Incredibile ma... Libertadores! 7 aneddoti che sembrano inventati ma sono veri!

Il giorno più importante dell'anno in Sudamerica. Quello in cui si assegna la Copa Libertadores, il più antico e prestigioso trofeo del Nuovo Mondo, la 65esima edizione ancora una volta contesa da due brasiliane perché in questa fase storica fra il calcio verdeoro e quello del resto del Subcontinente – almeno a livello di club – c'è un abisso. Botafogo e Atletico Mineiro, come si suol dire, per 'La Gloria Eterna', perché da un po' di anni a questa parte questo è il claim che accompagna la manifestazione. Una didascalia quantomai azzeccata: in quelle terre di sogni, razzie, follie e realismo magico, poche cose possono rendere eterni come la conquista di quella gigantesca coppa di argento, bronzo e legno che fu creata da un mastro artigiano italiano a Lima nel 1959, e che dal 1960 ci regala continui momenti strabilianti. In tutti i sensi, perché l'eternità della Copa Libertadores non è data solo da una vittoria, da un gol o da un trionfo. C'è sempre stato, e sempre ci sarà, molto molto di più... Inganni, misfatti e colpi di teatro Va detto che spesso in sessantacinque anni questa manifestazione si è caricata di misteri e malversazioni molto poco poetiche, ma anche questo aspetto deriva dal sostrato del Subcontinente e racconta l'intimità della sua vita. L'episodio più eclatante è stato senza dubbio quello della finale del 2018, la prima in assoluto a vedere di fronte i due colossi argentini River Plate e Boca Juniors. E anche la prima, si spera l'unica, che si definì in un altro continente. Allora si giocava ancora con la doppia finale: l'andata alla Bombonera, rinviata di un giorno a causa di inondazioni, finì 2-2; il ritorno al Monumental non si giocò mai, perché a seguito di disordini scoppiati fuori dallo stadio del River – sulle cause dei quali sono sempre state raccontate poche verità e moltissime bugie – la partita venne sospesa e rinviata. Rubata, si può dire. Ma non perché il River Plate non abbia poi meritato di vincere quella finale epocale giocata al Bernabeu di Madrid, quanto perché la vera macchia che rimane è quella di aver sottratto alla gente argentina l'atto conclusivo della 'loro' coppa. Che, ironia del destino, è intitolata ai 'Libertadores de America', e che ha visto la finale più trascendentale della sua storia giocata nella capitale del regno dei conquistadores spagnoli. Una delle combine più memorabili avvenne invece nel 1961 ai danni dei boliviani del Jorge Wilstermann, squadra di Cochabamba intitolata al più famoso aviatore nella storia del paese andino. Era la seconda edizione in assoluto della Libertadores e i boliviani si ritrovarono opposti al ben più importante Independiente di Santa Fé, club della capitale colombiana Bogotà. Dopo una doppia vittoria casalinga, ci si ritrovò alla fine della seconda partita a dover decidere la sede della terza gara, che secondo il regolamento vigente allora avrebbe deciso chi si sarebbe qualificato alle semifinali. Il presidente del Santa Fé propose di giocare a distanza di una settimana sempre in Colombia, ma il suo collega rifiutò l'offerta. Non per questioni sportive, ma perché rimanere per altri sette giorni in trasferta sarebbe costato troppo. Quindi, si decise per un sorteggio. Luogo: la sede della federcalcio colombiana . Modalità: in un cappello furono inseriti due bigliettini con i nomi di entrambe le squadre, e quello che sarebbe stato estratto avrebbe indicato la formazione eliminata. Uscì il Jorge Wilstermann, che senza fare troppe polemiche accettò il verdetto e tornò a Cochabamba, deluso ma comunque rinfrancato per il contenimento delle spese. Solo un paio di decenni dopo venne dimostrato come il tutto fu chiaramente pilotato, tanto che – pare – siano stati addirittura ritrovati