Wimbledon vuol dire anche calcio

Quando non si trasforma in ‘nostalgismo’, quindi in una deviazione, la nostalgia, unita alla memoria, permette letture e ricostruzioni particolari, specialmente per periodi storici di lunga durata. Basta guardare quanto accaduto sul piano tecnologico, nella comunicazione e dell’informazione, da quando esiste quello che genericamente chiamiamo internet: siamo passati dal semplice web allo streaming audio e video ai social media nel giro di una quindicina di anni, un cambiamento rapidissimo che ha fatto velocemente cadere nell’oblio oggetti come l’iPod e i modem esterni, mentre nei 40 anni precedenti il panorama era sostanzialmente rimasto invariato e ‘informazione’ voleva dire radio, televisione, carta stampata. Cambiavano i contenuti ma non i loro strumenti di diffusione, e quando i contenuti stessi si aggiornavano l’esperienza era dunque condivisa da milioni di persone nella medesima maniera: “L’ho letto sul giornale, l’ho sentito alla radio, l’ho visto in tv”. Limitandoci all’ultimo medium, nel periodo in cui i canali a disposizione erano uno o due qualsiasi aggiunta al palinsesto rappresentava una grandiosa novità da seguire a tutti i costi ed era anche così che si creavano i miti, a volte a prescindere dalla qualità dei programmi stessi. Rivedendo alcuni dei quali, a distanza di tanto tempo, può capitare di chiedersi “ma davvero mi piaceva quella roba?”, domanda peraltro senza sbocchi particolari perché all’epoca il convento quello passava, e il varietà del sabato sera su Rai1, ad esempio, si guardava e basta, affezionandocisi pure in modo tale da stravolgere la naturale capacità di giudizio. Un po’ la versione televisiva della notissima esperienza scientifica dell’etologo Konrad Lorenz e dell’oca Martina, che uscita dal guscio, come pulcino, dinanzi a lui, da quel momento lo identificò come genitore: e per un paio di generazioni il genitore era il primo o uno dei primi programmi visti, capaci di lasciare un imprinting profondo e irreversibile. Anche in campo sportivo: non è che i nati tra il 1960 e il 1970, arco temporale che racchiude anche l’autore di questo articolo, avessero e abbiano una formazione polisportiva perché più intelligenti e sensibili, ma semplicemente perché nel periodo dell’adolescenza e della crescita, lo sport in televisione era così raro che si guardava tutto e si memorizzava tutto. E i nostri Konrad Lorenz erano personaggi che nel flusso della storia non saranno stati i numeri uno assoluti ma lo erano nell’impronta che lasciavano. I Francesco Moser, Niki Lauda, Valery Borzov, Mark Spitz, Sara Simeoni, quasi più dei calciatori perché le dirette di Serie A non esistevano e i cosiddetti riflessi filmati della sera, pur se anch’essi memorizzati nella testa e nella carne, non avevano lo stesso peso di eventi vissuti nel momento stesso in cui avvenivano. QUANDO WIMBLEDON ERA UN SOGNO E poi Bjorn Borg, Jimmy Connors, Adriano Panatta, Paolo Bertolucci. E Wimbledon. Perché fu negli anni Settanta che esplose il mito di quel torneo, certamente più forte di quello del Roland Garros, degli US Open e degli Open d’Australia per gli stessi motivi per cui ancora oggi è speciale, ovvero le sue particolarità. Un mito che grazie alle prime dirette si staccava dalla carta e diventava realtà fruibile, ancor più per chi aveva la fortuna di poter seguire la Tv svizzera italiana che da Londra cominciava a trasmettere all’inizio della seconda settimana, e a colori, per chi aveva il televisore adatto. Wimbledon, per un adolescente o un giovane italiano degli anni Settanta, era il Regno Unito, era l’Inghilterra che entrava in casa in un rosario di tutti gli elementi bizzarri che confermavano la fama eccentrica dei suoi abitanti e delle sue consuetudini: l’erba, che negli ultimi giorni appariva deteriorata per l’uso e per il caldo, gli abitini a fiori delle signore, le fragole con panna, i