Una giornata a tu per tu col Psg di Luis Enrique

Piove. Ma qui piove sempre. Il regno del PSG è megagalattico, un podere dall’eco qatariota dove Nasser Al Khelaifi ha costruito uno dei centri sportivi più all’avanguardia d’Europa, è costato 300 milioni di euro. C’è tutto ciò che serve per sentirsi a casa se sei uno di loro e tutto ciò che serve per far sentire estraneo chi ci entra senza far parte del club. I movimenti sono limitatissimi. La struttura dedicata alla stampa è una palazzina di tre piani raggiungibile con una routine che si ripete in modo meccanico, senza margini di trattativa, ogni santa volta. Ti fermi alla sbarra di Rue de la Cote de Gras, dai il nome alla security esterna, entri, parcheggi, ridai il nome alla security interna e ti chiamano l’ascensore. Un uomo schiaccia il tasto 3, ti spedisce al terzo piano, una stanza nuda con una grossa terrazza che si affaccia sui campi. E da lì puoi osservare l’allenamento, prima di scendere al piano 2, in sala conferenze, dove l’unico comfort è una macchinetta del caffè, spesso senza cialde. La sensazione è di non avere nessun margine di movimento, di essere in un acquario con spazi chiaramente delimitati. Stavolta però è diverso, perché oggi è quel giorno in cui il club prima della finale di Champions League si dedica alla stampa. In gergo si chiama Media Day. Nei fatti si traduce con un’ora di allenamento aperto, cinque-sei interviste one to one da realizzare una dietro l’altra, una conferenza stampa dedicata. Insomma, un modo per entrare davvero nella casa e nelle dinamiche del PSG. Piove ancora, nonostante sia fine maggio. Non ha smesso un secondo. Dalla terrazza al terzo piano vediamo spuntare la squadra. Non è come prima. Un paio d’anni fa quando usciva sul campo il PSG sembrava la notte di San Lorenzo, passavano stelle talmente luminose - alcune cadenti - da lasciare una scia. Ora a entrare in campo è un gruppo di ragazzi che brillano di una luce diversa. Riflettono entusiasmo, luccicano di qualità. Sono una squadra vera, forse per la prima volta negli ultimi dieci anni. Come ci spiegherà Luis Enrique nell’intervista, sono ugualmente stelle ma tutte al servizio della squadra, mentre prima - dice lui - era la squadra al servizio della stella. Il riferimento, neanche velato, è a Kylian Mbappè. A inizio anno lo spagnolo disse: “se posso controllare tutti i giocatori in campo posso controllare sempre il gioco, se uno va dove vuole no”. E poi: “perdiamo un giocatore da 40 gol, ma se in 4 ne fanno 12 a testa alla fine dell’anno ne avremo 48”. Barcola, Douè, Gonçalo Ramos e Dembelè, senza neanche contare Kvara arrivato a gennaio, ne hanno segnati 83 in 4 fino a questo momento. Per questo quando arriva alla nostra postazione Luis Enrique ci scherza: “avevo sbagliato! Avevo sbagliato!”. È l’unica cosa che dice in italiano, insieme alla parola “bugiardo”. “Sono un bugiardo”. Lo dice perché ci aveva promesso che in caso di finale raggiunta sarebbe tornato a fare interviste in italiano, ma non è così. “Mentiroso!”, verrebbe da dirgli, come urlò Chiellini a Jordi Alba in quella semifinale vinta dall’Italia contro la sua Spagna. Ma Luis Enrique è questo, imprevedibile e schietto, furbo e geniale. Ha appena finito di dirigere un allenamento ad alta intensità diretto da un carrello a forbice mobile, per vedere lo sviluppo del gioco dall’alto, per muovere le sue pedine. Sembra un capocantiere, nascosto da un cappellino bianco, mentre su questo strano aggeggio gesticola guardando verso il basso. Parla con Joao Neves, Vitinha e Fabian Ruiz, il miglior centrocampo d’Europa, ma per lui ancora migliorabile in qualche dettaglio. Fabian ci racconta che è un mago e per questo lo ha perdonato per non averlo portato in Qatar agli ultimi mondiali, si sono lasciati alle spalle quella storia per costruirne una nuova. Poi ci parla di Napoli, ci