Bayern-Inter, un romanzo da 'Sturm und Drang'

70’ minuto, all’Olympiastadion di Monaco di Baviera si sta giocando l’andata degli Ottavi di Coppa Uefa, edizione 1988/89. Novembre inoltrato, il bianco della neve a incorniciare il rettangolo verde sul quale il Bayern si sta affannando nel tentativo di ottenere il gol del pareggio contro l’Inter dei due ex, Matthäus e Brehme. Jupp Heynckess ha tolto un centrocampista, Reuter, per aumentare la pressione in attacco grazie alla velocità di Ekstrom, punta svedese che i tifosi nerazzurri ricordano vagamente per quel gol, sostanzialmente inutile, segnato a San Siro l’anno precedente con la maglia dell’Empoli. L’Inter era passata in vantaggio una decina di minuti prima, grazie a quella che oggi chiameremmo ripartenza: Verdelli infrange una trama d’attacco e appoggia a Brehme, il tedesco evita l’immediato pressing avversario dialogando di prima con Matteoli, corre verso l’esterno e poi, sulla sua trequarti, con un dribbling a rientrare si porta la palla sul destro. Non c’è differenza né di sensibilità, né di potenza o precisione tra i due piedi del terzino sinistro, che infatti non ci pensa due volte e taglia il campo con un lancio teso e preciso sulla corsa di Aldo Serena. La difesa bavarese, altissima per ideologia e convinzione, non riesce a intercettarlo. Anzi, il centralone Grahammer, avanzato in piena metà campo interista, riesce solo a sfiorare quel pallone, perfezionandone ulteriormente la traiettoria. Serena corre, controlla, entra in area defilato sulla destra e piazza un sinistro perfetto a scavalcare Aumann in uscita. Si era materializzato così il perfetto piano partita di Giovanni Trapattoni: difesa attenta, fuori Diaz per rinforzare il centrocampo lasciando Matteoli libero da compiti di frangiflutti, veloci ripartenze per sfruttare le praterie lasciate dai tedeschi , Matthäus lontano dalla porta ma impegnato in solida regia, Berti incaricato di scavallare a suo piacimento ogni volta che se ne fosse presentata l’occasione. Ecco, Nicola Berti. Era arrivato all’Inter pochi mesi prima da Firenze e insieme ai due tedeschi, Bianchi e Diaz costituiva un tassello del sontuoso mercato voluto dal presidente Pellegrini su stimolo del Trap: via Passarella, Scifo e Altobelli, dentro quei 5 ad aumentare struttura, forza e qualità di una squadra che l’anno precedente non era arrivata oltre il quinto posto in campionato. E in effetti l’approccio alla stagione aveva dimostrato la bontà della scelta di fondo: 7 vittorie nelle prime 8 partite e primo posto in classifica a +2 sul Napoli di Maradona . Ma il Bayern portava con sé un fascino mai provato prima: massima suggestione, sapore europeo di una sfida che si consumava per la prima volta nella storia malgrado la veneranda età di entrambi i club , la magia di uno stadio prestigioso. E lì, per l’appunto, esattamente al 70’ minuto, c’è lui: Nicola Berti. Che legge l’ennesima verticalizzazione teutonica, anticipa il movimento in uscita, ruba palla al limite della sua area e comincia a correre. Probabilmente perché ha intravisto davanti a sé un corridoio, o forse perché ha deciso che sia arrivato il momento di spezzare il ritmo avversario e la conseguente sofferenza dei suoi compagni. Nicolino parte e corre. Dieci metri e i due centrocampisti del Bayern falliscono la tenaglia perché Berti è già oltre. Venti metri e la linea Maginot tedesca lo affronta minacciosa. Trenta metri e quel treno in corsa evita la scivolata disperata dell’ultimo difensore. E ancora metri e metri senza fermarsi mai scrollandosi di dosso quella selva di difensori che, come brandelli del suo mantello, lo scortano verso la porta non potendolo più raggiungere. Aumann esce a valanga, Berti scocca il dardo prima che il corpo del portiere faccia da scudo. E mentre la palla si accomoda in fondo alla rete, Nicola prosegue la sua corsa, scartando il palo e finendo per inginocchiarsi solo ai piedi della curva nerazzurra. È uno dei gol più iconici, storici, entusiasmanti della storia interista. È il crescendo rossiniano che aumenta la sua potenza sino all’apoteosi. 