Napoli in Champions, De Bruyne vuole (e può) fare meglio di Diego

Il mondo deve sapere. Sapere che il Napoli è la squadra più forte d’Italia, non solo in Italia. E davanti agli occhi del mondo la Champions League si propone come certificato d’autenticità. Con una profondità di rosa coltivata nell’ultimo mercato, con un senso del dovere che sembra permeare e trascinare tutti gli uomini di quest’avventura, con il desiderio di valicare l’ultimo confine - che agita un gruppo di atleti quando condivide la fatica e la missione - il Napoli vuole testimoniare la sua forza, vuole diventare memoria collettiva del vasto pubblico mondiale. Per farlo ha bisogno di affermarsi in Champions così come la proprietà vuole difendere lo scudetto per rinforzare i confini della nuova geografia del calcio italiano. Ovviamente, il mondo possiede contezza della meravigliosa città, e gli appassionati dispersi su varie latitudini e fusi orari associano la squadra al nome del più grande: oh, quella è la squadra di Maradona. Gli eroi dello sport sono un messaggio di conoscenza potente, penetrante. E qualsiasi tentativo di parlare di calcio, Napoli, Terra e che tenti di allineare e comprendere queste distanze e ometta Maradona, è vittima di senso di colpa o esercizio di stile o mancanza di serietà. Maradona è stato un politico ma non il terzomondista che voleva essere, l’uomo che si è speso per intero ed essendo il più grande si è scelto i nemici fra i ‘pari’: presidenti della Fifa, capi di Stato, in generale un sistema non facilmente identificabile ma sempre colpevole, se è vero che al mondo c’è tanta ingiustizia. Più concretamente, nel decennio del terremoto, dei soldi per la ricostruzione divorati da malaffare e politica, nel tempo dei Gava e di Don Raffaè, Diego fu il messaggio più potente di riscatto che Napoli seppe lanciare al resto del mondo. Maradona imposero agli italiani una Napoli superiore per bellezza, intelligenza, talento contro chi cercava in quella città la conferma dei vizi che mostrava senza troppa vergogna. Diego non riuscì a sollevarsi da quei vizi ma fu uomo-squadra, uomo-città, uomo-stato senza saperlo governare. Questa è Rivoluzione. Fatta con il suo corpo umiliato di ferite e tossine, il suo corpo miracoloso, basso e abbarbicato al terreno, con i piedi che sfioravano le radenze dell’erba. In lui tutto è stato esasperato ma senza posa: solo verità, autodistruzione, commiserazione, speranza, lotta. Perfino il rimpianto lo rilancia fra noi, continuamente, in lotta contro qualcosa di indefinibile ma opposto. E questa potente e perdurante rivoluzione, che ancora persiste nell’immaginario e nel ricordo, e sarà tramandata così da non essere mai superata, per farla spiccia e tornare in linea con il discorso portò a 6 misere partite nell’allora Coppa dei Campioni, al traino dei due scudetti vinti: le due contro il Real Madrid nella prima storica volta, e dopo l’infame sorteggio . Poi, nel 1990 le quattro esibizioni: i sedicesimi troppo facili superati contro l’Ujpest e gli ottavi troppi deludenti . Sì, s’inalbera la difesa della Storia: la Coppa Campioni fu insoddisfacente ma nel mezzo il Napoli di Diego trionfò in Coppa Uefa, tecnicamente la competizione più complessa e probante, e in quella traiettoria il Napoli rimontò ed eliminò la Juventus, poi il Bayern in semifinale quando il mondo vide Maradona palleggiare con tutto il corpo nel riscaldamento all’Olympiastadion, al ritmo puro della vita e quindi vinse in finale con lo Stoccarda. Ma erano i giorni in cui il calcio era turbato e stordito e sovvertito dal Milan di Sacchi, capace di segnare 9 reti nelle ultime due partite della Coppa dei Campioni, che si ripetè l’anno seguente, togliendo ulteriore valore alle due apparizioni e quelle sei partite del Napoli. Allargando l’accesso, la frequenza della squadra è stata quasi puntuale negli ultimi