i due biglietti originali. Entrambi con scritto 'Club Deportivo Jorge Wilstermann'. L'origine del soprannome del River Plate La finale 2024, come detto, è fra Botafogo e Atletico Mineiro, che in semifinale hanno eliminato rispettivamente Peñarol e River Plate. Se fossero passati gli uruguagi e gli argentini, avremmo avuto la riedizione della mitologica finale del 1966, quella che ha dato origine al soprannome con cui il River è da allora conosciuto universalmente: Las Gallinas, le galline. Nel maggio del 1966, dopo che entrambi i giganti rioplatensi hanno vinto la propria finale casalinga, si gioca l'atto conclusivo: la terza partita, quella che assegnerà senza più possibilità di appello la Copa Libertadores, si disputa a Santiago del Cile. Il River domina fin dall'inizio e va sul 2-0 rapidamente. Solo che dà un po' troppe cose per scontate, comincia a giochicchiare per lo spettacolo e ad irridere gli avversari. Che non solo sono una squadra fortissima, ma sono anche fieri uruguagi. Succede che nel secondo tempo il Peñarol, trascinato dal superlativo Spencer , ribalta completamente il risultato e vince 4-2 ai tempi supplementari. Tornato in patria deluso e imbarazzato, il River Plate si rituffa nel campionato e la domenica successiva scende nel profondo sud della provincia di Buenos Aires per affrontare la trasferta in casa del Banfield. Dove trova un ambiente irriverente ai massimi livelli, tanto che a un certo punto si palesa in campo, lanciato dagli spalti, uno splendido esemplare di gallina bianca come la neve, adornata da una banda rossa dipinta per l'occasione. La gallina, animale senza attributi per eccellenza, si fece un ampio giro di campo prima di venire presa e portata fuori in trionfo. Il bello di questa storia è che la trovata fu talmente geniale da aver fatto ridere tutti: i tifosi del Banfield che hanno organizzato uno degli sfottò più gustosi della storia del calcio, ma anche quelli del River. Visto che tutt'oggi si professano loro stessi, orgogliosamente, gallinas. Risse, risse e ancora risse Rimane comunque un caso più unico che raro di autoironia, perché nella maggior parte dei casi, da quelle parti, si finisce con le mani addosso. Credo che il numero di risse avvenute nella storia della Copa Libertadores sia non molto distante da quello dei gol segnati. Una delle scazzottate più epocali si registrò alla Bombonera il 17 marzo del 1971, durante l'incontro fra il Boca Juniors e lo Sporting Cristal. Il Boca deve assolutamente vincere, altrimenti è eliminato. L'atmosfera è incandescente, come solo nel colosseo xeneise sa essere. E dopo che i peruviani segnano il gol del 2-2, è praticamente certo che la serata finirà male. Il pretesto per scatenare l'inferno è un episodio nell'area dello Sporting Cristal, un rigore chiesto abbastanza spudoratamente dagli argentini che non viene minimamente considerato dal malcapitato arbitro. In un attimo, sono tutti l'uno addosso all'altro. Il giudice di gara lascia fare, e poi prende le sue decisioni: diciannove cartellini rossi! Espulsi tutti tranne i due portieri e il centrale del Boca Meléndez, che essendo di nazionalità peruviana non se l'è sentita di partecipare alla mattanza contro i suoi compatrioti. La partita finì lì, il Boca venne eliminato e ai posteri fu lasciato il record del match con più espulsioni nella storia. Oltre che il bollettino del post partita: diciassette dei diciannove espulsi passarono la notte in carcere. Gli altri due, ricoverati in ospedale. L'uomo che fu espulso due volte nella stessa partita...e con due maglie diverse! Se parliamo di risse ed espulsioni, un episodio impareggiabile avvenne ad Asuncion nel 1972. La partita è Olimpia-Atletico Mineiro e i brasiliani hanno bisogno di un successo per corroborare le chances di passaggio di turno. Partono