Perché quello del St.Pauli è un modello di tifoseria

Il cuore di St. Pauli è casa mia Amburgo è dove mi sento a casa Il porto, le luci, il desiderio ti accompagnano La nave in lontananza Il cuore di St. Pauli ti richiama Perché lì, sull'Elba, vi aspetta la felicità Il cuore di St. Pauli è casa mia Amburgo è dove mi sento a casa L'Elba, il Michel, il percorso è sempre buono St. Pauli, la libertà, ce l'abbiamo nel sangue E la nave della vita ha una falla? Ad Amburgo restiamo sul ponte Ad Amburgo sì, lì restiamo sul ponte …… Perché lì sull'Elba mi aspetta la felicità Il cuore di St. Pauli è casa mia Ad Amburgo, ad Amburgo A casa È un inno d’amore quello che per anni ha risuonato al Millerntor, lo stadio del St.Pauli, nella versione rock dei Phantastix Elf . Amore per una città, Amburgo, e per il quartiere affacciato sull’Elba, accanto al porto, culla di una miscela culturale del tutto peculiare, impastata di sacro e profano . Un inno che non contiene riferimenti calcistici, ma che si ispira a concetti universali come la libertà e la felicità, applicati romanticamente ai Lari, le divinità del focolare che incarnano i valori delle radici, di quella ‘casa’ che è dolce ad ogni latitudine. Eppure un inno le cui note non invaderanno più lo stadio del St.Pauli. Per un motivo molto semplice: uno dei tre autori, il paroliere Josef Ollig, era un nazista. La storia del sottufficiale della Wehrmacht, premiato con la croce di Ferro nel 1941, era rimasta tra le pieghe del Dopoguerra, dimenticata e finita sotto il tappeto, come tante altre vicende che la Germania degli anni ’50 voleva dimenticare per dar vita a un nuovo inizio. Ma recentemente è riemersa, sia pur frammentata, scatenando un dibattito interno al club tra chi era disposto a operare una scissione tra il contenuto di quei versi e la personalità dell’autore e chi invece riteneva insopportabile quel legame. Alla fine il presidente Oke Göttlich ha annunciato la decisione: "Sappiamo e comprendiamo perfettamente che la canzone ha un significato emotivo molto forte per tante persone, ma un inno allo stadio dovrebbe unire e non dividere. Attualmente durante la sua esecuzione ci sono fischi e insulti reciproci e ciò è inaccettabile e non aiuta nessuno. Visto che al momento molti nostri tifosi non si sentono più a loro agio ascoltandolo, abbiamo deciso di sospenderlo". Del resto non è la prima volta che il St.Pauli ha deciso di denazificare la sua storia. Era già accaduto con la denominazione dello stadio, per anni intitolato a Wilhelm Koch, presidente dal 1933 sino alla sua morte, avvenuta nel 1969 per una grave malattia. In realtà Koch era stato riabilitato dalla giustizia tedesca già nel 1947, quando lo si dovette giudicare per la sua attività fiancheggiatrice del regime nazista grazie alla quale rilevò un’azienda che commerciava in cuoio e pelli in precedenza appartenuta a imprenditori ebrei . Ma un libro sul St.Pauli scritto dal giornalista René Martens riaprì la questione negli anni ’90. E un ulteriore studio affidato allo storico Bajohr confermò l’iscrizione di Koch al Partito nazista, anche se solo dal 1937 e senza particolare adesione ideale al regime dal quale, pare, non trasse vantaggi così significativi e diretti. Ma fu abbastanza perché il club decidesse di cancellare il suo nome, tanto che oggi lo stadio non si chiama più Koch, ma Millerntor. A questo punto è necessario spiegare perché il St.Pauli sia animato da una così forte sensibilità rispetto a questi temi, finendo per costituire una realtà del tutto peculiare nel panorama calcistico europeo. Quel quartiere di Amburgo, con tutte le realtà connesse, è stato ed è tutt’ora un vero e proprio laboratorio sociale, ispirato ai valori tipici di un’estrazione proletaria. Tanto che di fronte ai pericoli della speculazione edilizia i suoi abitanti appoggiarono le occupazioni delle case da parte degli autonomi, vissuti come alleati e non come grumo antisociale di cui liberarsi. Il risultato fu la costruzione non di ghetti, ma di spazi sociali e culturali condivisi, e una elaborazione di un concetto di comunità