Inter, the english way. 61 anni fa in Inghilterra la prima partita in Coppa dei Campioni

Nil satis nisi optimum: “nulla è abbastanza, se non il meglio”. Brocardo latino, certo, ma adottato in particolare dall’Everton, il club più antico della città di Liverpool, capace di conquistare nel corso della storia 9 titoli inglesi, 9 Charity Shield e 5 FA Cup. E quella notte c’era davvero il meglio sul campo di Goodison Park. Era il 18 settembre 1963 ed era in programma il primo turno della Coppa dei Campioni. Di fronte ai 'Toffees' si presentò l’Inter, alla sua prima storica partita in quella che già allora era la più prestigiosa competizione calcistica europea. E che, quasi a onorarne motto e soprannome, offrì ai 60.000 inglesi il migliore e il più 'dolce' dei menu: c’era Luisito Suarez, l’architetto, il galiziano diventato grande a Barcellona e voluto da Angelo Moratti a suon di milioni . C’era Jair, l’imprendibile brasiliano che d’inverno abbracciava i termosifoni ma che danzava sorridente e disorientato quando i fiocchi di neve cadevano dal cielo. C’era Sandro Mazzola, il ragazzino cresciuto nel mito del padre e che proprio quell’anno avrebbe pianto di gioia e commozione quando il suo idolo Di Stefano confessò di aver rivisto in lui le giocate di Valentino. E c’era tutto il resto: l’intelligente eleganza di Facchetti, la classe affidabile di Picchi, la sicurezza di Sarti, la tigna dell’onomatopea Tagnin, l’implacabile concentrazione di Burgnich e Guarneri, oltre che la dedizione di Di Giacomo e Szymaniak, pedine che nel corso dell’anno avrebbero inciso poco ma che a Goodison Park, nella prima storica partita di Coppa Campioni dei nerazzurri, diedero il meglio. Lo stratega era ovviamente lui, Helenio Herrera, 'mago' nelle vesti di motivatore e di tattico, ossessivo nei colloqui individuali e di spogliatoio oltre che nella cura dei dettagli nella preparazione delle partite. Il Quinto Fabio Massimo del calcio, 'cunctator' per scelta e filosoficamente vicino al condottiero romano che sosteneva come il successo sia maestro degli stolti e come solo la strategia razionale sia vera maestra di vita e di battaglia. Anche dalla parte dell’Everton campeggiava l’optimum: in panchina c’era l’artefice della rinascita Harry Catterick, già giocatore dei Toffees ma soprattutto allenatore capace di riportare il titolo a Liverpool dopo 16 anni di sofferenze condite dalla retrocessione in Second division. C’era Brian Labone, centralone scozzese con qualche riflesso italico grazie al nonno, Antonio Labone, insegnante di lingue a Glasgow. E che avrebbe dedicato l’intera carriera ai Blues fino a diventarne monumento conservato per merito e per diritto nella Hall of fame della società. C’era Tony Kay, nazionale inglese e acquisto più costoso sino a quel punto della storia dell’Everton. Mezzala di lotta e di governo, tanto che Suarez avrebbe commentato la sua prestazione con un laconico “quanto picchia, questo Kay!”. Di lì a poco sarebbe stato accusato di vendere partite, sarebbe finito in carcere per 4 mesi e sarebbe stato bandito a vita dal calcio. Prima della riabilitazione, nel 2002, con tanto di standing ovation nel giorno dei festeggiamenti per le 100 stagioni del club in First division , in quello stesso stadio. E c’era Roy Vernon, talentuoso attaccante gallese spesso dedito agli eccessi, soprattutto fuori dal campo a causa della sua irrefrenabile passione per le scommesse su cavalli e levrieri. E a tal punto eccentrico da accendersi spesso una sigaretta prima delle partite, nel tunnel che porta al campo, quasi a celebrare un rito ribelle e anticonformista. Vernon, quello che i compagni definivano “atletico come Pinocchio”, ma che puntualmente la metteva alle spalle dei portieri avversari. C’era anche l’indimenticabile Kevin Keegan, allora dodicenne, sugli spalti, animato da passione ed entusiasmo per la sua squadra del