Le due metà di Günter Netzer: la storia del primo calciatore tedesco ritenuto una pop star

Ai bei tempi, che sono poi sempre quelli andati, il faccione di Günter Netzer in piena vista sul lato di un grande edificio di fronte alla stazione di Dortmund non sarebbe stato accolto con molto favore dai tifosi locali. È vero, i bei tempi erano i primi anni Settanta e all’epoca a Dortmund, più che degli storici duelli tra il Borussia Mönchengladbach di Netzer e il Bayern Monaco, si dovevano preoccupare di rimanere in Bundesliga, come non riuscirono a fare nel 1971-72, o di tornarci, come capitò solo nel 1976, giusto in tempo per perdere, un anno dopo, 12-0 proprio contro il Gladbach. E in più il grande nemico è sempre stato lo Schalke 04, ma insomma c’è un limite a tutto, anche perché qualche frizione c’è comunque sempre stata, esemplificata dal canto ‘Es gibt nur eine Borussia’ eseguito primariamente dai tifosi del Gladbach. Nulla di sorprendente, specialmente in quell’inarrivabile agglomerato di città, grosso modo corrispondente alla zona industriale e post-industriale della Ruhr, dove letteralmente ad ogni fermata del treno c’è una squadra che sia o sia stata grande: Duisburg, Essen, Bochum, Düsseldorf, Oberhausen, Gelsenkirchen fino a Mönchengladbach verso nordovest, seguita da Krefeld , poi Leverkusen e Colonia a sud, senza dimenticare Aquisgrana e la curiosa Wuppertal nella vallata adiacente, con la sua ferrovia sospesa unica al mondo . Tutto si mescola e tutto rimane puro anche al contatto con gli estranei, e la miccia fa presto ad accendersi. I favolosi anni Settanta Quel faccione di Netzer non è lì per caso: c’è dai primi di aprile e resterà almeno fino a febbraio 2026, perché il successo della mostra speciale a lui dedicata dal bellissimo Deutsches Fußballmuseum, 'Netzer - gli anni Settanta', è stato così clamoroso da indurre gli organizzatori a prorogarla di quattro mesi oltre la prevista chiusura dell’8 ottobre scorso. Il motivo di tale interesse è intuibile, forse: si parla della ‘prima pop star del calcio tedesco’, come dice il sottotitolo della mostra, che occupa una superficie di quasi 1000 metri quadrati in una zona apposita al piano terra, mentre il resto del museo si sviluppa al primo piano ed è, di per sé, consigliatissimo per il numero di cimeli e alcune interessanti installazioni multimediali. Netzer è protagonista in sé e come, appunto, personaggio di enorme impatto sulla scena tedesca, non solo in senso sportivo. Era il periodo giusto, del resto, i bei tempi, quei bei tempi. Da fine anni Sessanta era iniziata, in vari paesi compreso il Regno Unito - basti pensare a George Best - l’epoca del calciatore che usciva dall’ambito strettamente sportivo ed entrava nell’immaginario popolare, pubblicitario, pure estetico. Sì, i pantaloni a zampa d’elefante li portavano praticamente tutti, anche perché non c’era molta scelta, i capelli tendevano al lungo, i colletti uscivano spavaldi dai maglioncini o mostravano petti impavidi solcati a volte da collanine, tutte cose meravigliosamente vive appena si vede una foto o un video dell’epoca, ma quando le fanno i vip il loro valore e la loro influenza si moltiplicano, e in più Netzer era, per nascita, crescita, indole e circostanze, l’elemento perfetto per diventare un simbolo. Nato proprio a Mönchengladbach nel 1944, per certi versi miracolato perché cinque giorni dopo la sua nascita la città era stata devastata da un bombardamento alleato ma la sua famiglia era uscita illesa, e aveva iniziato nell’1. FC Mönchengladbach, il più antico club cittadino, tuttora attivo a livello giovanile, e solo a 19 anni era passato al Borussia, già con la nomea di giocatore e personaggio particolare, centrocampista offensivo specializzato in avanzate palla al piede e ribaltamenti di fronte, spesso con lanci lunghi di una precisione che a quei livelli non si era mai vista, uniti alla precisione sui calci di punizione, non compromessa