Mourinho è l'Odisseo del calcio moderno: il suo ritorno in Portogallo è un Nostos acheo

Quindici società, undici città, cinque differenti nazioni sparse tra le Alpi e le piramidi, tra il Manzanarre e il Reno. Visioni, culture, ambizioni declinate in lingue diverse ma tutte ridotte a sintesi dal suo pensiero fatto di brocardi indimenticabili e di scelte coraggiose sempre appese al confine tra la trionfale efficacia e la rovinosa caduta. Ventisei titoli conquistati, tra cui due Champions League, ma anche tante storie spezzate da dimissioni, esoneri o risoluzioni consensuali di contratto. La parabola di Mourinho è un romanzo che sembra scolpito sulle pietre ancestrali della storia dell’umanità, sin da quando gli antichi greci fondarono un genere letterario che il tempo ha cesellato ma non cancellato: quello dei Nostoi, poemi epici che inseguono gli eroi achei dopo la vittoria di Troia lungo percorsi tortuosi e avventurosi e che contemplano sempre il ‘ritorno’, inevitabile esito e aspirazione dei viaggi dell’anima. E in effetti quello di Mou al Benfica è esattamente un Nostos, un ritorno, che chiude probabilmente il cerchio di un’esistenza professionale appassionante. Nell’estate del 2008, quando portò l’Inter a Lisbona per la prima amichevole internazionale da allenatore nerazzurro, lo stadio Da Luz gli riservò un’accoglienza trionfale: l’aquila volò in cielo tra assordanti cori dedicati, Eusebio guidò la standing ovation in tribuna. Eppure, sulla panchina lusitana era rimasto solo per 9 partite, tra il settembre e il dicembre del 2000, dapprima chiamato dal Presidente Joao Vale e Azevedo per sostituire l’esonerato Heynckes e poi ‘costretto’ alle dimissioni lampo dopo le elezioni di fine ottobre che portarono al vertice della società Manuel Vilarinho. Bottino complessivo: 5 vittorie, 2 pareggi, 2 sconfitte. Troppo poco per lasciare il segno. Ma successivamente era diventato un eroe nazionale. Vero, la Coppa dalle grandi orecchie l’aveva sollevata col Porto e la sua fama di stratega dal tocco magico si era consolidata a Londra con la vittoria di 2 Premier, una Coppa d’Inghilterra e un Community Shield alla guida del Chelsea. Ma non importava quale fosse il vessillo impugnato dalla Nike mourinhana, perché lui era un figlio del Portogallo e proprio lì, a Lisbona, aveva mosso i primi passi da allenatore vero. Prima del 2000 si era consumata solo la gavetta alle spalle di allenatori cui offriva la sua collaborazione a fini di studio e formazione: Joao Alves e Jesualdo Ferreira all’Estrela Amadora, Bobby Robson allo Sporting, al Porto e al Barcellona, Van Gaal sempre in Catalogna. Dunque era il Benfica il primo effettivo vagito di una carriera che di lì a pochi anni avrebbe preso il volo, era il Benfica l’alfa di un alfabeto vincente. E quello si festeggiava in quel Ferragosto 2008, prima che Mou conquistasse un’altra Champions, un’altra Europa League, un’altra Conference e altri 3 campionati nazionali. Sì, perché Josè allora non era nemmeno a metà del suo viaggio. E ancora la sua anima non accarezzava la dolce melanconia del Nostos perché le stelle del mattino non erano ancora scomparse nel cielo, e gli indicavano la via di Milano, Madrid, Londra, Manchester sino a sfociare in pieno Impero, tanto d’Occidente quanto d’Oriente . Oggi invece è arrivato il tempo del ritorno, offerto dall’inopinata impresa di un’oscura squadra azera ricolma di sconosciuti talenti brasiliani, quel Qarabag capace di passare al Da Luz dallo 0-2 al 3-2 nella prima partita di Champions League, affossando così le velleità di Bruno Lage, l’allenatore che aveva causato l’esonero di Mou dal Fenerbahce battendolo ai Preliminari, anche lui di Setubal e anche lui ‘nato’ nella pancia del Benfica di cui allenava le giovanili proprio quando il maestro metteva in bacheca la sua prima Champions a Oporto. Del resto i Nostoi sono così, guidati da una mano invisibile che per gli antichi era la Tùche, la Sorte , che spesso seguiva logiche imperscrutabili. E proprio perché la parabola di Josè Mourinho ha questo sapore, sarebbe superficiale derubricare la sua nuova destinazione a triste e decadente ultimo capitolo di una carriera di gloria passata e ormai sfumata nelle pieghe del tempo. Vero, raggiunge il Benfica dopo 5 addii traumatici e con un solo titolo conquistato negli ultimi 13 anni , circostanza che evoca la via dell’inesorabile tramonto. Eppure i Nostoi hanno una valenza etica ed emotiva che sfugge alla nuda stratificazione degli eventi. Per gli antichi l’esito era proporzionale ai comportamenti tenuti dai singoli eroi achei di ritorno dalla guerra di Troia. Ed è per questo che Aiace