0-2 e pratica che sembra archiviata. La Prima… rovinata Ma il 7 dicembre a San Siro è in programma la partita di ritorno, esattamente nella stessa sera della Prima della Scala nella quale protagonista è proprio Rossini. Per la regia di Ronconi e con la direzione di Muti, va in scena il Guglielmo Tell, evento di portata mondiale che depotenzia la portata della sfida calcistica. Dopotutto l’Inter ha il doppio vantaggio dell’andata e può fare a meno della tribuna vip, trasferitasi in blocco al teatro di via dei Filodrammatici. E il Trap, forte della strategia vincente dell’Olympiastadion, ripropone la stessa formazione suggerendo un’identica tattica fatta di attenzione e aggressione. Ma il derby è alle porte e in molti giocatori prevale inconsciamente l’atteggiamento prudenziale di chi è portato a gestire, controllare, addormentare il gioco. E contro i tedeschi quest’abito mentale può diventare sempre pericoloso. Tanto più che Heynckes ci crede e si presenta con una formazione votata all’attacco, nella convinzione che un gol sia sufficiente per rimettere tutto in discussione. Per mezz’ora non accade nulla di rilevante e sugli spalti si accresce la convinzione di essere di fronte a una serata relativamente tranquilla, ma al 33’ ecco il colpo di lama che recide ogni sicurezza innescando la clamorosa reazione a catena. Andy Brehme si ferma, attira l’attenzione della panchina, non riesce a proseguire ed esce dal campo. Una stonatura improvvisa, che spiazza Trapattoni paralizzandolo in qualche attimo di indecisione. Del resto voltandosi verso la panchina, oltre agli occhi saggi di Malgioglio, vede solo Fanna, Morello, Diaz e il giovane Pasquale Rocco, 18 anni appena compiuti, un curriculum privo di minutaggio in serie A e con qualche scampolo di partita tra Coppa Italia e Coppa Uefa . In sostanza 3 attaccanti e un terzino di prospettiva, ma decisamente inesperto. Non resta che gettare lui, nella mischia. Ma mentre, con l’Inter in 10, il Trap lo motiva, lo prepara e lo incita, in campo accade quello che tutti stavano scongiurando: cross da destra, colpo di testa, mezzo miracolo di Zenga che toglie la palla dall’angolo e tap-in vincente di Wohlfarth: 0-1. E così, mentre alla Scala risuonano le note del secondo movimento dell’ouverture del Guglielmo Tell , su San Siro si abbatte una tormenta ancora peggiore. Non passano che 4’, infatti, perché il capitano del Bayern, Augenthaler, trasformi il cross di Pflügler in un colpo di testa simile a una fucilata diretta nell’angolo alla destra di Zenga: 0-2. E ci vogliono solo altri 3’ perché Ekstrom inneschi la corsa di Wegmann per il diagonale vincente: 0-3. Sette minuti e mezzo che ghiacciano San Siro paralizzandolo in una smorfia di disperazione. Tra gli eleganti scranni della Scala serpeggia qualche frammentaria informazione, rovesciata chissà in che modo nel buio della sala: i telefonini non esistono e tantomeno internet, senza contare che lo spessore culturale e mondano dell’evento sconsiglia qualsiasi prosaica divagazione calcistica. Eppure, a mezza bocca, di fila in fila, la notizia della disfatta consumata in un battito d’ali si fa largo rovinando l’umore di chi ha a cuore le sorti nerazzurre. Ma non è finita. La triplice scudisciata risveglia l’orgoglio degli interisti che, non senza sbavature, cominciano per lo meno a reagire. E grazie alla determinazione di Matthäus e Berti, proprio all’ultimo minuto del primo tempo si materializza la speranza: l’ex Bayern innesca Nicola che la butta in mezzo rasoterra per il tocco vincente di Serena: 1-3. Non basta, perché i gol segnati fuori casa a quell’epoca hanno una valenza maggiore e dunque, a parità di risultato e di differenza reti, passa il turno chi ha fatto più gol sul campo ostile. Serve un secondo gol, per qualificarsi. E ci sono ancora 45’ disponibili. L’Inter torna in campo finalmente libera da tremori e paure e si butta a capofitto sull’avversario, alimentando suo malgrado la serata perfetta di Aumann: il portiere tedesco prende tutto, para ovunque, anche un colpo di testa di Serena che appare impossibile. Le occasioni capitano a tutti, anche a capitan Bergomi, ma il dio del pallone ha deciso che la rete non tremerà più. Nemmeno al 90’, quando ogni evento sembra confluire in una favola, quella di Dario Morello. Al posto di Matteoli era entrato lui, e non Ramon Diaz, per aumentare il peso dell’attacco nerazzurro. Vent’anni