubblico, ma Mohammed non era più nei paraggi. Era già riparato da giorni al Cairo con Hasheem e non aspettava altro che di imbarcarsi per l’Inghilterra. Dove una volta sbarcato gli venne suggerito di andare in Scozia. Nella contea di Lanark viveva un coach di mezza età, tale William Patrick Maley detto Willie, che al tempo ancora non sapeva che avrebbe guidato il Celtic praticamente per tutta la vita , che si vide presentare alla porta senza preavviso il primo calciatore indiano della storia pronto a giocare in un campionato estero. Hasheem glielo presentò e non ci girò molto intorno… “E’ un grande giocatore, viene dall'India, è arrivato in nave. Potresti fargli fare un provino? Ma c'è un piccolo problema. Salim gioca a piedi nudi”. Eh già, Salim giocava a piedi nudi. E usava spesso proprio quella particolare finta da lui inventata, sfruttando quella peculiarità tutta indiana del giocare scalzi: infatti portava palla sul suo alluce e muoveva il piede verso una direzione, per poi far scivolare il pallone sulle altre dita e muovere il piede nell'altra direzione, saltando l'uomo e poi involandosi velocemente verso la porta. Maley lo prese al Celtic. Era il 1937. Secondo Boria Majumdar, vice direttore dell’International Journal of the History of Sport “ciò dimostra come, nei giorni dell’Impero, il Celtic ruppe le barriere, reggendo l’ideale della missione di civilizzazione e come un indiano a piedi nudi incantò mezza Glasgow”. Salim diventò una autentica attrazione, impressionando nelle amichevoli e diventando per tutti il 'Giocoliere indiano'. Ma alla fine neppure Willie credette poi tanto in lui, e si ritrovò a giocare solo due partite di 'A' , finendo spesso dimenticato negli almanacchi storici del Celtic. La sua prima apparizione avvenne contro l'Hamilton Accies e la seconda contro il Galston . Il Daily Express scrisse che “le dieci dita scintillanti di Salim hanno ipnotizzato la folla al Parkhead. Tiene la palla in equilibrio sull'alluce, la lascia scorrere lungo la scala fino al mignolo, la fa girare e salta su un piede intorno al difensore”. Alla fine il troppo inutilizzo e la nostalgia di casa ebbero il sopravvento e Salim espresse la volontà di andar via. Willie si intenerì e cercò di convincerlo a rimanere, organizzando perfino un match benefico per raccogliere fondi da donargli. Ma Mohammed preferì che il denaro raccolto venisse donato agli enti di beneficenza locali, dimostrando la sua bontà d’animo . Poco dopo la sua partenza il Celtic vinse il titolo 1937-1938 e poi il torneo Empire Exhibition Cup nel 1938. Magari sarebbe stato tra i protagonisti, se fosse rimasto, invece preferì indossare nuovamente i colori del Mohammedan. O forse a conti fatti fece bene, visto che di lì a poco la guerra sconvolse il mondo. Oggi Salim è ricordato non solo perché giocava a piedi nudi, ma anche per essere stato di fatto il primo asiatico a calcare i campi di calcio europei. A modo suo, come Gandhi, lottò per la libertà, perché anche lo sport era uno strumento di indipendenza dal colonialismo britannico. Per lui era importante riuscire a dimostrare di saper giocare come e meglio dei suoi governanti. Al Celtic Park, durante il provino, non impressionò solo Willie Maley, ma anche Tom Colgan, direttore del Celtic, che non aveva il cuore particolarmente tenero e si prodigò perché il Comitato Nazionale gli concedesse il lasciapassare ufficiale per poter giocare a piedi nudi come abituato in India. Quella sua prima apparizione a Galston, il 28 agosto 1936, davanti a 7mila sostenitori fu una sorta di rivincita per tutti gli indiani di fronte al Regno Unito visto come un oppressore, per alcuni fu