Deschamps e l'arte di essere un 'ponte': cosa lascia alla Francia (e a tutti noi)

‘Katà métron’, secondo la giusta misura. Un concetto filosofico alla base di gran parte della filosofia antica impegnata nella ricerca dell’armonia, delle proporzioni tra ideale e reale, del contenimento delle passioni e degli eccessi. E che nell’arte fu architrave di ciò che noi oggi chiamiamo ‘classico’. Ecco, Didier Deschamps si appresta a diventare proprio questo: un esponente del calcio classico, un allievo dello stoicismo di Seneca innervato di aspetti socratici e platonici, un uomo che per tutta la vita ha inseguito la giusta misura, grazie alla quale ha realizzato imprese straordinarie. L’annuncio del suo addio alla Nazionale di Francia dopo i Mondiali del 2026 lo consegna alla galleria dei pensatori dediti alla saggezza come arte del vivere correttamente, quel vivere che secondo il grande filosofo romano va interpretato come ricerca non tanto di far notare la propria presenza, ma di far sentire la propria assenza. È sempre stato un po’ sottovalutato, Deschamps, sia come calciatore che come allenatore. Forse proprio per questa sua misura, questa sua attenzione a non uscire dalle righe: nessuna sceneggiata in campo, nessuna dichiarazione al vetriolo dal tavolo delle conferenze, sempre e solo buonsenso esibito sia di fronte alle celebrazioni che alle critiche. Perché il saggio non dice mai tutto quello che pensa, ma sempre quello che conviene dire a seconda delle circostanze. È sempre sembrato l’uomo normale, Didier: sorriso un po’ scarabocchiato, espressione prevedibile e rassicurante, dosi di empatia troppo piccole per risultare ‘personaggio’ agli occhi dell’opinione pubblica mediterranea, fisico tutt’altro che apollineo. Eppure ha vinto 2 Champions, generose manciate di scudetti e Coppe finendo persino per sedere al ristrettissimo tavolo dei giganti in grado di vincere un Mondiale sia come calciatore che come allenatore: lui, Zagallo e Beckembauer. Nessun altro. D’altra parte ha sempre vissuto in quella vallata che separava le vette più imponenti e celebrate del calcio francese: Platini negli anni ‘80, Zidane negli anni ‘90. Il sole illuminava loro, mentre le radici di quel talento poggiavano nell’ombrosa terra resa solida dai vari Tigana, Fernandez, Giresse e poi Barthez, Thuram Desailly e lui, Didier Deschamps. Proprio gli anni ‘80 furono la fucina in cui DD forgiò il suo carattere. Mentre Platini conquistava il primo Campionato Europeo della storia dell’Equipe de France, il sedicenne Didier frequentava la Scuola di Formazione del Nantes. Ci era arrivato l’anno prima da Bayonne, la sua città, circondata da colline e posta nella regione basca di Labourd, non distante da Biarritz e dal confine spagnolo. Una scelta per nulla scalfita dal tentativo un po’ sbruffone del presidente del Bordeaux, Claude Bez, di soffiarlo ai Canarini: si presentò con una limousine più lunga di casa Deschamps, parlò subito di soldi e propose al ragazzo di scegliere il numero di maglia che volesse. Papà Pierre lo ascoltò, sorrise, lo congedò e poi, chiusa la porta alle sue spalle, confidò alla famiglia che quel tizio, benché ricco e importante, avesse i modi di un mercante di cavalli più che di un presidente di calcio. Meglio Nantes, katà métron. Dove Didier divenne titolare a 17 anni, centrocampista davanti alla difesa, ruolo in cui aveva convinto tutti gli scout del Paese. Niente colpi di tacco né giocate visionarie, solo molta applicazione e intelligenza tattica. Sufficienti per aprirgli le porte, di lì a due anni, dell’Olympique Marsiglia, la squadra emergente del discusso presidente Bernard Tapie. Un’evoluzione tutt’altro che naturale e senza scossoni, per la verità. Perché la sua vita a Nantes era costellata da troppe distrazioni, piuttosto comuni a quell’età ma tali da deviarlo sui sentieri dei locali e delle birrerie, piuttosto che su quelli professionali. E perché nel 1987 al 19enne DD cadde il mondo addosso, quando suo fratello maggiore Philippe morì in un incidente aereo. Due circostanze che, miscelate, avrebbero potuto spingere quel ragazzo fuori dall’orbita armonica disegnata per lui dall’educazione familiare. E se a esorcizzare i pericoli della prima pensò Claude, una giovane studentessa in Logopedia che sarebbe diventata sua moglie, a rimarginare la ferita della seconda non poteva provvedere nessuno. “Una cosa che si vive come profondamente ingiusta – avrebbe dichiarato lo stesso Deschamps anni dopo – eppure bisognava andare avanti. Il tempo ha fatto il suo lavoro, ma dimenticare è impossibile. La morte di mio fratello mi infligge ancora sofferenza, ma mi ha dato la spinta per arrivare a certi traguardi: volevo fare cose per chi non c’era più, ma c’era sempre”. Un ponte verso il trascendente, lo stesso che aveva provato a gettare per Desailly, compagno nelle giovanili del Nantes, al quale aveva dovuto annunciare un’analoga tragedia: la morte del fratello in un incidente stradale. E con il quale, da allora, cementò un’amicizia davvero fraterna, quasi a voler colmare quella voragine che la sorte aveva riservato ad entrambi. Probabilmente è per questo che da Ct della Nazionale rimase profondamente turbato da quella scritta comparsa sui muri di casa sua, come una sciabolata sui valori di una vita: “razzista!”