non ancora compiuti, si era dato da fare come poteva, mettendo ansia alla difesa bavarese in un paio di circostanze. E all’ultimo minuto è lì, appena dentro l’area, libero e solo leggermente defilato rispetto alla porta. La percussione centrale di Berti è irresistibile, il suo assist perfetto. Morello carica il sinistro e immagina l’impatto con la storia. Ma colpisce troppo di esterno, la traiettoria si piega e la palla finisce fuori, graziando Aumann. Come spesso accade, è l’esiguità della misura spaziale o temporale a decretare la gioia o le lacrime: e così un centimetro o un secondo diventano abissi incolmabili. L’Inter esce dalla Uefa, ma si riprenderà presto. Vincerà il derby quattro giorni più tardi e conquisterà lo scudetto frantumando un record dopo l’altro, certificando il trionfo al cospetto del Napoli di Maradona. Curiosamente la squadra che aveva appena ‘vendicato’ i nerazzurri battendo il Bayern in Semifinale per poi alzare la Coppa battendo in finale un’altra squadra tedesca, lo Stoccarda. Quella notte del 7 dicembre 1988 Matthäus e Brehme dovettero assistere alla gioia degli ex compagni, ma quella Coppa l’avrebbero vinta solo pochi anni più tardi, nel 1991, in maglia nerazzurra. E Matthäus, tornato a Monaco di Baviera nel 1992, si sarebbe poi preso il lusso di rivincerla proprio con la maglia del Bayern. E il Trap? Beh, sei anni più tardi si sarebbe accomodato proprio su quella panchina vincendo una Bundes, una coppa di Germania e una coppa di Lega. Una pausa di 18 anni Ci sarebbero voluti ancora 18 anni per rivedere di fronte Inter e Bayern, stavolta in Champions e non in una sfida a eliminazione diretta. Nel 2006/07, infatti, le due squadre finiscono nel Girone B insieme a Spartak e Sporting Lisbona. Alla guida dei tedeschi c’è Felix Magath, quello che con la maglia dell’Amburgo fece piangere la Juve di Trapattoni nella finale di Coppa Campioni del 1983. Ma ora il Trap è al Salisburgo e sulla panca nerazzurra c’è Roberto Mancini, emergente quarantenne voluto fortemente da Massimo Moratti. Sì, perché anche proprietà e presidenza sono cambiate a Milano rispetto all’ultimo incrocio con i bavaresi: da ormai un decennio alla guida della società c’è di nuovo un esponete di quella famiglia che con l’Inter, negli anni ’60, vinse tutto. Mentre Ernesto Pellegrini, l’uomo che aveva inaugurato l’epoca ‘tedesca’ dell’Inter prima acquistando Karl Heinz Rummenigge nel 1984 e poi mettendo al centro delle sue ambizioni il trio Matthäus-Brehme-Klinsmann che colorò un po’ di nerazzurro il Mondiale di Italia ’90 vinto dalla Germania contro l’Argentina, è ormai solo un tifoso. Felice di riabbracciare sulle tribune di San Siro proprio Kalle, diventato nel frattempo amministratore delegato del Bayern. È la stagione del post Calciopoli e l’Inter si presenta all’appuntamento con l’abito della favorita in campionato e dell’outsider in Europa, forte dell’acquisto di Ibra e Vieira dalla Juve, oltre che di Maicon dal Monaco. Dall’altra parte, tra gli altri, due giocatori che con l’Inter avrebbero avuto un futuro del tutto differente: Lucio, protagonista anni più tardi di un Inter-Bayern ben più prestigioso, e Podolski, che all’Inter sarebbe passato come una meteora senza lasciare segni. La squadra di Mancini ha già perso la prima partita del Girone a Lisbona e ora cerca riscatto proprio contro il Bayern, che nella sua unica apparizione a San Siro contro i nerazzurri ha lasciato un ricordo agghiacciante. Ma non è tempo di ‘vendetta’ e in campo lo si vede quasi immediatamente. Lo stadio accoglie le due formazioni con empatia sentimentale più che con la tensione dei grandi appuntamenti: da meno di 20 giorni se n’è andato Giacinto Facchetti, capitano indimenticabile e uomo straordinario. E tra i 22 che camminano verso il centro del campo c’è Javier Zanetti, suo degno erede che sta per tagliare il traguardo della 500esima presenza in maglia nerazzurra. Il primo tempo non è granché: succede pochino e le rare fiammate di Stankovic e compagni non accendono la scintilla in Ibrahimovic. Che, anzi, al 18’ del secondo tempo pensa bene di prodursi in un’entrataccia a metà campo: secondo giallo e Inter in 10. Ovviamente la scossa cambia l’inerzia, ma curiosamente rianimando