cappellini di paglia, i completi dei signori, il bizzarro verdeviola dello stemma e delle divise degli inservienti, il bianco degli atleti, il contegno dei raccattapalle, la pronuncia di ‘love’ , l’elegante delicatezza della principessa Katharine, che in quegli anni pareva essere l’unica a premiare i vincitori, l’assenza di cartelloni pubblicitari a bordo campo e in generale le… facce da inglesi, che si vedevano sullo sfondo, nelle inquadrature diagonali dal basso, identiche a quelle di oggi, quando prima della battuta dal lato destro opposto alla telecamera principale si vede sullo sfondo il tabellone con il punteggio. Tutto questo sugli schermi per un pomeriggio intero, meglio di un documentario: e pazienza se quella non era tutta l’Inghilterra, ma era comunque un’Inghilterra molto simile a quella che si incontrava per strada, contrariamente ad oggi, e che solo lì si poteva vedere. Nel 1977, poi, anno d’inizio definitivo della trasmissioni policrome, anche sulle reti Rai arrivò Wimbledon a colori, dieci anni dopo la prima edizione prodotta in quel modo anche nel Regno Unito. La Wimbledon della Coppa Davis ai primi di agosto, Gran Bretagna-Italia 1-4 sul campo numero uno, ma insomma pur sempre Wimbledon, e non più in bianco e nero. E veniva poche settimane dopo una finale tra le più equilibrate di quel periodo, Borg su Connors in cinque set e tre ore e 14’, la potenza dello svedese contenuta in una favolosa maglietta a righine, sottili quanto bastava per non violare la regola del bianco, e la garra dell’americano, rigoni multicolori sulla schiena che oggi sarebbero tollerati meno di ieri. CHE ANNO, IL 1977 Ma il 1977 fu speciale per tanti motivi, se si fa roteare ‘Wimbledon’ nella testa. Perché cominciò a sbriciolarsi, se non altro ad occhi inglesi, quella dicotomia per cui quel nome corrispondeva al tennis e unicamente al tennis: non c’era più solo Wimbledon ma anche IL Wimbledon, o meglio il Wimbledon Football Club. Che a metà giugno, poco prima che iniziasse il torneo di tennis, era stato promosso per la prima volta in Fourth Division, insomma nella Football League. La distinzione tra essere in Football League ed essere al piano di sotto l’avrete letta qualche mese fa e non ha niente a che vedere con dilettantismo e professionismo, ma proprio con la struttura storica del calcio inglese, e tra l’altro il termine ‘promosso’ è fuorviante: torneremo sul tema in un altro articolo, ma dalle origini fino al 1985-86 le ultime quattro della Fourth Division dovevano ogni anno chiedere alle altre 88 della Football League di essere ‘rielette’ , ai voti, e se una o più di loro era considerata non più all’altezza, per risultati, strutture, proprietà, veniva espulsa e sostituita da una squadra di non-League, non necessariamente la prima classificata del campionato appena concluso. Va da sé che era molto difficile che un’assemblea di presidenti decidesse di cacciare uno dei propri membri, ma ogni tanto capitava, e in quel 1977 accadde: dopo l’ennesima stagione balorda, e con una media spettatori scesa sotto le 1000 unità, il Workington, club dell’estremo nordovest, fu rimosso dalla Football League e sostituito appunto dal Wimbledon, che aveva appena vinto per la terza volta consecutiva la Southern League, una quinta serie parallela alla Northern Premier League, che l’anno dopo vide promosso il Wigan Athletic al posto del Southport. Tre titoli consecutivi volevano dire un dominio, e quello del Wimbledon lo era, a quei livelli però poco pubblicizzati, anche se il suo nome era salito alla ribalta nazionale solo due anni prima per una grande impresa in Coppa d’Inghilterra. Al terzo turno, 4 gennaio 1975, i Dons avevano infatti vinto 1-0 sul terreno del Burnley, semifinalista dodici mesi prima e ottavo nella massima serie, ai sedicesimi avevano pareggiato 0-0 a Elland Road contro il Leeds United, campione d’Inghilterra in carica