David Grieco: "Quelle partite con Pasolini, Eastwood e Mogol"

Chi conosce bene David Grieco, sa quanto non ami parlare di sé. O se lo fa, si abbandona a una naturalezza quasi canzonatoria, come a voler dire ‘le cose importanti le hanno fatte gli altri’. Non è falsa modestia, è anzi la migliore forma di rappresentazione di chi le cose le osserva, le analizza e le racconta. È anche difficile inserirlo in una sola categoria: critico, giornalista, documentarista, regista? Tra le tante cose che ha fatto, c’è anche il film ‘La macchinazione’ con Massimo Ranieri che interpreta Pier Paolo Pasolini. Racconta la vita ma soprattutto i tanti dubbi sulla morte di un altro personaggio davvero molto difficile da categorizzare, di cui Grieco è stato prima di tutto un grande amico, poi anche suo assistente alla regia. E suo compagno di squadra a calcio. Quindi possiamo definirla anche giocatore? “Direi di no, perché ero il portiere di riserva. Anzi, Pasolini con me si arrabbiò parecchio.” Siamo tutto orecchie. “Allora, parto dall’inizio. Pier Paolo è stato un amico di famiglia e io sono stato suo assistente per anni. Lui amava il calcio, tantissimo. Ne ‘La Macchinazione’ c’è anche una scena che lo vede giocare nello stesso campetto all’idroscalo in cui gli è stato teso l’agguato che lo ha ucciso. Il calcio significava per lui molto, probabilmente era la sua passione più grande: tifava il Bologna, aveva conosciuto i giocatori che avevano vinto lo scudetto, passava interi pomeriggi a telefonare a tutti per parlare di risultati e di partite. Ecco, a Roma avevamo una squadra: giocavamo nella zona dell’Acquedotto Felice. La prima particolarità era il nome, nel senso che letteralmente non ci chiamavamo. La seconda particolarità era il suo ruolo: faceva il regista e non poteva essere altrimenti. Ed era forte, Pier Paolo. Ma forte davvero: ha giocato fino a 50 anni anche con gente di grandissimo livello. Aveva una capacità di lettura dell’azione impressionante.” E lei? “Io ero il portiere di riserva, perché quello che mi stava davanti era decisamente più forte di me. Qualche volta comunque venivo schierato. Ma una delle ultime fu quando mi feci passare una palla in mezzo alle gambe. Pasolini si incazzò da matti. Però fatemi aggiungere una cosa: lui era davvero forte. Altri, meno...” Intende altri personaggi del cinema? “Sì, per esempio Clint Eastwood. Con lui le partite sono state tante di più. Io ero piccolo, avrò avuto 13-15 anni, lui invece ne aveva quasi il doppio. Era a Roma per girare ‘Per un pugno di dollari’, ma il film a un certo punto venne interrotto per mancanza di fondi. Clint in America non era conosciuto da nessuno e quindi decise di rimanere in Italia, sperando di poter fare altro. Aveva preso una stanza in affitto nel quartiere Parioli, io abitavo al Flaminio, poco sotto di lui. Entrambi avevamo un cane lupo e ci incrociavamo spesso proprio al Parco Flaminio. Lui era veramente da solo e spesso mi vedeva giocare a calcio con i miei amici. Un giorno ci chiese di partecipare, ma noi eravamo diffidenti: ‘Ma tu sei americano!’, gli dicevamo. ‘Non sai giocare bene’. Lui diceva che al college invece era fortissimo. Non era vero: era una pippa tremenda. Nel 2001 sono andato negli Stati Uniti per fare un documentario su di lui e fuori dalla telecamera ne avevamo riparlato: lui si ricordava tutto, ma negava di essere scarso e non sono riuscito a fargli cambiare idea. Ma il calcio fa discutere sempre. Anche se a me ha anche permesso di chiudere un’intervista in sospeso che avevo con Mogol.” Quel Mogol, che scriveva i testi delel canzoni di Battisti? “Lui. Stavo preparando un lungo documentario/inchiesta per la Rai insieme a Lucio Questi. Si chiama ‘A proposito di Lucio Battisti’ e Mogol non voleva concederci l’intervista. Ero andato a casa sua per convincerlo, ma niente. Quel giorno in particolare era sempre al telefono perché doveva chiudere il numero di partecipanti... a una partita di calcio! Sentii che gli mancava il terzino destro. Io gli dissi che ero nato in quel ruolo e che avevo sempre giocato lì. Tutte bugie, ovviamente, ma Mogol mi disse: ‘Benissimo, giochiamo sabato’. ‘Va bene, però mi fai l’intervista’. ‘Sì, ma solo audio, niente video’. Accordo preso, ci trovammo nel fine settimana in campo. Lui non era un fenomeno, a volte sembrava un po’ goffo e nel documentario abbiamo deciso di riprendere lui mentre gioca, ma facendo sentire le sue risposte che erano molto serie . Si arrabbiò tantissimo, voleva impedirci di far uscire tutto quanto. Ma alla fine se la fece andare bene… Come dicevo prima, il calcio fa succedere le cose più strane.” E torniamo a Pasolini. Nel suo docufilm su Gigi Riva, Riccardo Milani riporta anche un suo pensiero: quello secondo il quale il calcio sia di fatto un’interpretazione teatrale moderna. Lei è d’accordo? “Sì, senza dubbio. Anzi, oggi forse più di allora, perché rappresenta il momento storico che stiamo vivendo: il pubblico è tosto, ribolle continuamente. Il calcio riflette in qualche modo la nostra realtà e anche chi vi partecipa diventa parte di questa rappresentazione.” Ma perché in pochi vogliono raccontare storie sul calcio o sui calciatori? “Perché è sempre stato un tabù. Il calcio è spettacolare, porta migliaia di spettatori, non si può rappresentare a basso costo. O lo si fa bene, o non lo si fa proprio. I vecchi produttori dicevano sempre questa cosa: ‘Chi va allo stadio, non va al cinema’, e probabilmente è un ragionamento che tiene in piedi ancora adesso. O uno come De Laurentiis avrebbe già fatto tantissimo. Il calcio si vive in tante misure, alla fine ci rende tutti protagonisti già così. Ed è bello per questo.”

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Valentino Della Casa