più i nerazzurri che i tedeschi, tanto che la grande occasione capita sui piedi di Crespo dopo un tiro rimpallato di Zanetti: Kahn però confeziona il prodigio e spegne l’urlo in gola. Col passare dei minuti l’Inter cala e il Bayern mostra il piglio di chi non si accontenta. Pizarro prima spedisce fuori di un millimetro e poi esce vincitore da una configurazione laocoontica con Grosso e Julio Cesar: palla che rimbalza e si accomoda oltre la linea di porta. Mancherebbero ancora 9’, che però si rivelano solo il tempo sufficiente per vedere un altro cartellino rosso e, con l’Inter in 9 uomini, un altro gol del Bayern, messo a segno al 91’ da Podolski entrato in campo due minuti prima al posto dello stesso Pizarro: 0-2 e altra doccia fredda servita a San Siro. Il ritorno tuttavia si rivela una partita quasi pleonastica. È l’ultima giornata del Girone e le due squadre sono già aritmeticamente qualificate per gli Ottavi. Unico verdetto ancora in sospeso è l’esatta posizione in classifica, visto che il Bayern è primo, ma con soli 2 punti di vantaggio sull’Inter. Variabile non sufficiente a motivare adeguatamente le antagoniste che si presentano in campo travestite dal turnover e poco inclini all’intensità. Del resto l’Inter viene da 11 vittorie consecutive tra campionato, Champions e Coppa Italia. E dopo questo match sarà in grado di metterne in fila altre 10. Mentre il Bayern attraversa un momento di crisi e sembra più preoccupato di raddrizzare la rotta in Bundes piuttosto che lottare per difendere un poco significativo primato nel Girone di Champions. Nel primo tempo, addirittura soporifero, si distingue solo Mariano Gonzalez, rincalzo nerazzurro in prestito dal Palermo e destinato a una sola stagione a Milano: corre, si sbatte, colpisce persino una traversa con un tiro dalla distanza. Ma in un contesto così letargico nemmeno la sua voglia riesce a stimolare l’andamento della partita. Nella ripresa si vede qualcosa di più tanto che arriva il gol di Makaay al rintocco dell’ora di gioco. Circostanza che riaccende un po’ l’Inter e che apre spazi anche ai bavaresi, giusto per ricordare agli spettatori che una partita di calcio un minimo di spettacolo e di agonismo dovrebbe offrirli. Fino a che, giusto al tramonto del match, Recoba inventa e consente a Grosso di servire Vieira per l’1-1 finale. In classifica non cambia nulla: il Bayern primo pescherà ed eliminerà il Real Madrid, ma uscirà ai Quarti per mano del Milan . L’Inter seconda troverà nell’urna l’apparentemente più morbido Valencia che tuttavia la caccerà fuori dalla Coppa già agli Ottavi. Ma saprà consolarsi con un altro scudetto da record insidiata solo un po’ dalla verve di una commovente Roma. Annata storica E si arriva così al 22 maggio 2010. È l’ultimo, attesissimo, atto della stagione. Quello che assegna la Coppa dalle grandi orecchie. L’inter non la vince da 45 anni e l’ultima Finale l’ha disputata 38 anni prima di questa serata al Bernabeu di Madrid . Ma da due anni è arrivato alla corte di Moratti Josè Mourinho, l’uomo dei sogni che ha già fatto impazzire i tifosi del Porto, riportando a casa la Champions dopo 17 anni, e quelli del Chelsea . Se c’è un allenatore in grado di compiere l’impresa, questo è lui. Per altro nella stagione che sta per finire sono già finiti in bacheca la Coppa Italia e lo scudetto, circostanza che apre le porte al cosiddetto Triplete, visto che al prezioso collier manca solo la pietra più preziosa, la Champions. Situazione speculare in Baviera, dove Louis Van Gaal col suo Bayern punta al medesimo prestigioso traguardo. Lui la Coppa dalle grandi orecchie l’ha sollevata nel 1995 ai tempi dell’Ajax, ma il club tedesco l’ha già vinta 4 volte, l’ultima nel 2001. È una sfida tra titani, tra filosofie, tra strategie di campo e di comunicazione. Ed è una sfida tra campioni fantastici: Milito contro Müller, Sneijder contro Olic, Eto’o contro Robben, Cambiasso contro Schweinsteiger. E Lucio nel frattempo è passato in nerazzurro, dopo i fasti di Monaco dove ha conquistato tre titoli in Bundes più svariate coppe nazionali. L’unica nota stonata è che la Finale sarà orfana di due campioni: Ribery e Motta, squalificati, dovranno guardare la partita dalla tribuna. Nella strada verso la