sostanzialmente armonica. Questa inclusione riguardò anche la significativa comunità punk che cominciò a portare allo stadio non solo le creste colorate, ma anche il Jolly Roger, la bandiera dei pirati, come simbolo di ribellione rispetto ai meccanismi del capitalismo ritenuti distorti. E il club di calcio non si è limitato ad adattarsi alla filosofia della schiacciante maggioranza dei suoi tifosi, ma si è posto come emanazione di certi valori condivisi: inclusione, integrazione, responsabilità sociale, impegno politico. In altre parole per il St.Pauli il palco del calcio serve a promuovere una visione del mondo, non una modalità calcistica fine a sé stessa. Una società ‘diversa’ Del resto è una società polisportiva, dove si possono praticare moltissime attività, dal rugby agli scacchi, dal ciclismo al ping-pong. Ed è perfettamente integrata al sistema tedesco, che promuove l’azionariato popolare e che consente a tutti coloro che pagano una quota di accedere al club come a un circolo, sentendosi parte delle strategie decisionali. Dunque da una parte il St.Pauli ha scelto, in base alla sua estrazione sociale, a quali valori ispirarsi, mettendo in campo iniziative a favore della comunità Lgbt, scrivendo a chiare lettere allo stadio ‘Lo diciamo forte e chiaro, qui i rifugiati sono i benvenuti’, prendendo posizione sulla violenza sulle donne . E probabilmente non è un caso che proprio le donne costituiscano il 30% degli spettatori che seguono il St.Pauli allo stadio. Dall’altra con l’azionariato popolare si finanzia e si confronta con i propri tifosi, cooptandoli nella gestione e nell’orientamento. È vero, ai club tedeschi da qualche anno è consentito aprire anche alle società di capitali esterne, un mezzo oggi indispensabile per restare economicamente competitivi rispetto agli altri club europei, ma gli azionisti devono mantenere la maggioranza per evitare derive che contrastino con la loro cultura sportiva. E anche il St.Pauli ha aderito alla nuova opzione attraverso una cooperativa sociale e ampliando notevolmente il marketing. Circostanza che ha fatto storcere la bocca a molti puristi di quelle lande, ma che non ha scardinato l’essenza del club. Basterebbe questo per capire la differenza con l’Italia. Da noi l’azionariato popolare non esiste e solo l’iniziativa di Carlo Cottarelli denominata Interspac ha provato a introdurre quel principio in seno all’Inter con l’intento di abbattere l’indebitamento, rendere il finanziamento più stabile/sostenibile e rinforzare il legame tra squadra e tifosi. Ma senza risultato. Da noi sono arrivati i fondi, di per sé tutt’altro che un male, ma certamente più orientati all’utilizzo di dinamiche finanziarie nella gestione dei club calcistici. Da noi la cultura sportiva non prevede, almeno ab origine, che una società offra una visione del mondo politico-sociale. Ma al contrario si parte dal presupposto che chi opera nel calcio si occupi esclusivamente di calcio, tralasciando qualsiasi posizione che sarebbe vissuta come divisiva, come ingerenza in una dimensione parallela ma distante. E così i singoli club cercano certamente di promuovere valori universali come l’antirazzismo o l’inclusione, ma come cornice di un impegno la cui essenza resta precipuamente sportiva. L’inno della Juventus dice esplicitamente ‘Il bianco che abbraccia il nero’ , l’atto costitutivo dell’Inter parla esplicitamente di ‘Fratelli del mondo’ e tutti i club italiani sono certamente impegnati in iniziative educative e sociali. Ma spesso sono costretti a fermarsi ad atti di solidarietà nei confronti di chi subisce offese inaccettabili perché non in tutti gli stadi è possibile individuare con certezza ed espellere chi viola certi valori. Di più. Anche al St.Pauli esistono gli Ultras: sono di estrema sinistra e qualche volta prendono posizioni eccessive, omogenee alla loro natura. Spesso, però, danno l’impressione di impegnarsi di più su temi di grande rilevanza, piuttosto che su superficiali e becere tematiche calcistiche. Non senza momenti di dibattito interno e di difficoltà oggettiva. All’indomani