Andrea Lorentini: "Noi familiari viviamo sempre la tragedia dell'Heysel"

La memoria non ha una data di scadenza, è ogni giorno e per sempre. Per tutti quelli che il 29 maggio del 1985 hanno perso un familiare nella tragedia dell’Heysel, che siano passati 40, 30 o 15 anni, non conta. Per chi ha subìto una perdita incolmabile, come quella di un padre, un figlio, una sorella o un fratello, le cifre tonde non fanno differenza, l’impegno per mantenere vivo il loro ricordo è costante, ogni giorno, ogni anno, in quei momenti di una vita che avrebbe potuto essere diversi con loro accanto. Gli anniversari, però, oltre a portarsi dietro un po’ più di malinconia e di tristezza, qualcosa di positivo lo fanno: riaccendono l’attenzione mediatica, fanno fiorire le iniziative, affinché le 39 vittime dell’Heysel e le assurde circostanze in cui sono morte, non siano mai dimenticate. Ci sono opere come ‘Heysel. La tragedia’, docuserie di sei episodi presentata nel 2022 al Festival del cinema di Roma e trasmessa per la prima volta in Italia da Sky Sport, che attraverso una pluralità di storie e testimonianze dirette dei protagonisti, e uno straordinario repertorio di immagini d’archivio, analizza i fatti del 1985 in modo minuzioso ed esaustivo e prova a rispondere alla domanda che ancora molti oggi si fanno: “Perché?”. Tra le storie, che fanno da filo conduttore al racconto, c’è quella di Roberto Lorentini, vittima dell’Heysel, e di suo padre Otello, che era con lui allo stadio, nel famigerato settore Z. Roberto aveva 31 anni, era un medico e padre di due figli, Andrea e Stefano, che all’epoca avevano rispettivamente tre e un anno e mezzo. “È stato molto importante – spiega Andrea Lorentini, anche lui presente con la sua testimonianza nella docuserie – che si sia voluto raccontare questa storia in modo oggettivo. Ben venga tutto ciò che contribuisce a fare memoria e a educare i giovani a un comportamento civilmente etico. Questo documentario racconta i fatti in modo corretto, spiega come sia stato possibile che 39 persone abbiano perso la vita per una partita di calcio”. Il documentario si basa sull’opera ‘Heysel. Une tragédie européen’ di Jean-Philippe Leclaire, vicedirettore de ‘L’Équipe’ e autore della docuserie insieme al documentarista Eddy Pizzardini. “Conosco Jean-Philippe Leclaire – continua Andrea – perché per scrivere il libro era venuto ad Arezzo a conoscere mio nonno, c’è sempre stata molta fiducia nei suoi confronti. Questo documentario è importante perché non racconta solo le storie personali, ma spiega quello che è accaduto e il perché. E poi, cosa molto importante, approfondisce il processo, una fase della storia di cui si parla sempre troppo poco. Il pubblico conosce sostanzialmente solo quello che è successo quella sera, ma c’è moltissimo altro. Sembra strano dirlo ma per noi familiari, l’Heysel è cominciato dopo quella sera. Quest’opera racconta il percorso, il prima il durante e il dopo, e lo affronta a 360 gradi, facendo cogliere l’enorme gravità di quello che è successo”. Quando suo padre è morto, Andrea era troppo piccolo perché potesse comprendere come fosse accaduto: “È una cosa che mi è stata raccontata nel tempo. All’inizio mi dicevano che mio padre era fuori per lavoro, perché chiaramente lo cercavo nella quotidianità, la storia ci è stata raccontata per gradi. Non è solo il fatto che uno non abbia più un padre ma capire perché non ce l’ha più. Oltre alla drammaticità di quello che è accaduto c’è anche l’assurdità. Non ho ricordi di mio padre, sono cresciuto con la storia che mio nonno e mia mamma mi hanno raccontato. Gli somiglio fisicamente e caratterialmente. Mio padre era una persona socievole, era espansivo, aveva interessi nell’associazionismo, era un allegrone. Soprattutto, era una persona estremamente generosa”. Secondo la ricostruzione dei fatti, Roberto Lorentini era riuscito a mettersi in salvo dall’inferno dell’Heysel ma era tornato indietro per salvare un bambino in difficoltà, Andrea Casula. Ma proprio quando gli stava praticando la respirazione bocca a bocca entrambi sono stati travolti da una nuova carica e sono morti. Andrea Casula aveva solo 11 anni, è la vittima più giovane dell’Heysel. “Mio padre era un medico – spiega Andrea – per lui aiutare gli altri era una vocazione. Due anni fa, ad Arezzo, nella sua vecchia scuola, gli è stata intitolata l’aula. Un suo compagno ha scritto sulla lavagna che lui ha sempre voluto fare il medico e ha vissuto da medico fino all’ultimo secondo della sua vita”. A colmare l’assenza di Roberto, oltre alla mamma Arianna, c’è sempre stato il nonno, Otello Lorentini, che ha fatto della ricerca della verità e della giustizia per la morte del suo unico figlio e delle altre 38 vittime dell’Heysel, una ragione di vita. Ha fondato l’Associazione delle famiglie delle vittime per individuare e far punire i responsabili della strage, attraverso un processo lungo e difficile. “Con mio nonno – ricorda Andrea – ho vissuto tutta la parte processuale, perché spesso andava a Bruxelles. Ha sempre cercato di far vivere a me e a mio fratello una vita il più normale possibile, non ha mai cercato di tenerci lontani dal calcio, non l’ha demonizzato. Abbiamo giocato entrambi a pallone da ragazzi. Lo scenario era legato al calcio ma quello che è successo non c’entra nulla con il calcio, è colpa di una serie di responsabilità e negligenze, che hanno finito per mettere in trappola le persone e le hanno uccise”. Per tanti anni Otello Lorentini è stato una figura di riferimento essenziale per tutti i familiari delle vittime, la persona che ha provato a dare un senso a una tragedia inspiegabile. “Ha dato speranza – dice Andrea – a tutti. Diceva: ‘Proviamo ad avere giustizia, mettiamoci insieme’. È una persona che ha avuto un coraggio straordinario, che ha affrontato tutto con dignità e rigore morale. Non l’ho mai visto agire con rabbia, ecco se devo trovare due suoi tratti distintivi dico coraggio e dignità, e sono quelli che voglio continuare a portare avanti con l’Associazione”. Dopo la morte di Otello, l'11 maggio del 2014, Andrea ha ereditato il ruolo di presidente dell'Associazione vittime. “L’ho fatto per lui, non volevo che con la sua morte si disperdesse l’impegno civico che ha portato avanti per anni. Otello ha fondato l’Associazione per trovare giustizia. La condanna della Uefa è arrivata grazie all’Associazione ed è una sentenza importantissima, che ha fatto giurisprudenza nel calcio europeo. Terminata la parte processuale, mio nonno ha portato avanti, attraverso l’Associazione, l’impegno civico nello sport grazie a incontri e iniziative di vario genere. Io non volevo che il suo percorso si interrompesse così, dopo la sua morte. Ho contattato i familiari delle vittime, abbiamo rimesso insieme un gruppo e da quel momento portiamo avanti un cammino di memoria ed educazione civica nelle scuole e nelle società sportive. Quello che vogliamo è che i ragazzi capiscano che se certi valori di convivenza civile vengono meno, le conseguenze possono essere gravissime anche in uno stadio di calcio, dove si va per gioire, non per morire”.

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Valentina Campus