racconta che lui, Kvara e Donnarumma si sono guardati spesso le partite insieme, hanno tifato da Parigi per questo scudetto. Nel frattempo eccolo Donnarumma, compare in lontananza, bagnato dalla pioggia a fine allenamento e con quella cicatrice ben in vista. Da quando ce l’ha, sembra invincibile. È come se insieme alla ferita avesse chiuso la porta. È stato l’eroe di Anfield con i rigori parati, il mostro di Villa Park volando a più riprese su Rashford e ha fermato con l’istinto prima Trossard e poi Odegaard tra andata e ritorno contro l’Arsenal. Il PSG in finale, ce lo ha portato lui. Con quel contratto in scadenza nel 2026 che ancora non gli è stato rinnovato, una situazione che a guardarla bene, per uno che ha fatto una stagione da Pallone d’Oro, è quasi come un’altra cicatrice, solo che la ferita è ancora un po’ aperta in questo caso. Sotto la pioggia che non smette, di corsa come in campo e con la pettorina sopra la testa a uso cappuccio, arriva a sedersi davanti a noi pure Achraf Hakimi. È il grande ex, è ancora amatissimo dai tifosi dell’Inter e quel legame vale anche per lui. Ha fatto 7 gol e 11 assist fin qui nella stagione migliore della sua carriera, in teoria ha già una Champions in bacheca, ma l’ha vinta da ragazzino col Real Madrid nel 2018 senza praticamente giocare. “Però guardavo i grandi cosa facevano per prepararmi al giorno in cui sarei tornato a giocarla” ci dice. Quel giorno è arrivato e per stimolarlo gli parliamo dell’altro numero 2 della partita, quel Dumfries che è stato l’unico nel ruolo capace di essere alla sua altezza in questa stagione. “Sai cosa gli ruberei? Il colpo di testa, io di testa sono zero, lui fa un sacco di gol”. Chi di testa le prende tutte invece è Marquinhos. È lui più di chiunque altro a fare gli onori di casa, gentile come sempre, carismatico come pochi, sorridente come nessuno. Tra la M e la S del suo nome praticamente c’è tutta la storia recente del Paris Saint Germain, gioie e dolori, vittorie e sconfitte, risate e lacrime. Trofei e fallimenti. È recordman di presenze della storia del Paris, 484 in totale, è qui da 12 anni ma soprattutto è già passato da una finale di Champions, quella persa contro il Bayern. E se la ricorda bene. Era tutto diverso, non c’erano i tifosi causa Covid e lui giocava a centrocampo con Tuchel, davanti alla difesa. Marquinhos spera che ad essere diverso sia pure il risultato perché, dice, una delusione come quella non vuole mai più provarla. Racconta delle sfide in Argentina-Brasile con Lautaro e di quelle in Ligue 1 con un giovanissimo Marcus Thuram. “Me lo ricordo da ragazzino e già faceva i danni!”. Ci dice che il gol di Acerbi al Barcellona gli ha ricordato quello che fece lui nel 2020 contro l’Atalanta. “È il calcio che ti mette lì dove non dovresti essere, è per questo che siamo innamorati di questo sport, perchè alcune cose le decide il destino”. È un leader enorme, lo salutiamo con la sensazione che a Monaco tanto passerà da lui. Parola dopo parola i minuti passano, la pioggia cade, il tempo scade. Per tutte e diciannove le televisioni invitate al Media Day è arrivata ora di andare via. Il Campus PSG torna ad essere blindato ma qualcosa è filtrato, incollato addosso rimane un pensiero: il Psg non è mai stato così squadra. A prescindere da come andrà, i tempi del Kylian Saint Germain e della collezione di figurine sono lontani. Luis Enrique lo aveva detto subito che avrebbe costruito questa squadra a modo suo, che ci avrebbe lasciato la sua impronta, che le cose si sarebbero fatte come diceva lui. Era stato il suo biglietto da visita nel mondo parigino. Oggi il Campus Psg è la sua reggia di Versailles, la dimora del Re. Continuerà pure a parlare spagnolo, ma in questo caso è stato fedele alla premessa, mantenendo la promessa.

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Gianluigi Bagnulo