Chemnitz, la capitale del calcio di due mondi

C’è un solo campionato europeo di quarta serie che possa vantare due finaliste di coppa europea. È la tedesca Regionalliga Nordost, che poi per molti versi è una versione ridotta e un po’ smorta della vecchia Oberliga, il massimo torneo della Germania Est, lo stato nato nel 1949 nella zona occupata dall’Unione Sovietica dopo la Seconda Guerra Mondiale. E le due squadre sono Carl Zeiss Jena e Lokomotive Lipsia: la prima, sconfitta 2-1 nella non memorabile finale di Coppa delle Coppe 1981 dall’ottima Dinamo Tbilisi, nel deserto del Rheinstadion di Düsseldorf, la seconda, pure lei ko nella Coppa Coppe, 1-0 ad Atene contro un formidabile Ajax allenato da Johan Cruijff, gol di Marco van Basten. Fu, quella delle vincitrici di coppa, la manifestazione di maggior successo per le squadre della Repubblica Democratica Tedesca, considerando la vittoria del Magdeburgo nella finale 1974, 2-0 al Milan. Sulla Oberliga e del suo passato contraddittorio, bizzarro agli occhi occidentali del presente e del passato, e in parte anche a quello dei contemporanei locali, si potrebbero scrivere libri, anzi altri libri, visto che parecchi già ne sono stati scritti. Uno di questi, ‘The People’s Game’, analisi a livello universitario ma non stucchevole, racconta tra le altre cose di una incoerenza di base del sistema calcistico, perlomeno da un certo punto della storia di quella nazione in poi: il fatto che una serie di squadre di livello medio-alto, dislocate strategicamente in città rilevanti, da un lato aveva il potenziale di fornire alla nazionale - vetrina del movimento, vetrina ideologica - la miglior selezione possibile di giocatori, dall’altro contribuiva però a creare una identità cittadina e un’attenzione da parte dei tifosi che cozzava con un’ideologia di annullamento di qualsiasi specificità locale a vantaggio di quella nazionale se non internazionale, o Internazionale. Pur di ottenere lo scopo, le autorità della DDR misero assieme un sistema di trasferimento forzato di calciatori, che del resto ufficialmente erano dilettanti e/o dipendenti di aziende di vario tipo, non di rado sotto diretta influenza governativa. Non sempre andò tutto liscio, proteste anzi ce ne furono, ad esempio quando nel 1951 Heinz Satrapa, stella della Motor Zwickau, si vide addirittura offrire una cospicua somma di denaro per passare al Volkspolizei Dresda, squadra della non amatissima polizia di stato: la rivolta partì dalla fabbrica di automobili Horch che era di fatto finanziatrice della squadra e in cui lavoravano moltissimi tifosi, e poco alla volta la pressione popolare, oltre ad una visita tardo-serale di alcuni dirigenti al giocatore, mise la parola fine alle trattative, mentre le autorità statali, annusata l’aria, facevano cadere su Satrapa stesso la colpa di aver ascoltato le offerte della squadra di Dresda. Peraltro, a conferma del fatto che alla fine la volontà dei tifosi contava poco, l’anno dopo Satrapa andò via comunque, al Wismut, club della cittadina di Aue, 20.000 abitanti, circostanza che ci permette di restringere l’obiettivo e andare al punto, a un altro evento molto particolare. Nel 1954, infatti, dall’alto giunse l’ordine di spostare proprio l’intero settore calcio del club polisportivo BSG Wismut Aue nella non lontana Karl-Marx-Stadt. Mossa riuscita in quello stesso periodo con un club vicino, l’Empor Lauter, diventato Hansa Rostock quindi spostatosi di quasi 500 chilometri, con letterale partenza notturna in treno, e con la Dynamo Dresda, diventata Dynamo Berlino, ma ad Aue ci fu fortissima opposizione, e anche stavolta ebbe inizio da ambienti di lavoro, quello dei minatori della Wismut, società