Oileo, reo dell’atto più indegno durante la presa della città, cioè lo stupro di Cassandra davanti all’altare di Atena, fu spazzato via da una tempesta pochi giorni dopo la sua partenza. Ed è per questo che Agamennone, l’arrogante capo spedizione achea e acerrimo rivale di Achille, avrebbe trovato la morte per mano dell’amante della moglie Clitemnestra una volta raggiunta la Patria. Ed è sempre per questo che invece il saggio Nestore, scevro da eccessi e riluttante al saccheggio di Troia, tornò a casa in totale serenità senza dover espiare alcunché. Ecco, l’espiazione. Per i greci tanta Ubris corrispondeva a tanta Tisis . A Mourinho è stata spesso attribuita troppa Ubris per vis polemica, supponenza, arroganza e senso di invincibilità. Tanto che oggi, di fronte ai suoi recenti rovesci, molti vedono proprio quella ‘mano divina’ che punisce per ripristinare un equilibrio nelle sorti umane. Ma se è così, la sua espiazione ha già avuto la sua incarnazione e il suo ritorno potrebbe davvero vestire un abito etico, più che professionale. Negli ultimi anni è apparso più accondiscendente, più umile e più saggio rispetto al vigore giovanile che avvolgeva la sua retorica e il suo animus pugnandi. E anche Ulisse, il protagonista più famoso della saga dei Nostoi, al termine della sua avventura era ormai anziano, saggio e indebolito dalle mille prove affrontate nel viaggio di ritorno. Ma è proprio Odisseo ad aver confezionato il cosiddetto ‘lieto fine’, cioè l’esito che ripristina giustizia, armonia e che si accompagna al rigenerante “…e vissero tutti felici e contenti”. Perciò perché non pensare che anche per Mou questo lieto fine esista e si chiami Benfica? C’è solo un aspetto che resta inevitabilmente oscuro: l’Odissea si chiude con la vittoria, dopo non c’è più nulla da raccontare. Solo stasi e atarassia. E chiunque abbia provato e riprendere il filo, persino Dante nella Divina Commedia, non poteva che rimetterlo in mare, al timone della sua nave e con la “compagnia picciola” dei suoi adepti. Perché Ulisse è sinonimo di curiosità, lotta, coraggio e pericolo. In sostanza è simbolo dell’uomo. E in questo Mou ha i crismi del paradigma, anche lui lottatore nell’anima per quanto addolcita dalla vita. Dunque resta da capire solo se, compiuto il Nostos, resterà qualcosa da raccontare di questo allenatore così amato e così odiato . Se il Mago perde il fluido che lo rende superuomo, si trasforma in grottesco simulacro di sé stesso. Ma nel ritorno alla propria casa c’è sempre una vena di romanticismo che scatena le forze ancestrali della natura. Josè da quelle parti è ancora Mou, il suo nome significa ancora onore e gloria. E questo substrato non è pura nostalgia di ciò che non è più, ma al contrario possibile elemento di rinascita. Ulisse, sbarcato sulla sua Itaca, non fu riconosciuto da nessuno, se non dal suo vecchio cane e dalla anziana nutrice i cui occhi caddero su una vecchia cicatrice. Altra metafora dei segni che il tempo infligge all’umanità, stravolgendola. Ma la sua natura si sarebbe presto risvegliata, disvelando la verità al mondo. Chissà se Lisbona riconoscerà il suo ‘figlio’ che partì 25 anni fa per un viaggio infinito e ricco d’avventura. Quel che è probabile è che lui, Mou, si senta come quei greci che alla fine dell’Anabasi, e dopo un’interminabile peregrinazione in terra straniera, liberarono l’urlo “Thàlassa, thàlassa” per celebrare la gioia del ritorno ormai imminente. Non è un traguardo come un altro, e forse non è nemmeno il più prestigioso, ma è semplicemente l’armonia dell’anima sublimata nei propri affetti. Del resto ce lo ha insegnato anche Iliass Aouani, medaglia di bronzo italiana ai Mondiali di Tokyo: la maratona si snoda in parallelo alla vita ed è fatta della sua stessa sostanza, fino a dimostrare che non è l’esito a contare, ma il viaggio in sé. I primi chilometri sono quelli della forza, dell’entusiasmo, dei sogni. Poi arrivano quelli della fatica, della strategia e della riflessione. Più tardi quelli della crisi e della tentazione di mollare. Infine quelli della volata contro sé stessi per centrare il traguardo che riscatta, per sentirsi stremati e fieri. La cornice di Aouani è fatta di immigrazione, povertà, razzismo, studio, riscatto, determinazione, onestà, resilienza e impegno: cioè tutte cose che innervano l’esistenza e che in definitiva ne costruiscono il senso. Vale per tutti, vale per Mou. Che al Benfica potrebbe vincere ben più che un titulo. Un Nostos non è solo un ritorno, è un viaggio. E il viaggio non è solo un sentiero, è il senso di una vita.

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Alessandro Biolchi