fortissimo e dopo meno di un quarto d'ora sono già sul 2-0: il secondo gol lo segna Darìo, pittoresco attaccante conosciuto come 'Dadà Maravilha' e integrante dell'immortale Brasile che vinse il Mondiale del '70. Lì comincia ad entrare in scena la figura dell'arbitro, il cileno Lorenzo Cantillana. I resoconti, soprattutto quelli in lingua portoghese, parlano di sue decisioni molto casalinghe – per non dire scandalose - alla base della rimonta paraguayana. Dopo il contestatissimo gol del pareggio, Dadà Maravilha si para davanti all'arbitro chiedendo spiegazioni e riceve come risposta solo lo sventolio del cartellino rosso. Scatta, inevitabilmente, una rissa da saloon. Cantillana espelle altri tre giocatori, due dell'Atletico Mineiro e uno dell'Olimpia. Nel parapiglia si perde il senso dell'orientamento, e quando – faticosamente – si riprende per giocare l'ultimo quarto d'ora c'è qualcosa che non quadra: i brasiliani dovrebbero essere in otto contro dieci, e invece i giocatori sono nove. Compare all'improvviso una maglia con il 15, che prima non era presente sul terreno di gioco. La situazione è però talmente confusionaria che nessuno ci fa caso più di tanto, e il piccante attaccante numero 15 arriva a colpire una clamorosa traversa sfiorando il nuovo vantaggio per l'Atletico Mineiro. Lì però si svela il trucco: i difensori dell'Olimpia Asuncion si rendono conto che il misterioso subentrato è sempre Dadà Maravilha, che - approfittando del pandemonio - si era fatto dare dal magazziniere una nuova maglia ed era rientrato in campo come se nulla fosse. Messo a conoscenza dell'inganno, l'inflessibile fischietto cileno Cantillana richiama a sé Dadà Maravilha e lo espelle per la seconda volta. Facendolo seguire dai due compagni Humberto Ramos e Romeu che avevano subito approfittato dell'occasione per tornare a tentare di farsi giustizia a pungi serrati. Lì finì anche la partita, perché con sei espulsi non si può giocare. Anzi, con sette, visto che Dadà Maravilha, formalmente, fu espulso due volte. Il potere del cane Quella della Libertadores però non è solo storia di uomini, ma anche di animali diventati protagonisti. Se la gallina riverplatense si riallaccia alla Copa ma fece la sua comparsa in scena nel campionato argentino, ci sono invece un paio di pastori tedeschi che hanno avuto un ruolo attivo dentro al campo. Nel 1991, in un incendiario Colo Colo-Boca Juniors al Monumental di Santiago, scoppia tanto per cambiare una scazzottata globale. L'arbitro non riesce a fare nulla per fermarla, sembra che possa andare avanti in eterno, finché non fa invasione Ron, il cane sfuggito al guinzaglio di un poliziotto appostato a bordocampo. Ron si getta nella mischia e azzanna il gluteo del portiere del Boca Navarro Montoya. Un morso leggero, quasi d'avvertimento, ma la scena è talmente impattante che tutti smettono all'istante di litigare e si ristabilisce la calma. Per il Boca, potrebbe essere stato una sorta di contrappasso per quanto successe invece tredici anni prima, nella finale del 1978. All'appuntamento ci arrivava una sorpresa totale: la formazione colombiana del Deportivo Cali, guidata dal mitico Carlos Salvador Bilardo, quello che nell'86 portò l'Argentina di Maradona a vincere il titolo mondiale. Bilardo è universalmente riconosciuto come uno dei tecnici più scaramantici e scaltri della storia del gioco. Solo che in quella finale si scontrava con il maestro di tutte queste figure: Juan Carlos 'El Toto' Lorenzo, che abbiamo conosciuto anche in Italia su diverse panchine e che nella sua incredibile carriera ha battuto per distacco qualunque altro allenatore in tema di manie e trucchi. Lo fece anche quella volta. Una delle forze del Deportivo Cali di Bilardo era la capacità di fare gol su palla inattiva, specialmente su calcio d'angolo perché