dal piedone . Quel Borussia, salito in Bundesliga nel 1965 assieme al Bayern, ne divenne il principale rivale per oltre decennio e più, in una sfida che dominò il calcio tedesco: tra 1969 e 1976 il Gladbach vinse cinque titoli, la Coppa di Germania 1973 e la Coppa Uefa 1975 mentre i bavaresi si presero quattro titoli, due coppe nazionali e tre Coppe dei Campioni consecutive, 1974-76. Un confronto tra due diverse aree e due diversi mondi, la città tessile della Ruhr contro la metropoli della cultura, del terziario e del buon vivere all’ombra delle montagne, una sfida che però per il periodo particolare in cui avvenne assunse toni drastici, forti, anche esagerati. Borussia-Bayern divenne il simbolo di una contrapposizione non solo sportiva ma pure politica e sociale, frutto di tempi turbolenti, come spiega bene nel suo bellissimo ‘Tor!' Uli-Hesse Lichtenberger, scrittore nato proprio Dortmund. Le prime contestazioni giovanili, le crisi economiche, la prima generazione, non solo in Germania, che diventava adulta ed entrava nel mondo del lavoro senza aver avuto a che fare con la guerra. E allora non c’era più terra di mezzo ma tutto era o nero o bianco, il Borussia era la squadra anarchica, creativa, iconoclasta mentre il Bayern rappresentava il potere, l’antica nobiltà, le mani in pasta. Simboli di queste due correnti erano Netzer e Franz Beckenbauer, che col suo soprannome imperiale di ‘Kaiser’, nato da una rivista che lo aveva paragonato, per il suo aspetto, a Ludovico II di Baviera, il ‘ Re delle fiabe, quello che fece costruire svariati castelli tra cui l’intricato Neuschwanstein, e sigillato per sempre da una foto che gli fu scattata a Vienna, dopo una serata di gala, accanto al busto dell’imperatore Francesco Giuseppe. Beckenbauer, l’ex centrocamposta diventato libero, era quello sempre pulito, sempre perfetto, sempre col controllo della situazione, e la sua immagine si estese al resto della squadra creando questo mito di asettico dominio e utilitarismo cinico, contrapposto alla furia disordinata, screanzata e leggera del Gladbach, che in quegli anni ebbe quel 12-0 ma anche un 11-0 allo Schalke e un 10-0 al terzo Borussia, il Neunkirchen, di cui avete letto nell’articolo sul calcio nella Saar. Beckenbauer rappresentava il passato, Netzer il progresso, e allora tutti si buttarono sul Gladbach e su di lui, invocandolo come profeta, Messia di una nuova era. Netzer, un simbolo Auto costose, abbigliamento particolare, passione per la vita notturna, frasi a effetto: Netzer era tutto quello che un ragazzino avrebbe voluto essere per affermare la propria personalità, e anche per questo la scelta del Museo del calcio tedesco di evidenziarlo come simbolo degli anni Settanta, come prima pop star del calcio locale, è comprensibile, così come è interessante, e ci torneremo, la frase del cartello esplicativo che parla dello 'spazio conflittuale tra come lui si vedeva e come gli altri vedevano lui'. La prima parte in cui ci si imbatte entrando nell’ampio spazio a lui dedicato comprende un angolo con tavolo e postazioni video che avvolgono la narrazione di Netzer ma anche del contesto di quel periodo, concetto rafforzato, dal lato opposto del salone, dai tabelloni con cronologia fotografica della sua carriera ma anche di tutto quello che accadeva, in parallelo, nel mondo della politica, della moda, della musica, del cinema. Nella sezione video si dedica molto spazio, con un documentario andato in onda alcuni anni fa, alla celebre vicenda di Borussia Mönchengladbach-Inter del 20 ottobre 1971, andata degli ottavi di finale di Coppa dei Campioni, terminata 7-1 con un’esibizione di talento, creatività e forza che stupirono il leggendario ex allenatore del Manchester United Matt Busby, presente per conto dell’Uefa. Fu però anche la partita in cui Roberto Boninsegna, l’attaccante nerazzurro, fu colpito da una lattina e costretto ad uscire dal campo, e per questo motivo l’Uefa