Luis Enrique e il rischio della disintermediazione

Chi ama le citazioni, in qualche pagina dovrebbe appuntarsi questa: "Se non sai spiegarlo a un bambino di sei anni, vuol dire che non lo hai capito nemmeno tu". Figuriamoci se non sai spiegarlo a un adulto, ci permettiamo di aggiungere. La celebre frase viene attribuita ad Albert Einstein, e se è vero che il 90% degli aforismi a lui assegnati sono apocrifi, ci basta il fatto che sia plausibile che l’abbia pronunciata il più grande fisico del XX secolo per sostenere il concetto che il padre della relatività avrebbe dovuto far capire a un bambino qualcosa di più complesso che l’esclusione di Ousmane Dembelè. Evidentemente Luis Enrique non è d’accordo, e lo avevamo capito da tempo. I fatti: il PSG perde 2 a 0 contro l’Arsenal in Champions League. A fine partita la giornalista di Canal + Margot Dumont chiede: “Puoi spiegarci la tua idea tattica al PSG?”. Risposta: “Non ho intenzione di spiegare le mie idee tattiche, non le capiresti. Molte cose dovranno essere corrette”. Ullalà, avrà mormorato per lo stupore, ma non per la meraviglia, qualcuno in studio, là dove di quelle scelte si stava discutendo legittimamente, non fosse altro che la percentuale di sconfitte in Europa del PSG di Luis Enrique è la più alta da quando il club è nelle mani di Nasser Al-Khelaifi. Sorvoliamo sulla forma, per una volta, anche se nella patria del bon ton quelle parole e quei toni devono essere suonati stridenti come una forchetta su un piatto di porcellana Limoges. E non ne facciamo una questione di genere, sarebbero suonate sgarbate comunque e Luis Enrique le avrebbe pronunciate comunque, perché l’insofferenza dell’allenatore è sempre stata per la categoria allargata dei giornalisti, che fossero un monsieur o una senora, come ha spesso mostrato o dichiarato. Entriamo nel merito. Luis Enrique prende la mira ma sbaglia il bersaglio. Non è il giornalista quello che dovrebbe capire o meno le sue spiegazioni, non è per sé che gli rivolge le domande, ma per i tifosi: e le persone a casa, così come quelle allo stadio, purtroppo per lui non si chiamano tutte Thierry Henry. Il calcio non è materia per un ristretto nugolo di esperti, e quando ci prova, a chiudersi nell’eremo come gli ermetici, non ce la: sfonda le porte e arriva comunque. Il suo essere linguaggio universale, che lo rende così amato, ovunque e a tutti i livelli, fa sì che in un modo o nell’altro, spiegato o meno, capito o no, esca dagli spogliatoi e viaggi nelle parole della gente. In fondo Luis Enrique lo sa, altrimenti non avrebbe cercato un rapporto diretto con i tifosi, ad esempio durante il Mondiale in Qatar affrontato guidando la nazionale spagnola, quando il suo modo preferito di esternare non erano le conferenze stampa ma le dirette su Twitch con i tifosi, sublimando così un fenomeno del nostro tempo che oggi invece andrebbe sì spiegato, e non è poi così difficile farlo: la disintermediazione. Pensare di fare a meno degli intermediari, dopo l’iniziale sbornia di euforia e illusione che sia davvero così, sta mettendo in luce una serie di rischi che certo, non possono essere il primo pensiero di Luis Enrique, ma neppure così banalmente ignorati. Pensare di eludere i filtri, i ponti con il pubblico, spesso è populismo più che trasparente comunicazione. Schivare le domande è l’unica strategia a disposizione del riottoso allenatore, non potendo adottare quella anelata. Pochi giorni prima, infatti, Luis Enrique aveva serenamente detto a una platea di cronisti che si sarebbe volentieri decurtato una parte di stipendio pur di non parlare con loro: addirittura il 50%. Lo ha annunciato, dicono le cronache, con serafica serenità, non alla ricerca di uno scontro ma come in una rassegnata confessione. È vero che non sempre le conferenze sono avvincenti e interessanti: la categoria di chi fa domande non è esente da responsabilità e ogni tanto lascia a casa l’empatia, quando ad esempio si trova a interrogare il protagonista una manciata di minuti dopo una sconfitta. Ma prima di rinunciare alle interviste c’è la possibilità di migliorarne la qualità, ma soprattutto la profondità, e un po’ di questo passa anche dalla disponibilità a concedersi degli intervistati. Se certe conferenze a Luis Enrique sono sembrate lunghissime, estenuanti torture, non è solo perché la percezione del tempo è relativa, ma perché forse non si è messo in gioco: e quando si guarda gli altri giocare, si sa, il tempo non passa mai. Se in Francia l’inciampo verbale non è piaciuto, in Spagna hanno provato a contestualizzarlo, spiegando che in fondo esistono tanti Luis Enrique e questa non è l’unica versione di lui, né la migliore, ma va accettata. Certo è che, come ha dichiarato poi Margot Dumont all’Equipe: “Se non possiamo più parlare di partite, allora non possiamo parlare di nulla”. Vero. Forse ci resta proprio la relatività, senza scomodarne la teoria. Intanto, con il dovuto rispetto, relativizzare l’importanza dell’argomento. E poi fare un passo in più: accettare come tutto, almeno nel calcio, possa esserlo. Una domanda opportuna o meno, una scelta tattica, persino la grandezza di un campione o la bellezza di una giocata. Dipende da che punto guardi il mondo, ma anche da come lo guardi: se in cagnesco o sbattendogli le ciglia. Da una certa prospettiva, persino Luis Enrique può sembrare il più affabile degli allenatori.

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