gloria, dopo i Gironi, il Bayern ha superato Fiorentina, Manchester United e Lione, l’Inter invece ha messo in fila Chelsea, Cska e Barcellona. Ora, in 90 minuti, ci si gioca la storia. E qui è inutile fotografare con le parole ciò che è ancora nitido e indelebile nelle menti e nei cuori dei tanti che l’hanno vissuta. Milito, eroe dei 2 mondi già conquistati grazie alla sua principesca firma , appone il doppio sigillo anche alla terza dimensione del trionfo: il primo dopo 35’, deviando un rilancio di Julio Cesar verso Sneijder e scattando verso la porta, nella consapevolezza che l’olandese avrebbe calamitato quel pallone prima di servirlo nel corridoio giusto. Due, tre passi davanti a Butt, quel tempo di gioco volutamente sacrificato quando sembra giunto l’attimo perfetto per il tiro, quel passo in più per rubare il tempo all’uscita del portiere e la successiva conclusione, in controtempo, come la batteria di Bonham in ‘Black Dog’ degli Zeppelin : il guizzo creativo che rende geniale la semplicità. Il secondo a 20 minuti dalla fine, con un altro scatto a dettare la verticalizzazione di Eto’o e un duello con Van Buyten fatto di piccoli passi, sguardi, attesa e pensiero. Sino alla finta e al repentino cambio di direzione, la nota di chitarra che spezza l’equilibrio del bridge, sottile diaframma di sospensione, e introduce l’assolo struggente. Che scivola via nell’anima come la poesia di David Gilmour: piatto aperto sul secondo palo e diagonale preciso, morbido e letale. Milito, l’eroe che ha reso tridimensionale una squadra di campioni, senza mai emergere con presunzione sulle dinamiche del gruppo: mai un’esultanza scomposta, mai una rissa da adrenalina fuori controllo, mai una dichiarazione supponente o polemica. Tutto sempre katà métron, secondo misura, nel solco dei fuoriclasse inclusivi e non divisivi. Perché è rispettando la misura che la si può superare. E poi tanti frammenti di immagini ed emozioni: Zanetti che si scioglie in un pianto e una smorfia che sublima in un istante tutta la gioia e la sofferenza di un percorso lungo, travagliato e onesto. Maicon che scuote la testa e guarda il cielo, Cambiasso che abbraccia i compagni come se non volesse più lasciare quel momento. Tifosi che sugli spalti sembrano disorientati e paralizzati da una sensazione mai vissuta, liberando lacrime di gioia disperata. Moratti che regala un sorriso e un afflato di condivisione al rivale/amico Rummenigge per poi scendere in campo, insieme a Mourinho. E lui, l’uomo dei sogni, che, immobile, osserva tutto con un sorriso accennato e lo sguardo compiaciuto di chi cerca di far posto nella memoria per fissare ogni immagine di quella indimenticabile cornice. Ma in cuor suo aveva già deciso: sarebbe stata l’ultima notte. E così l’abbraccio a Materazzi fuori dagli spogliatoi sarebbe stato il suo commosso commiato, prima di salire sull’auto di Florentino Perez e allontanarsi nelle luccicanti tenebre di quella notte perfetta. Perché il calcio è una palla che rotola senza fermarsi mai, nemmeno di fronte al desiderio di chi vorrebbe fermare l’attimo per renderlo infinito, trasformando progressivamente la gioia in una fotografia virata seppia. Ci si rivede E infatti le due finaliste 2010 si ritrovano solo 9 mesi più tardi, ma in casa nerazzurra sembra passato un secolo. Il post Mourinho ha già consumato il primo presunto erede, Benitez, e sta affidando le velleità di rinascita a Leonardo, compresso tra la stima di Moratti e l’endemica avversione della parte rossonera di Milano che vive quell’esperienza con la rabbia dell’amante tradito. In campo non ci sono Samuel, fermato da un grave infortunio al crociato, e Milito , mentre dall’altra parte è rimasto tutto pressoché invariato, con Van Gaal in panca, Robben a inventare, Ribery animato da voglia di riscatto e Mario Gomez a finalizzare. L’andata si gioca a San Siro e sembra un copione scritto dal Fato per ricomporre l’equilibrio spezzato a Madrid. La partita è bella, ritmata, frenetica. Perché alla consueta intensità bavarese Leonardo contrappone una strategia speculare, molto lontana dal solido attendismo mourinhano. Le occasioni si susseguono inesorabili e Robben sembra imprendibile: sforna cross a ripetizione che i compagni mandano sul legno