Quando Conte andò a Varsavia per Lewandowski: il retroscena

La mattina dell’8 giugno 2012 una voce si diffuse nella piccola comunità di giornalisti italiani di stanza a Varsavia per la gara d’apertura degli Europei. “Antonio Conte sta arrivando per vedere Lewandowski”: saremo stati una decina, non particolarmente accesi dal demone della concorrenza, e quindi la ricerca dell’allenatore della Juventus neo campione d’Italia - aveva appena vinto il primo dei suoi tre scudetti in bianconero, l’avvio del ciclo di nove campionati consecutivi - diventò un lavoro collettivo. Non fui io quello che lo trovò, e comunque Conte non usò particolari accorgimenti per passare inosservato: con lo scudetto in tasca aveva il cuore nello zucchero, e la ricerca del centravanti per il ciclo juventino nascente era un tema che non si sarebbe esaurito in quei primi giorni di giugno. Robert Lewandowski era soltanto il primo nome del casting: quell’anno aveva vinto la seconda Bundesliga di fila guidando l’attacco del Borussia Dortmund con la ragguardevole produzione di 22 gol . Si sapeva che era forte ma - francamente - non così forte. Varsavia in quei giorni è un vulcano in ebollizione perché l’Europeo è la prima grande manifestazione ospitata dalla Polonia , e grandi manifesti pavesano la città con le immagini sorridenti di Lewa in tenuta da gioco e Wojcieck Szczesny in smoking, la potenza e l’eleganza dei due eroi popolari. Ma Lewandowski si porta dietro le altre due star polacche del Dortmund, l’arrembante terzino Lukasz Piszczek e l’ala ‘Kuba’ Blaszczykowski che avremmo poi visto a Firenze. Quel Borussia era una squadra formidabile, con Hummels centrale di difesa, Gündogan regista, Perisic ala d’attacco e soprattutto Jurgen Klopp in panchina: ma non divaghiamo, e torniamo alla sua componente polacca che quella sera a Varsavia parte benissimo. Diciassettesimo minuto, Kuba trattiene il pallone sulla destra aspettando l’inserimento feroce di Piszczek, lo serve sulla corsa, il cross del terzino sorvola la difesa greca sorpresa, sul secondo palo plana Lewandowski che con calma e precisione colpisce di testa facendo rimbalzare il pallone oltre la portata del portiere. Polonia-Grecia 1-0, il grande stadio nazionale adagiato sulla riva della Vistola esplode come una bolla di entusiasmo e passione. Peccato che il resto della serata sia meno glorioso, e trovi proprio in Szczesny il protagonista negativo: sbaglia l’uscita che porta all’1-1 di Salpingidis, provoca un rigore facendosi espellere, per fortuna il suo sostituto Tyton para il penalty di Karagounis, a proposito di vecchie conoscenze. Finisce 1-1 ed è l’antipasto della grande delusione polacca, incapace di passare il girone e subito eliminata. Ma quel che ci interessa di quella sera è il commento che Conte detta su Lewandowski, una specie di “bravo, ma il casting continua”. Durerà un anno intero, in realtà, perché quell’estate la Juve si limita ad aggiungere una giovane mezzala talentuosa di nome Paul Pogba, sgraffignato al Manchester United che anni dopo sarà costretto a ricomprarlo a peso d’oro. La grande punta internazionale arriverà appena nell’estate 2013, ma sarà Carlos Tevez. Numeri straordinari Dodici anni dopo ci ritroviamo a celebrare in Robert Lewandowski un mito: il terzo giocatore capace di superare la fettuccia dei 100 gol in Champions League dopo Cristiano Ronaldo e Leo Messi. È successo martedì scorso allo stadio olimpico di Barcellona, quello sul Montjuic, che ospita il Barça fino a quando la ristrutturazione del Camp Nou non sarà conclusa. È successo in una partita relativamente facile, perché va bene che il Brest sia una rivelazione del torneo ma non esageriamo, e già che c’era Lewa ha sbrigato la pratica del centesimo gol infilando un rigore e ha poi aperto il conto della seconda centina con un destro da fermo che sembrava un colpo da biliardo. La classifica dice adesso Ronaldo 140, Messi 129, Lewandowski 101, e considerato che stiamo parlando di un giocatore di 36 anni verrebbe da pensare che il bronzo sia destinato a rimanere il suo metallo. Invece, mai dire mai con lui: la superiore attenzione che dedica da sempre alla dieta, curata assieme alla moglie Anna che fra l’altro è un’ex-campionessa di karatè, fa di Lewandowski un potenziale highlander sportivo almeno come Ronaldo, e l’avvento a Barcellona di un allenatore come Flick, con cui si era trovato benissimo in Baviera, è un altro tassello del piano per una terza età calcistica ruggente. Lewa procede al ritmo di 0.81 gol a partita, e qui fa meglio dei suoi due rivali più famosi; storicamente soltanto Alfredo Di Stefano, con 0.84, ha fatto meglio di lui. Qualche altra cifra aiuta a comprendere la grandezza del centravanti polacco. È l’unico con Ronaldo ad aver segnato almeno dieci reti in Champions League con tre club differenti. In particolare, Lewandowski è andato a segno 17 volte per il Borussia Dortmund, col quale ha guadagnato la finale del 2013; 69 per il Bayern Monaco, col quale ha vinto la coppa nel 2020; 15 con il Barcellona, col quale per ora si è spinto solo fino ai quarti. Queste reti gli valgono la prima posizione storica fra i cannonieri da Champions/Coppa Campioni del Bayern, la seconda del Borussia Dortmund, dove Marco Reus nel tempo l’ha scavalcato issandosi a quota 24, e al momento l’ottava del Barcellona: ma se si esclude ovviamente Messi, in Catalogna non c’è nessuno di irraggiungibile. Suarez, l’uruguaiano al secondo posto, ne ha firmati soltanto dieci più di lui, 25. Forse il resto di questa stagione è poco per coronare l’inseguimento, ma se ci mettiamo anche la prossima i dubbi si diradano. Detto che i 15 gol realizzati nella stagione del titolo sono la sua performance più ricca e continua, la singola partita che occorre ricordare è assolutamente la semifinale d’andata del 2013, quando il Dortmund batté 4-1 il Real Madrid, e lui firmò tutti i gol. Una scivolata sotto porta su cross da sinistra, una palla rubata sul filo del fuorigioco, un controllo celestiale - sempre di destro - seguito da una botta fragorosa sotto la traversa, un calcio di rigore: il repertorio completo di un fuoriclasse. Quando si parla di lui scatta sempre il rimpianto per quel Pallone d’oro mancato nel 2020: l’avrebbe vinto al cento per cento se France Football non avesse annullato quell’edizione del premio causa pandemia. Non ci stupiremmo se un giorno la rivista francese decidesse di ‘restituirglielo’: sarebbe un atto di giustizia.

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Paolo Condò