sovietica incaricata di gestire l’importantissima estrazione della pechblenda o uraninite, fondamentale per i reattori nucleari ma anche - ricordiamo, erano gli anni della Guerra Fredda - per le bombe atomiche e presente in enormi quantità in questa zona dei Monti Metalliferi, così chiamati non per un capriccio. La data 1954 è significativa per vari motivi, praticamente mai evidenziati quando si parla dell’episodio a sfondo calcistico, di per sé abbastanza noto: i primi anni di attività della Wismut erano infatti stati segnati da circostanze abnormi, con designazione di quest’area della Sassonia come zona militare e divieto di accesso persino agli esponenti del partito al potere in Germania e supervisione affidata al generale Mikhail Maltsev, che aveva fatto esperienza nei gulag, cioè nei campi sovietici di lavori forzati, e aveva applicato punizioni severe, con tanto di razioni di cibo negate, ai minatori che non avevano ottenuto risultati secondo determinati parametri. Dal 1953, anno delle celebre rivolta a livello nazionale, stroncata con mano pesante e intervento di carri armati sovietici ma finita anche con la fuga all’ovest di quasi 500.000 persone, alla pseudo-società iniziale se n’era però sostituita una a partecipazione uguale sovietico-tedesca, e le condizioni di lavoro, inizialmente pessime anche per quello che riguardava la sicurezza, erano gradualmente migliorate, anche perché gli abusi dei primi anni si erano svolti in una zona densamente popolata in cui era facile, nonostante il rigido controllo, far uscire notizie, al contrario di quanto avveniva nei gulag sovietici, spesso isolati dal resto del mondo: e dunque un minimo di pressione sui gestori occupanti era stata fatta, la situazione si era lievemente evoluta e non poteva più accadere, come era invece era stato tra 1951 e 1953, che 73 minatori accusati di sabotaggio e spionaggio venissero deportati in Unione Sovietica e condannati a morte. Già nel 1951 c’era stata una manifestazione locale di protesta e i minatori all’annuncio della volontà di trasferire la squadra si ribellarono, minacciando uno sciopero generale se i loro ‘colleghi’ fossero stati costretti a spostarsi. Era un segnale del fortissimo legame tra lavoratori e calciatori, un legame che ha segnato tutto il percorso del Wismut Aue, che ora si chiama Erzgebirge Aue, ed ‘Erzgebirge’ vuol dire ‘Monti Metalliferi’: tuttora, la simbologia attorno allo stadio è fortissima, onnipresente, con il logo che contiene il simbolo delle piccozze incrociate , murales che rappresentano minatori, il cartello ‘Benvenuti nel pozzo’ che accoglie i tifosi, la frase ‘Glück Auf’ che i lavoratori si scambiavano al cambio di turno… e durante la partite le sostituzioni vengono chiamate proprio ‘cambi di turno’. Insomma, un po’ come allo Schalke 04, identità totale e assoluta, che portò in quel 1954 a una vittoria… anche se parziale: scrivendo l’ennesima pagina grottesca di quel sistema, le autorità decisero che il club non si sarebbe mosso da Aue ma avrebbe preso il nome di SC Wismut Karl-Marx-Stadt. Come tale, l’ex Wismut Aue vinse il campionato nel 1956, 1957 e 1959, ai quali si aggiunse quello 1955 in un campionato breve, di transizione tra una stagione calcistica tradizionale e una che seguiva l’anno solare, esperimento che durò fino al 1960. Ma - ci siamo, ci siamo! - come mai Karl-Marx-Stadt era preferibile ad Aue? Facile: era una città dieci volte più grande, addirittura quarta di tutta la Germania Est e centro antichissimo, passato per varie fasi di crescita. A inizio Novecento era stata addirittura la più ricca città dell’Impero tedesco, soprannominata ‘la Manchester sassone’ grazie anche a uno sviluppo