o fuori di un centimetro. Eto’o non fa rimpiangere Milito per impegno e classe, ma le sue conclusioni vengono tutte esorcizzate da un Kraft in serata di grazia. E dove non arriva lui, arriva la Tuche: perché Cambiasso raccoglie una sua corta respinta ma scaraventa incredibilmente sopra la traversa una palla facile facile, quasi che l’invisibile mano di un dio dell’Olimpo avesse deciso di deviare il fendente come sul campo di battaglia a Troia. Ma quando lo 0-0 sembra scritto, ecco l’episodio decisivo: Robben, sempre lui, si accentra e tira spinto dal cronometro che segna il 90’ più che dalla convinzione. Julio Cesar c’è, come tante altre volte prima di quella. Ma stavolta si distende male e si accartoccia respingendo in modo goffo. Davanti a lui c’è il solo Mario Gomez che non deve far altro che spingere in rete: 0-1 e piano inclinato che comincia a pendere pericolosamente dalla parte bavarese, quasi a riparazione del rovescio subito a Madrid. Il 15 marzo è in programma il ritorno all’Allianz Arena. L’Inter ci arriva senza aver recuperato Milito e piuttosto stanca per la lunga e complicata rincorsa in campionato al Milan capolista. Vero, le due vittorie nei recuperi delle partite saltate a dicembre per far spazio al Mondiale per club hanno riportato il distacco a una dimensione più umana , ma Milan e Bayern sembrano proprio le due squadre destinate a chiudere senza altri sorrisi la stagione post Triplete. Per piegare il destino occorrerebbe una partita immensa in Baviera e nessuno è disposto a immaginarla, soprattutto all’indomani del pari di Brescia, occasione dilapidata per rosicchiare punti ai cugini fermati in casa dal Bari. Ma ci sono notti che nascono da sole e che offrono eroi inattesi: Goran Pandev a Madrid c’era. E aveva aiutato la fase difensiva per chiudere la finale in cassaforte. Ma all’andata di questo nuovo capitolo contro i bavaresi era rimasto tristemente in panchina, spettatore di quella sconfitta piovuta all’ultimo minuto. Stavolta torna in campo. E non si limita a fare il terzino aggiunto. Gli bastano 4’ per mostrare tutte le sue doti tecniche: gestisce palla sulla trequarti, avanza e mette di esterno il pallone nel corridoio giusto per Eto’o: 0-1! Lo squilibrio non è durato 3 settimane , ma solo 4 minuti: dal 90’ di San Siro al 360’ secondo dell’Allianz. La sfida sembra ricominciare daccapo, ma la gioia interista si rivela presto un’illusione: il Bayern non si scompone e anzi comincia ad avvolgere e travolgere, come se non ci fosse un domani. Robben è ancora una volta incontenibile, Ribery sembra tarantolato, Gomez è spesso goffo ma è sempre lì, Schweinsteiger prende in mano il centrocampo dominandolo. L’Inter barcolla e cade dopo meno di un quarto d’ora, paradossalmente con un replay del gol subito a San Siro: Robben che tira senza grande pericolosità, Julio Cesar che para e non trattiene goffamente, Gomez che, incredulo, la mette dentro. Sembra una maledizione, il giorno della marmotta in salsa Champions. Tanto più che Pandev, dopo il lampo iniziale, è sparito, Sneijder fatica e tutta la difesa sembra alle corde, a eccezione di un monumentale Ranocchia. Passano altri 10’ e la sentenza sembra depositata in cassazione: Müller si inserisce e sigilla il 2-1. Ora la sensazione è che i tedeschi possano gestire. E invece no. Forse perché non si fidano, forse perché il piacere della vendetta è una tentazione irresistibile, fatto sta che il Bayern non rallenta per nulla. Sente di avere la partita in pugno e vuole chiudere definitivamente la pratica. Le occasioni vengono fabbricate in serie e progressivamente diventano più clamorose. Gli ultimi 7 minuti del primo tempo prendono le sembianze dell’incubo umiliante per i nerazzurri: prima Ribery si presenta davanti a Julio Cesar costringendolo a una parata dal sapore miracoloso, poi Gomez si presenta defilato in area e supera con un tocco delicato il portiere brasiliano in uscita. La palla comincia a danzare sulla linea da sinistra a destra, come un flashback cinematografico in slow motion. E il tempo si dilata sino a perdere significato, fino a che Müller e Ranocchia si lanciano disperatamente con obiettivi opposti: il primo ad arrivare è l’attaccante tedesco, ma il difensore nerazzurro con la