poteva contare su un tiratore di corner formidabile come Umaña. Nel secondo tempo della finale di ritorno, giocata alla Bombonera dopo lo 0-0 dell'andata a Cali, i colombiani conquistano diversi calci d'angolo, ma incredibilmente Umaña – che rientrava da un infortunio e potè giocare solo i secondi quarantacinque minuti del secondo atto - li tira tutti bassi e corti. A Bilardo, sempre con le antenne dritte, si accende una lampadina. E infatti nota che ogni volta che il suo formidabile battitore va per calciare dalla bandierina, c'è un cane che gli assaggia i polpacci. Gli spazi alla Bombonera sono praticamente inesistenti, e il Toto Lorenzo aveva predisposto questa situazione per limitare l'arma principale dei suoi avversari. Sarà lo stesso Umaña a confessarlo al proprio allenatore a fine partita, e lo stesso Bilardo a raccontarlo, anni dopo, con il sorriso sul volto e un inchino di fronte all'inarrivabile genio criminoso di Lorenzo. L'ispirazione divina Potremmo andare avanti fino alla finale dell'anno prossimo raccontando queste storie di un calcio che magari non c'è più ma che in una partita di Copa Libertadores ha sempre una possibilità di poter tornare, anche solo per un momento. Forse però questa è impossibile viverla un'altra volta, perché la storia più incredibile di tutte è quella del 'Miracolo di La Plata', che avvenne sul campo dell'Estudiantes nel gironcino che portava alla finale del 1971. Siamo, appunto, agli inizi degli anni '70: in Europa è il momento della rivoluzione olandese e della venuta del Profeta Johan Crujiff, in Sudamerica invece la squadra dominante è il ruvidissimo Estudiantes capitanato da Veron senior e diretto da Zubeldia, quella squadra che coprì di sangue il Milan nella più feroce e scandalosa finale di Coppa Intercontinentale che ci sia mai stata. Gli argentini sono tricampioni in carica della Libertadores: fra loro e la quarta finale di fila c'è solo la presenza del modestissimo Barcelona di Guayaquil, club ecuadoriano dove sta finendo la carriera il mitico Spencer e che come centravanti schiera...un prete! José Manuel Basurco è nato nei Paesi Baschi nel 1944, ha sempre avuto una passione smodata per il calcio oltre che un'abilità notevole nel giocarlo, ma la sua vocazione è un'altra: prende i voti e viene inviato in missione in Ecuador. Si occupa della Parrocchia di San Camilo, fonda anche una squadra in zona e segna a raffica. Viene così chiamato a giocare in un club professionistico come il Barcelona, e nonostante il suo sia un impiego part-time visti i doveri clericali, riesce a convincere tutti. Anche l'allenatore, che inizialmente aveva opposto resistenza a quell'innesto. Basurco, chissà se per aiuto divino, quella sera sul campo della squadra più temibile del continente, segna in spaccata il gol che decide la partita e manda al tappeto l'invincibile Estudiantes di La Plata. Rimarrà un exploit, perché il Barcelona non andrà in finale ma vincerà comunque il campionato. E per Padre Basurco quelle saranno anche le ultime partite, perché una volta ottenuta questa incredibile ribalta decise di appendere le scarpe al chiodo e di dedicarsi esclusivamente alla vita da curato. Almeno per un po', visto che dopo la morte di Francisco Franco e la caduta del regime in Spagna decise di tornarsene a casa e di lasciare l'abito talare. Si sposò, ebbe due figli, e diventò un apprezzato insegnante di filosofia in una scuola vicino a San Sebastian. Dove per anni non raccontò mai ai suoi alunni della sua vita da calciatore e dell'impresa di La Plata. Quando si decise a farlo per la prima volta, uno dei suoi studenti rimase impietrito e con gli occhi spalancati: probabilmente, lì il giovane Unai Emery capì che nel calcio si possono fare miracoli.

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Stefano Borghi