cuore. Sì, perché c’erano anche loro, i tifosi. Tanti, rumorosi, scatenati. Con la voce, certo. Ma anche con le mani, visto che la nutrita falange di spettatori in prima fila non disdegnava di battere a tutta forza i cartelloni pubblicitari in metallo, per aumentare il clangore e intimidire gli avversari. Esattamente come gli omerici guerrieri greci erano usi fare prima della battaglia, battendo le lance sugli scudi. C’erano anche quelli dell’Inter, sicuro: non più di 200 e armati di un unico bandierone, talmente grande da disturbare la vista di un vasto settore di spettatori inglesi. Che non avevano intenzione di soprassedere. Tanto che la polizia dovette intervenire per calmare gli animi, rafforzando così i controlli in quella parte di stadio. Ecco l’atmosfera. Ecco la notte del battesimo per i neofiti ragazzi vestiti di nerazzurro. Sì, perché quella di indossare la prima maglia era in effetti l’unica concessione alla squadra ospitata , per il resto accolta come un prigioniero di guerra in un’arena ostile. La partita non tradì le attese per intensità, agonismo, qualità. E se Sarti dovette prodursi in un paio di interventi decisivi, i dioscuri della difesa nerazzurra Guarneri-Picchi non arretrarono di un millimetro. Anzi, il luogo comune della difesa ferrea come unica vera arma di Herrera venne smentita dalle continue avanzate di Burgnich e Facchetti, quasi fossero 'braccetti' del calcio contemporaneo. Suarez cominciò a dipingere lanci perfetti per le incursioni di Jair, ma il brasiliano non riuscì a finalizzare secondo i crismi della sua fama. Soprattutto all’inizio del secondo tempo, quando si lasciò ipnotizzare dal portiere West in un duello dal quale tutti ipotizzavano potesse e dovesse uscirne vincitore. E che avrebbe vissuto altri capitoli nei minuti successivi, sempre con West ad accendere i boati di sollievo dei tifosi. A dieci minuti dalla fine Vernon si dimostrò più freddo di Jair e, pescato libero davanti a Sarti, la mise dentro. Ma il fischio dell’arbitro cancellò tutto: fuorigioco. Niente Var, ma anche niente proteste. Gli inglesi saranno anche duri nei contrasti, ma non cedono mai alla pratica delle proteste. L’ultima occasione sarebbe stata per Mazzola, ma senza esito: 0-0. Jair si sarebbe preso la sua rivincita al ritorno, segnando il gol qualificazione, l’Inter si sarebbe costruita la favola perfetta arrivando fino alla finale di Vienna dove avrebbe sconfitto il mitico Real di Di Stefano. Ma questa è un’altra storia. La cui genesi, tuttavia, resta lì, al 18 settembre in terra di Albione, esattamente dove per i nerazzurri comincerà la nuova Champions League. Inzaghi scudettato al terzo tentativo come Herrera, Marotta presidente in tribuna a confezionare una metàtesi con Moratti, uno spagnolo allora in campo nell’Inter quasi a rispondere per riflesso storico allo spagnolo oggi sulla panchina del City e a quello che spense le speranze nerazzurre in Finale a Istanbul, uno straordinario sudamericano con le polveri bagnate allora e un altro in astinenza oggi. Ma le analogie finiscono qui, apparentemente. L’Etihad è un’astronave foderata di confort che forse sconta qualche libbra di fascino rispetto a quel Goodison Park, ma che rappresenta la nuova era di un calcio inglese progredito e vincente. Senza contare la potenza economica che ha consentito al club di Manchester di modellare una squadra quasi perfetta e ormai abituata ai trionfi: 6 Premier in 7 anni, una Champions oltre ad altri 11 titoli. Ricchezza che ora è sottoposta all’attenzione di un tribunale in relazione ai meccanismi con i quali ha forgiato la sua meraviglia. Ma anche questa è un’altra storia. Quella della Champions per l’Inter comincia ora, il 18 settembre, come 61 anni fa. E non resta che affidarsi alla saggezza orientale: ogni grande viaggio comincia con un singolo passo.

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