punta della scarpa gli respinge il tap-in mandando la palla a sbattere sul palo. Un salvataggio epico, che per alcuni risuona come segnale della volubilità della Sorte, per altri come il sofferente prolungamento dell’agonia. Sì, perché il Bayern non si placa e chiude costruendo altre occasioni, mancando però sempre di un soffio il gancio del KO. L’intervallo spesso scompagina e rovescia l’inerzia delle partite, ma non questa volta. Ad attaccare sono sempre i tedeschi, a difendere barcollando è sempre l’Inter. Pandev non prende più un pallone, in mezzo la sofferenza è sempre altissima, dietro si balla. Gli unici due che sembrano non avvertire il volo circolare degli avvoltoi sono Eto’o e Ranocchia. Ma quando finalmente si sveglia Sneijder, tutto cambia. 18’ minuto, rilancio di Julio Cesar, come a Madrid. Stavolta non c’è Milito a raccogliere di testa, ma Eto’o che di esterno al volo appoggia all’olandese: tocco per Pandev che apre a sinistra per Coutinho. L’efebico brasiliano si accentra e pesca Eto’o dalla parte opposta: tocco vellutato al limite per Sneijder che in corsa scocca un dardo potente, preciso e velenoso: 2-2! Passano giusto 6 minuti e la storia sembra farsi ciclica e tornare sotto altre sembianze: Sneijder trova Pandev al centro dell’area, il macedone stoppa e dribbla liberandosi al tiro, ma la sua conclusione è informata alla potenza, non alla precisione. Esattamente come accadde al giovane Morello 13 anni prima. Palla alta. E la sensazione che la grande occasione sia destinata a restare utopia si materializza all’80’: ancora una bella azione sulla sinistra, ennesima percussione di Sneijder che si sistema il pallone appena dentro l’area e tira a colpo sicuro. Le braccia dei tifosi nerazzurri sugli spalti e sui divani si alzano d’istinto perché quello è il rintocco del gol. Ma sulla traiettoria c’è ancora lui, Goran Pandev, che incoccia di schiena e ‘salva’ il Bayern. Ora è proprio finita, pensano tutti. E invece l’epos spesso imprime quelle pieghe che curvano la storia sino a renderla leggenda: 87’ e 15 secondi, Sneijder lancia lungo quasi alla disperata, Breno è indeciso ed Eto’o gli ruba tempo e pallone sul vertice dell’area. Il camerunense difende il possesso, si accentra e vede Pandev in arrivo come un treno in corsa dal lato opposto: assist rasoterra e stavolta il macedone apre il piattone sinistro disegnando una traiettoria morbida e perfetta, come una replica allo specchio di Del Piero, nel 2006, contro la Germania. Ecco il momento epico che travolge di emozione, ecco l’attimo che scolpisce nel marmo l’impresa impossibile: 2-3, Inter ai Quarti, Bayern a casa. Per i bavaresi una delusione che avrà conseguenze: terzo posto in Bundes e addio a Van Gaal al termine della stagione. Per l’Inter resterà l’acme di una stagione destinata a sfarinarsi nel giro di due settimane, quando il doppio crollo in 3 giorni contro Milan e Schalke metterà fine alla rincorsa verso i sogni. Leonardo si consolerà vincendo la Coppa Italia e saluterà subito dopo, per inaugurare la sua fase dirigenziale oltralpe. Ma la notte di Pandev resterà nella memoria come un’isola lussureggiante circondata dal mare in tempesta. Ultimo atto. O quasi E si arriva così al 2022, quando Inter e Bayern vengono sorteggiate nello stesso Girone di Champions, insieme al Barcellona: Gruppo C, come ‘Complicatissimo’. È la seconda stagione di Simone Inzaghi alla guida dell’Inter e il suo incipit è tutt’altro che sfavillante. Anzi, sembra l’appendice dal retrogusto amaro impresso dall’annata precedente, quando la sconfitta nel recupero di Bologna aveva reso impossibile il sorpasso al Milan malgrado le ultime 4 vittorie consecutive. Delusione solo in parte addolcita dalla Finale di Coppa Italia vinta contro la Juventus. E che evidentemente pervade ancora le menti nerazzurre, visti i rovesci nei primi due scontri diretti infilati dal calendario nelle prime 5 di campionato. Solo 4 giorni prima del primo appuntamento di Champions, proprio contro i bavaresi, i nerazzurri hanno infatti perso il derby sciupando il vantaggio inziale di Brozovic e lasciandosi travolgere dalla magica serata di Leao. Il Bayern di Nagelsmann sembra l’occasione giusta per scrollarsi di dosso paure e insicurezze, anche se i