destinato di lì a tre mesi a giocare la finale di Coppa dei Campioni. A cinque minuti dalla fine, il barbuto portiere Dickie Guy, eroico già a Burnley, aveva parato un rigore di Peter Lorimer, il centrocampista offensivo dotato di un tiro dalla potenza inaudita che in quella circostanza però aveva cercato di piazzare rasoterra, consentendo una respinta abbastanza semplice, seguita pochi minuti dopo da un’altra super parata sull’ultima azione della partita. Era stata una battaglia, un po’ perché i Dons sapevano di essere inferiori tecnicamente un po’ perché il Leeds era noto per la sua aggressività: non per nulla, sul treno del ritorno a Londra, il centrocampista Selwyn Rice appoggiò la gamba destra al tavolino, si tirò su il pantalone e, indicando dei profondi segni su tibia e polpaccio, disse ad alcuni tifosi “Questo me l’ha fatto Giles, questo Hunter, questo Bremner”. La ripetizione si era giocata a Selhurst Park, più capiente del solito stadio di casa del Wimbledon e più facilmente presidiabile in caso di disordini, e di fronte a 45.000 spettatori gli ospiti erano riusciti a spuntarla col punteggio minimo, quando a inizio ripresa un tiro di Giles da fuori area era stato deviato in rete dal centrocampista Dave ‘Harry’ Bassett, già autore del fallo da rigore della prima partita. Il bello è che Bassett, di cui Guy disse un giorno “Quando difende fa passare o l’avversario o la palla, mai tutti e due assieme”, aveva provato a spostarsi per favorire la visuale del suo portiere. COMMON SENSE Il Wimbledon era nato nel 1899 come Wimbledon Old Centrals, dal nome della scuola frequentata da alcuni dei fondatori, e aveva cominciato a giocare in un campetto a malapena segnato con righe, nell’angolo sudoccidentale del grande parco chiamato Wimbledon Common, che tra l’altro si trova poco a occidente dell’attuale stadio del tennis. Classica squadrina senza pretese, con giocatori che si cambiavano in un pub, il Fox and Grapes, come era abituale all’epoca. Presto c’era stato lo spostamento in un’altra zona del parco, a causa delle proteste dei conducenti di carrozze a cavallo infastiditi dal rumore e dai palloni vaganti, e dal 1893 erano cominciate le partite ‘ufficiali’, in una delle tante coppe locali che caratterizzavano quel calcio, la Herald Cup. Erano seguiti parecchi anni di assestamento e cambiamenti, anche nel nome, che aveva perso ‘Old Centrals’: nel 1910 addirittura il club si era sciolto ma era stato subito rifondato, con una prevalenza di dipendenti pubblici rispetto a studenti e allora ecco il suffisso ‘Borough’ e il simbolo del quartiere, e in tutto questo un frenetico variare di divise di gioco, non più giustificabile, come ai veri albori del calcio, dal fatto che ci si mettesse quello che si trovava o si giocasse ognuno con una casacca diversa, con il solo berretto a distinguere le due squadre: biancoblù, marrone e blu, neroverde, biancoblù, neroverde, blu con una enorme W sul petto, bocciata immediatamente dalla federazione, biancoblù. Nel 1912 era arrivato lo stadio definitivo, costruito alla buona su un lotto di terreno situato tra Plough Lane e Haydons Road e fino a quel momento utilizzato come discarica, nel 1919 c’era stata l’ammissione alla discreta Athenian League e nel 1921 il passaggio alla Isthmian League, al tempo il campionato dilettantistico nazionale di maggiore qualità. Dilettantismo, sempre, un ethos che del resto aveva caratterizzato i primi sodalizi del sud, come gli Old Carthusians e gli Old Etonians, anch’essi del resto nati da gruppi di studenti o ex studenti. CAMPIONATO AMATORI Del resto, fino al 1967 anche al torneo di Wimbledon potevano partecipare solo non professionisti, per cui c’era, in quel raggio di pochi chilometri quadrati attorno al Common, una sorta di rispetto per uno status che, negli ideali dei fondatori, preservava la purezza del giocare per il gusto di giocare, con la vittoria come