del 7 ottobre, la tifoseria del St.Pauli espresse esplicita vicinanza all’Hapoel Tel Aviv e ai suoi sostenitori che avevano dovuto pagare un insopportabile tributo di sangue nel corso dell’orribile attacco. Posizione comprensibile e coerente, se si pensa che l’antisemitismo è una delle battaglie da sempre combattute in quel quartiere di Amburgo e se si considera che i tifosi dell’Hapoel sono i più progressisti di Israele e dunque i più ‘vicini’ al loro orientamento. Tuttavia non ci fu alcuna presa di posizione ufficiale nei mesi successivi, quando il mondo cominciò a criticare se non a indignarsi di fronte alla reazione israeliana, vissuta come genocidio. Circostanza che mise gli Ultras del St.Pauli in conflitto con quelli del Celtic e che comportò la chiusura di alcuni fanclub dei tedeschi che negli anni precedenti erano sorti in tutta Europa. Non bastò precisare che in una situazione così complessa il St.Pauli restava fedele alla lotta all'antisemitismo e alla solidarietà per l’Hapoel, senza appoggio alle politiche di Netanyahu, affermando contestualmente la vicinanza alla popolazione di Gaza, ma senza adesione agli atti di Hamas. Ormai il dado era tratto, dimostrando che i conflitti spesso generano un’altra specie di vittime: coloro che non si riconoscono nella necessità di schierarsi con decisione da una parte o dall’altra. In ogni caso anche lì esistono gli Ultras, a volte dediti a una lettura estremista del mondo . E tuttavia in quel club esiste la Fanladen, che noi potremmo tradurre più o meno come ‘Centro coordinamento dei club’. Più o meno, perché in realtà la Fanladen del St.Pauli non si limita a includere le diverse realtà delle tifoseria facendo da tramite con la società, ma svolge un’attività educativa particolarmente significativa: finanzia progetti dei settori giovanili e si occupa della formazione di una sana cultura del tifo. I ragazzi under 18 vengono portati in trasferta dove incontrano i tifosi delle squadre avversarie, perché solo la reciproca conoscenza disarma la tendenza a vedere ‘gli altri’ come nemici. E tutto questo viene fatto grazie all’assunzione a tempo indeterminato di persone formate a questi ideali di amicizia e inclusione. Da noi invece si assiste troppo spesso al rapporto diretto tra le frange più borderline del tifo e il club, senza filtri o cuscinetti. Un rapporto che, come dimostrato dalle indagini sulle curve di Juventus, Inter e Milan, facilmente diventa odioso e distorto perché la necessità di ‘pacificare’ gruppi potenzialmente in grado di usare le armi della violenza e della contestazione porta a concessioni, soprattutto di natura economica, al limite della legalità. Senza contare che questo meccanismo attira la criminalità organizzata come il miele fa con gli orsi, peggiorando il clima. In cosa consiste la tolleranza? Tutto questo porta al concetto di tolleranza. E in cosa consiste esattamente? Nel limare gli spigoli culturali e psicologici che allontanano le persone o nel restringere il campo delle regole per ottenere una sorta di pace sociale? La risposta, in una recente intervista, di Patrick Gensing, responsabile della comunicazione del St.Pauli è chiarissima: “Tolleranza è un termine con il quale non ci identifichiamo al 100%, perché non siamo tolleranti verso le persone intolleranti. Vogliamo un club e uno stadio in cui tutti si sentano a proprio agio e al sicuro e possano semplicemente essere quello che sono. Chiunque pensi di dover denigrare gli altri non sarà tollerato da noi”. Dunque tolleranza e inclusione, in quest’ottica, sono concetti che hanno dei limiti precisi e non si sovrappongono perfettamente all’analogo precetto evangelico che tenderebbe invece a porgere sempre l’altra guancia. A questo proposito è forse utile ricordare che nella storia tutti i regimi hanno posto limiti alla tolleranza, molto stringenti in quelli dittatoriali, molto più lassi in quelli democratici. E tuttavia sempre di limiti si parla. La nostra epoca, erede di tanti straordinari contributi del pensiero filosofico e politologico, ha spazzato via molti principi