anni, e tre edizioni meritano la citazione: l’eliminazioni ai supplementari negli ottavi contro il Chelsea per la squadra di Hamsik, Lavezzi, Cavani che possiamo collocare all’inizio di quest’epopea, quella nel girone dell’anno seguente con 12 punti, record imbattibile di sfortuna, e i quarti di finale nell’anno dello scudetto con Spalletti, la migliore prestazione storica ma intossicata dalle scorie per l’eliminazione contro il Milan e velata nel valore dall’aver lasciato la competizione prima di entrambe squadre di Milano . La storia è spesso noiosa ma mai inutile, e davanti al proposito di arricchirla e superarla nei risultati c’è parso leale ricordarla, e salvarla dalla corruzione dell’oblio e dell’iperbole. Perché il Napoli vuole far meglio, essere avamposto della Serie A, e azzurra la bandiera da piantare più lontano, senza equivoci, oltre la concorrenza: la squadra più forte d’Italia, ovunque. Ne ha bisogno Antonio Conte, per liberare un giudizio che lo riguarda, oltraggioso e incagliato sulle secche europee. La proposta che si basava da anni sulla difesa a tre è cambiata nello scorso torneo per acconciarsi sui migliori, e ancora si è perfezionata in questa stagione per poter schierare insieme McTominay, De Bruyne e Anguissa davanti a Lobotka. Sovra tutti e tutto il Napoli di Conte è il legame per etica del lavoro e sacrificio, la solidarietà fra uomo e reparti, il vibrare insieme per il gol da fare e quello da evitare. In breve: il senso di squadra. È un calcio pensoso che vuol mostrarsi semplice e scarno, per non perdere la lineare responsabilità di tutti per tutto, che è l’atto costitutivo. Ma qualche debito andava saldato e dal dialogo fra la proprietà e l’allenatore finalmente paritario - che rimpianto per gli altri grandi tecnici transitati da Napoli - è arrivato un giocatore diverso, perché superiore. Talento e misura Kevin De Bruyne - di aspetto sobrio, quasi timido - è un incanto senza volerlo e senza poterlo evitare. Il suo calcio è esatto eppure istintivo, indottrinato ma naturale, uno sbocco verso l’utilità raggiunta nel meno tempo possibile: lui con la palla, lui senza palla, e la palla calciata da lui. Il gioco di De Bruyne è nascosto - per questo sorprende - eppure logico: sensibilità e tecnica permettono una limpida dimostrazione di sé. In alcuni atleti il difficile sembra facile e necessario come un destino: si chiama ‘talento’ e bisogna saperlo usare. Smuoverlo dall’indolenza e trattenerlo dallo spreco: questa si chiama ‘misura’, e forse niente riassume meglio questo ragazzo e questo giocatore come il senso della misura . Ottocento partite in carriera lo hanno sdrucito e la clessidra lo ha allontanato dalla Premier, così intensa da divorare i granelli, e la decadenza della Serie A ha offerto dignità per la nobiltà di certe biografie. Ma il campione non ha scampo: non è qui per il giro d’onore, per irraggiare il suo viale del tramonto fra il vulcano e il mare. De Bruyne deve accompagnare ed esaltare il Napoli nelle partite europee e aiutare Conte perché conosce la differenza, perché per molti anni la Champions anche per lui è stata un chiodo conficcato nell’orgoglio e chissà se la vittoria di Istanbul lo ha davvero pacificato, costretto al cambio per infortunio dopo circa mezz’ora. Anche De Bruyne ha un conto da chiudere. E l’allenatore, dunque, vilipeso da insolenti deduzioni. E la città, nel ricordo del Mito. E una squadra interrotta ai bordi dell’impresa. Ognuno in questa storia ha qualcosa da finire, un tormento, un torto da raddrizzare, un sentimento di rivincita che affratella più del pane, soprattutto se rivolto a un nemico comune e forse immaginario ma certamente da sconfiggere. Insieme, e farlo poi sapere al mondo.

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Napoli in Champions, De Bruyne vuole (e può) fare meglio di Diego

Marco Bucciantini