conseguenza non sempre scontata e comunque non fine assoluto. Ci poteva essere un rimborso spese, ma ridottissimo, e la maggior parte dei calciatori dell’epoca, interpellati a inizio di questo secolo per un libro commemorativo, era fermamente convinta che quello fosse lo status migliore possibile, giocare per passione, per lo spirito di gruppo, per il quartiere. Perché pare davvero, al di là della banale pretesa di ciascun club e ciascuna tifoseria di essere ‘uniche’, che l’atmosfera di quel Wimbledon fosse speciale: un numero di tifose, anche giovani, superiore alla media, un ampio vano sopra la tribunetta che faceva da locale dove bere, mangiare, ballare portando magari da casa un proprio vinile, un viavai di persone del quartiere che davano una mano a sistemare il campo, le tribune, a dipingere le pareti, a lavorare all’uncinetto il maglione dei portieri e far sentire Plough Lane una sorta di epicentro di tutto il bene che il senso di appartenenza locale può dare. Tutta roba, ovviamente, sublimata da quel dilettantismo per cui il centravanti non era una superstar ma uno che potevi incontrare - e non è una ipotesi ma un fatto - dietro il bancone della lavanderia Sunlight in Haydons Road, suo lavoro principale. Non è un caso che, in quel regime in cui non esisteva il concetto del ‘cartellino’ e un dilettante poteva letteralmente cambiare squadra ogni settimana, il Wimbledon ebbe un ricambio ridottissimo e una fedeltà quasi tribale, concretizzata negli anni Cinquanta dalla presenza contemporanea in campo, per qualche tempo, di tre fratelli, i Wallis. Quel Wimbledon, uguale a sé stesso per almeno due decenni, vinse la Isthmian League nel 1931, 1932, 1935 e 1936, arrivando nel 1935 alla finale della seguitissima FA Amateur Cup, la FA Cup per dilettanti, manifestazione che negli anni Cinquanta portò a Wembley anche 100.000 spettatori. Qualcosa cambiò dopo la Seconda Guerra Mondiale: seguendo una tendenza diffusa, nel calcio amatoriale fece la sua comparsa il cosiddetto ‘shamateurism’, in parole povere un finto dilettantismo in cui ai giocatori venivano passate buste con denaro, lontano da occhi indiscreti, ma era un segreto di Pulcinella. Il Wimbledon rimase fedele ai propri princìpi più a lungo di altri club, trovando nella sfida ad avversari pagati sottobanco una motivazione ulteriore e arrivando secondo nel 1952, ma presto questo status differente causò un calo di rendimento e di pubblico e nel 1955 la dirigenza dovette agire: nuovo presidente, Stanley Black, costruttore e amico dei proprietari del Chelsea, che portò come allenatore Les Henley, consigliatogli dal tecnico dei Blues Ted Drake, suo ex compagno di squadra all’Arsenal. Henley sostituì un mito dei Dons, William ‘Doc’ Dowden, un classe 1902 che era stato eccellente attaccante e aveva poi guidato la squadra a quei titoli di Isthmian e finali di Coppa, compresa quella del 1947. Anche se il suo ruolo non era stato quello dell’allenatore in senso stretto, e in quel periodo del resto andava così quasi ovunque: non esisteva alcuna tattica, nel senso che si usava il solito 2-3-5 con una spolverata di istruzioni a voce sugli avversari e, come disse uno dei giocatori, “Solo il consiglio di parlarci spesso in campo e cercarci a vicenda”. Sotto Black e Henley il sistema di gioco migliorò, tanto che il centravanti, uno dei fratelli Wallis, fu utilizzato addirittura da finto nove, modello che era stato esposto al mondo inglese dall’Ungheria, nel 1953, ma che in realtà - e lo scrittore catalano Marti Perarnau ci ha scritto un tomo da 700 pagine, ‘La evolución táctica del fútbol ’ - era stato frequentemente applicato in precedenza. Fuori dal campo però si procedette con la consuetudine, diffusa: giocata una partita ‘Probables vs Possibles’, ovvero tra ‘probabili e possibili’ nuovi giocatori, quelli ritenuti meritevoli di entrare in rosa venivano portati uno ad uno di fronte