industriale e manifatturiero che aveva compreso poi, nel 1932, la nascita della Auto Union poi divenuta Audi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e lo spostamento in Baviera. E la sua importanza è rimasta nel corso dei decenni, anche con successive fluttuazioni a livello di popolazione e fortune, compresa la distruzione di gran parte del centro abitato nei bombardamenti alleati di inizio 1945, volti apparentemente a colpire stabilimenti che costruivano parti di carri armati. Tutto questo, però, con il nome originario, quello di Chemnitz, cambiato dal governo della DDR in Karl-Marx-Stadt solo il 10 maggio 1953, per onorare i 135 anni dalla nascita e i 70 dalla morte dell’autore dei testi fondamentali per la formazione del movimento comunista, che pure in città non aveva mai messo piede. La ricostruzione ha seguito varie fasi e stili: l’idea post-bellica era quella della città socialista ideale, favorita dalle vastissime zone rase al suolo che potevano quindi essere plasmate, ma per esigenze pratiche si passò in realtà per un’espansione delle zone abitate in stile più comodo che esteticamente gradevole, con il culmine nell’edificio più alto della città, il Kongress Hotel della catena Interhotel, gestita dalla Stasi, la polizia segreta, che aveva dotato quasi tutte le stanze di sistemi di spionaggio: l’hotel, ora chiamato Dorint, ha tuttora corridoi e stanze che, seppur pulitissime e ben tenute, nel design sembrano meravigliosamente ferme alla fine degli anni Sessanta. Con la caduta del Muro e la riunificazione, il 23 aprile 1990 un referendum decretò con la maggioranza del 76% che si tornasse al nome originale, Chemnitz, dettaglio non da poco, su cui torneremo tra breve. La ricostruzione è dunque ripresa con sforzi e criteri diversi, non sempre coordinati e coerenti, con la nascita di un alto numero di centri commerciali cittadini, alcuni completati solo alcuni anni fa, di linea moderna ma notevole utilità, e la riedificazione di un centro storico che ha scorci interessanti, compresa la piazza del mercato. L’aspetto è una miscela di classico, moderno in vari stili e antico, come la Torre Rossa, il più storico edificio cittadino, anch’essa però ricostruita, nel 1958, rispetto all’originale del 1200 distrutti nei bombardamenti. C’è un bel Teatro dell’Opera e altri due simboli cittadini, molto diversi: la torre dell’orologio, che faceva parte di una fabbrica di utensili, e il testone in bronzo di Karl Marx, svelato al pubblico nel 1971, alto oltre sette metri e con base di 13, di cui si è poi discussa la rimozione dopo la caduta del Muro, anche se si tratta di un monumento che in un modo o nell’altro racconta la storia di una fase pluridecennale della città. Tutto questo, unito alle bellissime tracce del passato industriale racchiuse in un apposito museo e al superlativo Museo Gunzenhäuser, dove sono ospitate opere d’arte del XX secolo raccolte dal gallerista e collezionista Alfred Gunzenhäuser, ha permesso alla città di essere scelta come Capitale Europea della Cultura 2025, superando candidate validissime come Magdeburgo, Norimberga, Hannover e Hildesheim. E c’è un ulteriore elemento intrigante, legato al nome, Chemnitz, che è anche quello del fiume cittadino, ed è un semplice adattamento tedesco del nome Kamjenica, in lingua slava occidentale. Chemnitz, infatti, pur essendo stata sempre in territorio ‘tedesco’ è in una vasta zona, che arriva fino a Cottbus, oltre 200 chilometri a nordest, in cui si parlano anche la lingua soraba superiore e inferiore, sottogruppi delle lingue slave occidentali. Questo bilinguismo, vivo in circa 60.000 persone e purtroppo a rischio di estinzione, rende davvero particolare la