ordinò la ripetizione della partita, inizialmente a Berna poi a Berlino, rendendola la gara di ritorno, dopo il 4-2 con cui l’Inter aveva vinto quello che inizialmente doveva essere il vero ritorno. Finì 0-0 e il Gladbach fu eliminato, ma le accuse di simulazione a Boninsegna sono rimaste nel tempo e nel contributo ci sono interviste all’attaccante ma anche spezzoni del rifacimento del 1983 del film ‘Don Camillo’ in cui Boninsegna, vestendo la maglia della squadra legata al celebre personaggio di Giovannino Guareschi, subisce un contatto e cade platealmente, tanto da essere portato fuori campo in barella. Emerge, dalle parole dell’ex capitano Ludwig Müller, che tra l’altro proprio in uno scontro con Boninsegna si ruppe una gamba a 1’ dalla fine della partita di Berlino, una certa amarezza per la vicenda, che a Mönchengladbach forse non ha mai avuto una chiusura emotiva. Nello spazio principale, allestito con bella gestione delle distanze, due schermi raccontano di continuo la storia di Netzer mentre dall’alto calano sfere trasparenti contenenti oggetti a lui appartenuti, e dal lato opposto, alle spalle dei cartelloni, si apre un corridoio con l’esposizione delle bellissime opere del fotografo giapponese Masahide Tomikoshi, che seguì Netzer per alcuni anni, dentro e fuori dal campo, tra Mönchengladbach e Madrid, sua casa sportiva dal 1973. Foto in parte presenti nel bel libro, un tomo che sfida le regole del bagaglio a mano in aereo, edito per l’occasione, assieme a quelle di Manfred Babucke : sono decine e decine, quasi tutte in posa, con oggetti di arredamento, auto, abiti, in scenari esterni che la presenza di Netzer riesce a rendere accettabili, come la posa sul non bellissimo ponte sul Reno a Uerdingen/Krefeld, a conferma del fatto che in quegli anni il centrocampista fosse una reale attrazione, costantemente al centro delle attenzioni. In una delle foto, scattata in spogliatoio, con indosso l’inimitabile maglia bianca con bande verticali verdi e nere, Netzer, consapevole o meno di essere nell’obiettivo, ha il capo girato da un lato e un’espressione che sarebbe stata perfetta in una Pietà rinascimentale. Un capolavoro. Apparenza e realtà Nelle foto, però, e pure in quella appena citata, Netzer raramente sorride. Può essere una posa, una richiesta dei vari fotografi per dare maggiore gravitas alla sua figura, ma può anche essere un’espressione di quello spazio conflittuale di cui parla persino la sinossi della mostra. Perché quello che Netzer pensava di sé spesso non corrispondeva alla visione che di lui avevano altri, anche illustri, tra cui scrittori e intellettuali, specialmente quelli di sinistra, che il giocatore in realtà non amava per nulla. Sì, la sua prima autobiografia portava la parola ‘ribelle’ nel titolo e descriveva un giocatore che si staccava dalla media per atteggiamento, intelligenza, creatività e visione del mondo, ma Netzer si mostrò infastidito quando il suo biografo Helmut Böttiger scrisse "lui pensa al futuro, Beckenbauer pensa al passato", in quanto non riteneva che esistesse un confronto su quei termini. Il suo carattere vero, scrostato delle fastidiose e interessate etichette, portava le caratteristiche dell’introverso solitario più che del contestatore iconoclasta, e la sua stessa storia personale lo dettava. Certo, era figlio di un fruttivendolo , come viene spesso scritto, ma non è che i campioni nascano sempre da avvocati e ingegneri e oltretutto il pauperismo stolido di certe descrizioni venne smantellato dallo stesso Netzer, che un giorno, riferendosi anche all’appezzamento di terreno che il padre mise a sua disposizione per creare un rudimentale campo di calcio, disse "Credo di essere stato un ragazzino viziato, tante cose mi sono arrivate in modo naturale, senza sforzo, e la mia autostima era altissima". La sua vita da calciatore e simbolo, questa è l’interpretazione meno romantica, esagerata e dunque verosimile, anche perché