campioni di Germania appaiono come una vera e propria corazzata: Sané, Mané e Müller davanti, Kimmich in mezzo e De Ligt a guidare la difesa. E sin dai primi minuti si capisce che l’impresa da ardua diventa quasi impossibile: i bavaresi si distendono in velocità e armonia, con meccanismi perfetti ed efficaci. E quando Kimmich pesca Sané in area con un lancio millimetrico, San Siro non può che ammirare lo stop volante e l’elegante dribbling del tedesco sull’uscita di Onana: 0-1. L’Inter prova a reagire, ma Dumfries e Gosens non riescono a spingere, il trio Brozovic-Calha-Mkhitaryan non riesce a dominare e la coppia Lautaro-Dzeko non è abbastanza lucida nelle rare occasioni che si presentano. Insomma, il Bayern sembra proprio ingiocabile, di un altro pianeta. Tanto che a metà ripresa confeziona un’azione che suscita meraviglia: percussione di Sané, doppia triangolazione in piena area a 100 all’ora e tiro/cross cui D’Ambrosio cerca di opporsi con l’unico risultato di appoggiare la palla nella sua porta: 0-2. Quarto precedente a San Siro contro il Bayern, quarta sconfitta. Il ritorno è fissato a novembre, per l’ultima giornata del Girone. E nel frattempo l’Inter ha cambiato pelle, almeno in Champions. Dove ha vinto facilmente i due incroci col Viktoria Plzen e soprattutto battuto il Barça a San Siro sfiorando l’impresa anche al Camp Nou . Il risultato è che la partita dell’Allianz è poco più che un’amichevole, anche perché stavolta l’aritmetica ha già fissato le posizioni delle prime due in classifica. Bayern certamente primo con 5 vittorie su 5, Inter seconda quale che sia il risultato dell’ultima sfida. La circostanza perfetta per il cosiddetto turn over, insomma. Tanto più che cinque giorni dopo il calendario prevede un Juventus-Inter da affrontare con muscoli tonici e menti fresche, anche perché al momento l’Inter veleggia stancamente a 8 punti dal Napoli, affiancata dalla Lazio e dietro anche ad Atalanta, Milan e Roma. Dunque a Torino non ci si concentrerà solo sul prestigio del derby d’Italia, ma anche e soprattutto sulla necessità di raddrizzare e nobilitare un po’ la classifica. Lautaro, Barella e Acerbi in campo vanno comunque, anche in terra teutonica. Ma per il resto Inzaghi dà spazio a chi cerca l’occasione per emergere: Asllani, Gagliardini, Bellanova e Correa su tutti. Si parte a ritmi bassi e l’Inter appare più intraprendente degli avversari, tanto che Gosens, in fuga sulla sinistra, offre un cioccolatino a Lautaro. Che in scivolata a un metro dalla porta riesce tuttavia a incartarlo e buttarlo sopra la traversa. E così, alla mezz’ora, ci pensa Pavard a mettere in porta un angolo di Kimmich, quasi a salutare quelli che presto sarebbero diventati suoi compagni in nerazzurro. Col passare dei minuti succede sempre meno e il ritmo diventa un cadenzato torpore, spezzato solo dal lampo di Choupo-Moting che dai 20 metri fulmina Onana scaraventando la palla sotto l’incrocio. Altro 2-0, ma senza rimpianti. Solo abbracci, strette di mano e sorrisi. L’Inter però non uscirà dalla mediocrità rimediando, qualche giorno più tardi, un altro 0-2 nel derby d’Italia e disegnando un rendimento in campionato piuttosto altalenante. Ma in Champions sgommerà con classe e orgoglio battendo Porto, Benfica, Milan e raggiungendo il Manchester City per l’ultimo atto: la Finale di Istanbul. E il Bayern? L’ingiocabile corazzata tedesca eliminerà agli Ottavi il Psg, ma dovrà inchinarsi ai Quarti proprio agli inglesi di Guardiola che alla fine alzeranno la Coppa. Tuttavia saprà consolarsi collezionando l’ennesimo Meisterschale. Il prossimo 8 aprile si riparte proprio da lì, dall’Allianz Arena. Sané c’è ancora, Pavard invece giocherà in nerazzurro. Ma Inzaghi non potrà basarsi troppo sui ricordi di quell’ultima doppia sfida: Nagelsmann ora è il Ct della Germania, sulla panchina del Bayern c’è Kompany e in attacco il pericolo si chiama Kane. Ma soprattutto questa volta sarà una sfida a eliminazione diretta, da affrontare con la forza dell’anima e dei sentimenti, con lo sturm und drang, con la potenza di una storia che ha regalato momenti di emozione incontrollabile.

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Bayern-Inter, un romanzo da 'Sturm und Drang'

Alessandro Biolchi