ad un comitato di 15 dirigenti che, sette dal lato di un tavolo e sette dall’altro, con Black a capotavola, procedevano a un vero e proprio interrogatorio dei candidati. Con rimborsi spese maggiori ma sempre passati sottobanco, con preparazione migliore, anche sulle piccole cose , con giocatori più raffinati, con una struttura migliore , il Wimbledon ripartì e vinse la Isthmian League nel 1959, 1962, 1963, 1964, sempre sotto Henley che rimase in carica fino al 1971, vivendo un momento di gloria il 5 maggio 1963, quando di fronte a circa 45.000 spettatori, a Wembley, i Dons batterono i cugini del Sutton United 4-2, con quattro gol di testa dall’attaccante Eddie Reynolds. SOUTHERN STYLE Nel 1964 arrivò il grande salto nella Southern League, come sempre non per promozione - fosse stato quello il criterio, sarebbe bastato il primo di quei tre titoli di Isthmian League - ma per ammissione, causa la defezione del Clacton Town. Black ci pensava da tempo, e in più la sua ambizione era stata accelerata da un’indagine federale sui pagamenti illeciti ai giocatori: tanto valeva diventare semi-professionisti certificati, status più omogeneo appunto con la Southern League. Il Wimbledon dovette partire dalla seconda serie della sua nuova lega, ma ottenne subito la promozione e poco alla volta crebbe, anche se nel 1968 Black morì di cancro, a soli 56 anni. Restavano il fratello Cyril, deputato conservatore, e un lascito settennale che Stanley aveva destinato al club. Dopo un periodo di mediocri risultati, con Mike Eveitt e Dick Graham in panchina, la scelta nel luglio 1974 di Allen Batsford rappresentò la spinta decisiva: alla guida dei dilettanti del Walton&Hersham, infatti, Batsford aveva vinto la Isthmian League nel 1969 e la FA Amateur Cup nel 1973 e il 28 novembre sempre del 1973 aveva trionfato 4-0 in FA Cup sul campo del Brighton di Brian Clough, che con il solito disprezzo per gli avversari aveva definito la sfida ‘purosangue contro somari’. Batsford era l’allenatore di quelle grandi sfide contro Burnley e Leeds nel 1975, e due anni dopo, vinta la Southern League per la terza volta consecutiva, poté entrare con tutti gli onori nella Football League. WIMBLEDON, UNO E DUE Del Wimbledon in genere si parla solo per il periodo della cosiddetta ‘Crazy Gang’, dagli anni Ottanta in poi, per i personaggi come Vinnie Jones e John Fashanu, ma quello che percorse alcuni decenni prima di affacciarsi alla Football League e poi salire rapidamente fino ai vertici del calcio inglese è meno noto seppure molto pittoresco. Con alcuni tratti comuni: il Dave Bassett dell’autorete contro il Leeds divenne poi allenatore nel 1981, un allenatore che viene considerato l’ispiratore dei più pesanti e imprevedibili scherzi della ‘Crazy Gang’, e dopo qualche giornata della stagione 1986 si trovò addirittura in testa alla First Division. Fino a quel 1977, però, Wimbledon per il grande pubblico aveva voluto dire tennis e, da qualche anno, i Wombles, animaletti nati dalla fantasia della scrittrice Elizabeth Beresford diventati fortunata serie televisiva di animazione: il nome derivava dalla pronuncia imperfetta di ‘Wimbledon’ da parte della figlia della signora Beresford, e i Wombles, stanziali al Common, erano proto-ecologisti che riciclavano i rifiuti nelle loro tane, dando così un messaggio positivo in un periodo storico in cui l’attenzione all’ambiente non era particolarmente accentuata. Due mascotte vestite da ‘Wombles’ accolsero i giocatori all’ingresso in campo per quella partita contro il Leeds a Selhurst Park e, giusto per ribadire che la realtà spesso supera la fantasia, il marito della signora Beresford era Max Robertson, il più importante radiocronista di tennis della BBC dell’epoca poi autore di un libro chiamato Wimbledon 1877-1977. 1977. Appunto.

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Wimbledon vuol dire anche calcio

Roberto Gotta