supportata dal diretto interessato, fu quella di una persona che aveva idee e obiettivi che intendeva perseguire e in cui la creatività si scontrava con un pragmatismo ricordato anche dai curatori della mostra, che del resto con Netzer si sono confrontati a lungo. Come quando disse "adoro il calcio ma non voglio che questa passione mi divori, e allora la tengo sotto controllo" oppure "in campo vanno undici imprenditori, ognuno pensa solo a sé stesso", in aggiunta alla miscela, grata, che contengono le parole "mi sono concesso cose che facevano per me ma non necessariamente per il calcio. All’epoca era così: straordinario e bellissimo". Un poderoso libro sulla storia della Bundesliga dice, di lui, "non si considerò mai un rivoluzionario; voleva semplicemente vivere la sua versione della vita, e spesso si senti incompreso dai suoi fan. E soprattutto dai tabloid che volevano trasformarlo nel personaggio pittoresco che non è mai stato" ed è un ritratto decisamente adeguato, nel descrivere la miscela di bel vivere e pragmatismo indipendente abbracciata da Netzer. Che aprì anche un locale notturno/discoteca, il Lovers’ Lane, in società con un barista italiano che continuava a spuntare nelle sue serate in giro e nel quale tra l’altro, sopra il bancone, rimase appesa per anni un’opera d’arte ispirata al Gladbach e ora visibile al Museo: furbamente, il sabato sera Netzer parcheggiava fuori dal locale la sua Ferrari per dare l’impressione di essere all’interno e dunque attirare gente, ma in realtà se ne tornava poi a casa sua in taxi a riposare, anche perché non era certo un bevitore, anzi. Come disse un giorno Gerd Müller, l’inimitabile bomber del Bayern, "Günter i locali notturni li usa per fare soldi, non per divertirsi. È un George Best ma senza l’alcool". Uno spirito pratico dimostrato già in precedenza: sottolineando come pur giocando nello stesso campionato e con gli stessi successi il suo stipendio fosse molto inferiore a quello delle stelle del Bayern, aveva già ottenuto di arrotondare come collaboratore della rivista ufficiale e aveva aperto una piccola agenzia assicurativa, e anche l’apertura del night club avvenne con deroga preoccupata del suo allenatore Hennes Weisweiler, con cui ebbe un rapporto di fiducia, sfiducia, amore, odio, anche se nel libro della mostra le sue parole sono di estremo elogio. Sentimenti mai espressi con chiarezza come in occasione della sua ultima partita con il Gladbach, 23 giugno 1973, finale di Coppa di Germania a Düsseldorf contro il Colonia, quindi una specie di festival della Ruhr: Netzer aveva già deciso di accettare l’offerta del Real Madrid e lo aveva detto a Weisweiler, che decise di lasciarlo in panchina, anche per un lieve problema fisico e per il contraccolpo, ammesso dallo stesso giocatore, della morte della madre, avvenuta qualche settimana prima. Anche se al momento di ricevere la notizia dell’esclusione dai titolari Netzer aveva preso la sua borsa e si era mosso verso l’uscita, inseguito e convinto a rimanere da alcuni compagni di squadra. Per il Gladbach segnò il centrocampista e capitano Herbert Wimmer, che era una sorta di ‘custode’ della difesa ogni volta che Netzer partiva per le sue iniziative e che è ora raffigurato con lui in una bizzarra scultura nel centro di Mönchengladbach, ma il Colonia pareggiò con una ciabattata da fuori area di Herbert Neumann, mediano poi visto all’Udinese e al Bologna. All’intervallo Weisweiler si avvicinò a Netzer e gli disse "se vuoi ti faccio entrare", sentendosi però rispondere, in modo non proprio amichevole, "stanno giocando bene anche senza di me, hanno fatto un primo tempo splendido, non sarei in grado di fare meglio", temendo anche la giornata caldissima, ma verso la fine della partita Christian Kulik, che di fatto giocava al posto di Netzer, accusò un problema fisico: Netzer gli chiese se fosse in grado di proseguire, e al sentirsi rispondere "no" si diresse verso la panchina, si