Certe cose possono accadere soltanto ad Anfield

Il paradosso di Anfield, il mio stadio preferito fra quelli in cui si giocano le partite di Champions League, è che tanto fascino parte da una negazione: soltanto ad Anfield l’inno della Champions non si sente, perché la lunga e coinvolgente esecuzione di “You’ll never walk alone” da parte della Kop - ma direi di tutto lo stadio, perché il celebre canto della curva viene accompagnato da ogni settore - copre la famosa musichetta. Che poi l’Uefa non è scema, ha capito di non poter vincere il braccio di ferro alzando semplicemente il volume, e così ha spostato l’inno una manciata di secondi più avanti, in modo che le sue ultime note risuonino alla fine dell’esibizione del pubblico, in quello iato di tempo che - specie per le televisioni - separa le musiche dal fischio d’inizio. È chiaro che se il vostro cuore è di pietra, cosa che di questi tempi può indubbiamente essere un vantaggio, la liturgia di una partita ad Anfield non vi dica granché. Se invece il calcio per voi non è soltanto una storia di quinti, densità e ampiezza - il pane tattico convinto di bastare a sé stesso - ma anche un affare di emozioni e sentimento, già le transumanze di tifosi dal centro al grande stadio periferico sono meritevoli di un occhio attento. Che cos’è che rende grande un club? Io ho sempre pensato la capacità di essere un linguaggio comune a tutte le generazioni. Non c’è stadio al mondo - almeno per quanto riguarda la mia esperienza, che non è piccola - nel quale nonni e nipoti, e quelli che stanno in mezzo, condividano le stesse tribune con analoga frequenza. Certo, anche in Italia ci sono un sacco di famiglie nelle quali il tifo viene tramandato e condiviso; ma ho tante esperienze di situazioni opposte, ‘tradimenti’ da una generazione all’altra come ribellione familiare, metafora incruenta dell’uccisione del padre teorizzata da Freud affinché si possa diventare adulti. A Liverpool invece non ho mai sentito di famiglie in cui la passione per i Reds conviva con quella per l’Everton. Quando Wayne Rooney, nato toffee e fiero di esserlo anche con la maglia del Manchester United, entrava ad Anfield assieme a Ryan Giggs e Cristiano Ronaldo, il grido di “you fat bastard” si alzava compatto da ugole fresche e stagionate. E siccome i grandi stadi implicano grandi rivalità, una volta andai lì a vedere per puro sfizio la partitissima fra Liverpool e United, scousers contro mancunian, ricavandone una sensazione da battaglia della fine del mondo. Era ottobre, teoricamente faceva freddo, ma il 2-0 firmato da Fernando Torres e David N’Gog produsse un calore diverso, sempre per chi ci crede. Ad Anfield si va in autobus, se non proprio a piedi, e ricordo che un tizio particolarmente coinvolto nel match, e soddisfatto del suo esito, mi invitò a non salire sul mezzo senza un cartoccio di fish and chips della friggitoria adiacente alla fermata. “Best in Liverpool!” sosteneva, in modo cordiale ma assai animoso. Impossibile non seguire il suo ‘consiglio’, difficile dire se era soltanto generosità o anche voglia di viaggiare meno stretto. Di certo, un cartoccio di fish and chips di Anfield è una grande esperienza. Klopp strumentista speciale Esistono pochi, grandi allenatori capaci di ‘suonare’ il loro stadio come se fosse un immenso organo. Lo sanno accendere e lo sanno raffreddare, basta loro un gesto, o una corsetta, o un pugno sbandierato, per governare i decibel del tifo. Non ho ancora visto Arne Slot alle prese con Anfield, e i risultati del primo anno testimoniano della sua bravura; ma non c’è dubbio che Jürgen Klopp resterà un musicista irripetibile, empatia allo stato puro fra un manager e il suo popolo. Lo ricordo percorrere senza requie la linea laterale la sera del 4-0 al Barcellona, la rimonta quasi soprannaturale che catapultò il Liverpool alla finale di Champions del 2019, e di lì al trionfo. La rimonta è un plot classico delle coppe, il ritorno garibaldino dopo un’andata sofferente. Quella volta però il Barça, con il 3-0 del Camp Nou vidimato da una delle più celebrate punizioni di Messi, sembrava aver oltrepassato l’orizzonte. Sembrava. La determinazione e la fantasia con le quali il Liverpool ribaltò le sorti della semifinale sono destinate a rimanere per sempre, come le reazioni di Klopp man mano che il capolavoro andava concretizzandosi. Perfino surreale ricordare il nome dei due marcatori, una doppietta ciascuno, e i loro rapporti con la serie A. Giorgino Wijnaldum è stato un’occasione mancata della Roma, tra infortuni e delusione per un rendimento raramente all’altezza del suo passato. Divock Origi, invece, è stato uno scandalo al Milan, un perenne acciaccato che ogniqualvolta riguadagnava un po’ di spazio, subito lo perdeva con prestazioni incongrue. Eppure quella sera una giocata di Alexander-Arnold dalla bandierina del calcio d’angolo - un corner con finta, battuto a sorpresa - gli era valso il 4-0, la finale, e l’imperitura gratitudine di uno stadio straordinario. “Certe cose possono accadere soltanto ad Anfield” ripeteva la gente defluendo dall’impianto. E aveva ragione.

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Certe cose possono accadere soltanto ad Anfield

Paolo Condò