un momento di riscatto quasi paragonabile alla quarta medaglia d’oro vinta diciannove giorni prima da Jesse Owens a Berlino di fronte ad Adolf Hitler. Due settimane più tardi segnò su rigore giocando ancora contro l’Hamilton. Il Daily Record scrisse: “l'indiano scalzo ha tirato forte la palla alla sinistra del portiere che, pur riuscendo a prenderla con la mano, non è riuscito a impedirle di entrare in rete”, pubblicando la foto dell’allenatore Jimmy McMenemy che negli spogliatoi gli benda i piedi e le caviglie prima del match. Un bianco inginocchiato ai piedi di un nero. Nella sua ultima gara con la maglia del Celtic, la vittoria per 3-2 contro il Partick Thistle XI 3-2, il famoso incontro di beneficenza giocato al Petershill Park, nel quartiere di Springbum, il 14 settembre, fu ancora “il più brillante in campo”, secondo l’Evening News. Ridendo, prima di andar via disse che gli mancava il cibo indiano. Portò con sé solo un paio di pantaloncini bianchi e un orologio d’oro e riprese la stessa nave con la quale era sbarcato in Europa. Non sapeva che il Celtic presto avrebbe vinto il titolo anche senza di lui ma poi -complice il conflitto mondiale- sarebbe rimasto a becco asciutto per quindici lunghe stagioni. E non sapeva che sarebbe tornato in tempo per contribuire a far vincere al Mohammedan altri due di quei cinque titoli consecutivi della sua bacheca, come se non fosse mai andato via. Eppure, Paul McQuade scrisse che “all’arrivo pensavamo fosse un marinaio…”. Chi lo vide giocare raccontava fino a qualche anno fa che, quando giocava al calcio nella stagione delle piogge, non si sporcava mai, usciva così pulito dal campo che gli altri giocatori a fine partita gli si avvicinavano per sporcargli la divisa di fango e spalmargliene sulla schiena. Per invidia. Morì a causa di un ictus. In India lo ricordano tutte le squadre nelle quali ha giocato fin da quando aveva diciotto anni. Dal Chittaranjan Club al Bowbazar, dallo Sporting Club all’Aryans e naturalmente il Mohammedan. Non esistono statistiche affidabili. Ma ancora si ricorda di quella squadra stellare la prima linea d’attacco: Mohammed Salim, Syed Abdul Rahim e Abbas Mirza. In Scozia, dopo la sua partenza, lo storico del calcio di Dunblane Andi Mitchell disse che Salim confermava la teoria che “il talento può essere trovato nei posti più inaspettati. Di sicuro le differenze culturali significative, il forte accento che c’è in Scozia, il clima, il cibo hanno pesato sulla sua decisione di tornare in India, ma se avesse perseverato, avrebbe potuto raggiungere traguardi molto più grandi”. Nel 2015 Ronojoy Sen, nel libro ‘Nation at Play: a history of sport in India’, ha scritto che Salim tracciò una strada della notorietà che poi altri seguirono negli anni ’30. Nelle pubblicità del the apparvero i difensori Jumma Khan e Noor Mohamed. Nel 1976 Mohamed Salim, pur sempre chimico e farmacista, ricevette in India uno dei più grandi onori nazionali, il ‘Bidhan Chandra Roy Award’, istituito nel 1962 in memoria del Dr. B. C. Roy dal Medical Council of India. Ciò che oggi dispiace è che gran parte della gente che lo conobbe o sentì parlare di lui è scomparsa. Le nuove generazioni non ne sanno nulla, non hanno piacere per la ricerca storica. E questo ricordo è un po’ anche per loro e per scuotere la loro pigrizia. Ecco, io non sono pigro e mi piace farvi conoscere storie come questa di Mohamed Salim. Per questo vi lascio con una frase di Mae West, ottima anche per le nostre proposte di ‘Insider’: “Ogni volta che non avete niente da fare -e un sacco di tempo per farlo- veniteci a trovare”.

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