tolse la tuta e disse a Weisweiler "Ich spiel’ dann jetzt", ora gioco io. Entrò, all’inizio del primo tempo supplementare, e dopo 3’ segnò il gol della vittoria, con un doppio colpo di ispirazione: la finta per cambiare direzione in mezzo al campo e girare su se stesso per accelerare e, dopo il passaggio a Rainer Bonhof, scattò per chiudere il triangolo. La palla gli arrivò perfetta, passando tra tre difensori avversari, ma sul sinistro, che non era il suo piede: poco male, caricò e, con l’equilibrio chiaramente precario di chi non è abituato a calciare con quell’arto, mise la palla all’incrocio dei pali, esultando poi con la gioia e lo sfogo di chi ha appena dipinto un ricordo memorabile. "Netzer non gioca a calcio, lo interpreta" disse un giorno di lui un collega, e questo dice tanto, se si pensa al modo in cui segnò la rete di quella che, per sua ammissione, fu la più grande gioia sportiva della sua vita. Overath contro Netzer Uno degli aspetti curiosi della carriera di Netzer è nelle sole 37 partite in nazionale, culminate nel ruolo da protagonista negli Europei vinti nel 1972. Il Ct Helmut Schön, che lo aveva messo al centro del progetto 1972, lo sostituì poco alla volta con Wolfgang Overath, del Colonia, considerato meno incline ai personalismi. Overath di Netzer era pure amico, anzi un giorno andò al Lovers’ Lane con la moglie solo per fargli un favore e un po’ di pubblicità, pur sapendo che non si sarebbe divertito. Ospite certo meno sorprendente di quando si presentò nientemeno che Sepp Herberger, allenatore della Germania campione del mondo 1954. E quando ai Mondiali 1974 giocò solo 21 minuti, sostituendo proprio Overath nella celebre partita persa contro la Germania Est, Netzer fu onesto: "sono un pragmatico, Wolfgang sta giocando meglio di me. E non sono certo uno che se non gioca si augura il male della squadra". Contribuì comunque alla vittoria dei Mondiali, in modo indiretto: nella partitella del venerdì, due giorni prima della finale, ‘simulò’ di essere Johann Cruyff per consentire al marcatore previsto per l’olandese, il suo ex compagno di squadra Vogts, di abituarsi alla sfida. "Feci così bene che mi dispiacque per Berti, ma gli dissi 'guarda che ti ho aiutato, domani Johann non potrà mai giocare bene come ho giocato io oggi, per cui stai tranquillo'". E allora l’enigma prosegue, l’altruismo che sostituisce il solipsismo e la tendenza a dominare la palla. Enigma che vale anche il dualismo socio-politico Borussia-Bayern, che alla fine poggiava su basi non molto più ferme del pregiudizio su Netzer: progressisti contro conservatori, certo, ma siamo sicuri che la percezione, che la scelta di campo operata da scrittori e osservatori di costume fosse corretta e non corrispondesse invece alle categorie precostituite così amate da certi esponenti del giornalismo e della letteratura? Lichtenberger aiuta a scuotere l’albero dei luoghi comuni, ricordando quello che peraltro è noto: nel Bayern ‘conservatore’ militava Paul Breitner, futuro compagno di squadra di Netzer al Real Madrid e simpatizzante comunista, anzi maoista, e il presunto atteggiamento offensivista e spericolato del Gladbach era stato presto smentito dall’acquisto di Müller e Klaus-Dieter Selhoff, due formidabili marcatori da unire a Vogts. In più, tra il 1969 e il 1977 il Bayern sparagnino e fortunato segnò e subì più gol dello screanzato Gladbach, e anche qui dunque la realtà dovrebbe sconfiggere una percezione. Eppure non è così, e anche a distanza di anni la sfida Borussia Mönchengladbach-Bayern Monaco viene vista come il contrasto tra due metà del cielo, o della terra. Un po’ come per Netzer, e la mostra lo evidenzia: pragmatico, sognatore, individualista, ma soprattutto convinto di sé stesso, e pazienza per il giudizio altrui.

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Le due metà di Günter Netzer: la storia del primo calciatore tedesco ritenuto una pop star

Roberto Gotta