ancestrali, tra cui l’investitura per diritto divino di Re e tiranni. E su quelle macerie ha costruito, dal punto di vista ideale, una struttura sociale basata sui diritti naturali, sull’eguaglianza e sulla libertà. Ma anche la democrazia che tutto difende , sino ad arrivare alla frase attribuita da Evelyn Hall a Voltaire può trovare un confine. Si è spesso dibattuto sulla vexata quaestio se fosse accettabile o no che una democrazia difendesse il diritto sino al punto di sopportare l’emersione di una visione antidemocratica al suo interno. Una risposta è contenuta nel “Contratto sociale” di Rousseau secondo cui, sintetizzando e banalizzando, è necessario sostituire la forza con il diritto. Che dunque diventa unica matrice su cui regolare i rapporti tra gli uomini. Per far questo il monopolio della forza deve essere affidato allo Stato che la gestisce e la utilizza nei limiti del diritto e nell’interesse dal patto sociale. Dunque la tolleranza esiste, certo. Ma non può essere concessa a tutti e in ogni caso: perché chi agisce per la distruzione del patto sociale, chi usa la violenza per prevaricazione, chi si dedica alla distruzione del sistema può e deve essere fermato. Nei confronti di costoro la tolleranza va azzerata. Certo, una democrazia liberale poi si fonda anche su principi di recupero e ‘redenzione’ e perciò tutti meritano un supporto che possa restituirli alla società. E tuttavia è ben comprensibile come anche una democrazia debba difendersi dalle forze che vorrebbero distruggerla. Il Rubicone, il limite su cui ragionare diventa allora il passaggio o l’osmosi pensiero/azione. Si deve tollerare un’opinione inaccettabile sino al momento in cui diventi azione? O la si può perseguire prima che lo diventi, considerando scontato che a un tale pensiero non possa che sottendere una futura azione antisistema? Ecco, il St.Pauli la sua risposta l’ha data. Ed ecco perché, per tornare all’origine del ragionamento, senta come necessaria l’opera di denazificazione della sua storia. Al punto da appoggiare e condividere la scritta che compare nella curva degli Ultras: ‘Kein fussball den faschisten’, “Niente calcio per i fascisti”, manifesto che giustifica la decisione di espellere dallo stadio i gruppi di estrema destra affermando una visione del mondo ben precisa. Ora, l’obiezione che si può avanzare, per altro con molte ragioni, è che solo una realtà piuttosto piccola, omogenea e delimitata geograficamente, può produrre un club come il St.Pauli. Esattamente come solo le poleis greche potevano ragionevolmente aspirare all’esercizio della democrazia diretta. Un modello del genere è inapplicabile, per esempio, ai maggiori club italiani che hanno tifosi sparsi ovunque, appartenenti a culture, lingue e nazioni differenti. Tutto vero. Ma l’impressione è che il St.Pauli abbia operato un salto di qualità che può diventare paradigma concettuale per tutti. Tralasciando completamente l’orientamento politico delle tifoserie, i valori ispiratori sono in effetti simili se non uguali in tutte le realtà calcistiche europee, diciamo pure mondiali: no al razzismo e alla violenza, sì all’inclusione e alla fratellanza. E tuttavia quasi ovunque ci si ferma agli slogan, alle sporadiche iniziative culturali, alle condanne certamente sincere ma spesso sterili di fronte a fatti terribili. La vera rivoluzione culturale può attecchire solo laddove esista un modello sociale più strutturato e complessivo, un vissuto che non collochi la partita di calcio in uno spazio ‘altro’ rispetto alla quotidianità, ma al contrario in uno spazio collettivo in cui risuonino davvero gli stessi valori e le stesse convinzioni che tengono in piedi il patto sociale. In questo consiste la vera natura del modello St.Pauli: non basta aderire genericamente o individualmente ai valori condivisi, occorre collocarli in un tessuto sociale fatto di quotidianità e interazione. Se il calcio vuole essere comunità, che la comunità si faccia calcio.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Perché quello del St.Pauli è un modello di tifoseria

Alessandro Biolchi