vasta striscia di terra appoggiata ai Monti Metalliferi a sud e che sale fino al confine polacco: a Crostwitz, ovvero Chrósćicy, poco a nord di Dresda, il 90% dei residenti appartiene alla minoranza soraba , e nella già citata Cottbus, città calcisticamente e storicamente rilevante, le vie sono indicate con cartelli bilingui, così come il cartello in stazione, che annuncia l’arrivo a ‘Chóśebuz’, e sempre in stazione un poster dell’Energie, la squadra locale, segnala sì lo Stadion Der Freundschaft, lo Stadio dell’Amicizia, ma lo chiama anche Stadion Psijasélatwa, appunto in sorabo inferiore. E sapete chi può dialogare in sorabo? Michael Ballack, il centrocampista 98 volte nazionale tedesco, che è nato a Görlitz, la città tedesca più orientale, in pratica sul confine polacco, ed è cresciuto proprio a Chemnitz. Secondo l’Istituto per le lingue slave dell’università di Amburgo, lo stesso cognome Ballack non è altro che Balak, che in sorabo indica una persona che parla tanto. C’è quindi un’affascinante miscela di cultura, società e pure calcio, per il fortissimo legame con il territorio, nella particolarità di Chemnitz come Capitale Europea della Cultura 2025. E anche per questo le celebrazioni riguardano anche il resto della regione, che comprende Zwickau, i Monti Metalliferi e un totale di 38 tra cittadine e paesi. Anche Aue, sì: che si riprese il nome nel 1963, ripartendo con una storia che portò il Wismut, dal 1993 Erzgebirge, a essere il club con il maggior numero di stagioni e di partite nella storia della Oberliga. Attualmente in terza divisione, ma con ben 16 stagioni in Bundesliga 2 tra il 2003 e il 2022, gioca in uno degli scenari più belli che ci siano: lo stadio in sé, l’Erzgebirgstadion, è incastrato tra due montagne e si trova all’ingresso della città per chi arriva in tram, dopo circa un’ora di tragitto, da Chemnitz, itinerario che in inverno concede scenari collinari e montani spettacolari, quasi inconciliabili con una trasferta a sfondo calcistico. A Chemnitz, invece, dal 1963, c’è quello che di denominazione in denominazione è diventato nel 1991 il Chemnitzer FC, detto anche CFC: gioca nello Stadion an der Gellertstraße, ricostruzione di un impianto precedente, utilizzato in epoca socialista dal 1950, anche se per alcune partite importanti si andava al più capiente l’Ernst-Thälmann, dove nel 1989 la Juventus vinse 1-0, che sommato al 2-1 dell’andata le diede il passaggio ai quarti di finale di Coppa Uefa. Le sorti sul campo sono state meno felici, in media, rispetto a quelle dell’Erzgebirge, tanto che in campionato le due squadre si sono affrontate solo nella stagione 2015-16, in terza serie, mentre qualche sfida in più c’è stata con l’altro club del circondario, lo Zwickau. Entrambe sono ora in Regionalliga Nordost, confronti che hanno spesso risvolti di vario tipo, per antiche e nuove rivalità. Non è un mistero, ad esempio, che la tifoseria del Chemnitzer abbia una connotazione piuttosto netta sul piano politico, con orientamento a destra, come evidenziato da alcuni episodi del recente passato. Anche se è curiosa la vicenda del capitano Daniel Frahn, che nell’agosto 2019 venne allontanato dal club per avere onorato la memoria di un ultrà fondatore di un gruppo estremista ma fu poi ingaggiato dal Babelsberg, società la cui tifoseria ha invece una tendenza politica opposta. Vero che nell’agosto 2018 a Chemnitz c’erano stati scontri dopo l’uccisione di un ragazzo locale, di madre tedesca e padre cubano, da parte di due immigrati siriani, e che dunque il CFC sentiva la necessità di dare un segnale forte, ma lo sviluppo della vicenda Frahn è perlomeno curioso.

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