. Era il periodo in cui in Francia si era diffusa la voce che l’esclusione dai Bleus di Benzema, decisa da Deschamps, avesse in nuce una connotazione etnica. Una voce messa in giro dai suoi detrattori e che si avviluppava ad ogni dibattito sulla Nazionale come un’implicita e strisciante accusa. Didier ne soffrì e per una volta reagì. Ma sempre katà métron, senza urlare. Anzi, limitandosi a un “non sarebbe mai dovuto succedere”. Lo stesso Benzema anni dopo avrebbe raccontato di un incontro col Ct durante il quale si parlò solo marginalmente di calcio. Un incontro tra due uomini, disse Benzema, pronti ad aprirsi su temi valoriali e disposti a offrirsi reciprocamente una visione del mondo. In pochi minuti la frattura durata 5 anni si ricompose. Un altro ponte gettato su due sponde opposte e apparentemente irraggiungibili. Del resto Deschamps lo aveva detto a più riprese anche negli incontro pubblici: per lui il gruppo dei giocatori della Nazionale mai e poi mai avrebbe dovuto essere composto dai migliori giocatori in termini di talento, in primo luogo perché questa è un’utopia e in ogni caso un giudizio del tutto soggettivo. E poi perché il vero risultato prodromico ai successi per lui è sempre stata l’alchimia, l’armonia, la costruzione di un soggetto sociale prima ancora che sportivo in grado di generare energia positiva. Quello era l’unico presupposto credibile per una vittoria. Parole da capitano, prima ancora che da Ct. E infatti Deschamps capitano lo è stato sempre e ovunque, dalle giovanili del Nantes fino alla Nazionale. E di quel ruolo ha sempre avuto un’immagine ben chiara: il capitano è quella persona che nello spogliatoio riesce a essere il collante tra la generazione dei giocatori più giovani e quella dei ‘senatori’, quella persona che riesce a mettere in comunicazione virtuosa il gruppo con l’allenatore e lo staff, quell’elemento, insomma, che diventa un ponte tra le diverse istanze e mentalità attraverso la mediazione permanente. Una mediazione non puramente diplomatica, ma che mette in gioco i valori di chi si assume questo ruolo. Anche Nietzsche usava la metafora del ponte per definire il superomismo, cioè il superamento dell’uomo: “La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione”. E Heidegger va oltre, definendo il ponte come la riunione della Quadratura tra Cielo, Terra, Divini e Mortali. Di più: accorda un luogo alla Quadratura, un luogo che prima del ponte non esiste affatto. Ecco, DD è sempre stato un tramonto, un uomo degno della transizione verso ciò che è migliore e per molti versi è sempre stato il ponte che dà senso alla Quadratura. Come Ct è stato spesso criticato per la qualità del gioco espresso dalla sua Nazionale, quasi che questa avesse vinto malgrado e non grazie a lui. Con quella montagna di talento a sua disposizione avrebbe dovuto vincere di più e attraverso un gioco più dominante e convincente, insomma. Ma DD ha sempre incassato, conscio del fatto che in ogni Nazione il Ct è bersaglio facile e sistematico: “Si poteva giocare meglio? Certo che sì. Ma si poteva vincere? Certo che sì. E noi l’abbiamo fatto”. Mai lasciarsi travolgere dagli eccessi, siano essi critici o addirittura divertenti. Come quella volta in cui si accorse che la sua camera d’albergo era invasa di bottiglie, marca Corona, riposte ovunque in perfetto ordine. Un po’ come il pane sistemato in ogni angolo e mensola della cucina dalla moglie di Fantozzi infatuata del fornaio sotto casa. Dopo qualche minuto di disorientamento, Didier si ricordò di un articolo in cui un giornalista aveva parlato della sua passione per quella birra, al punto da chiederne una cassa in spogliatoio al termine di ogni partita. Indiscrezione per altro falsa, ma derubricata dal Ct come innocua. Almeno sino a quel momento. E così, armandosi di sorriso, andò dal direttore dell’Hotel per dirgli: “Guardi, il suo gesto è molto carino e ogni tanto in effetti bevo una birra. Ma mica ne sono dipendente!”. Katà métron. Dal 2012 alla guida dei Bleus, Deschamps ha mostrato in modo evidente quale fosse la sua filosofia, mutuata in parte dai suoi maestri, Goethals all’OM e Lippi alla Juve. Spirito pratico e capacità di adattarsi alle situazioni valorizzando i singoli, questo il suo mantra. Cantona non lo ha mai amato, prima dando credito alle voci sull’esclusione di Benzema e Ben Arfa per motivi etnici e poi definendolo “nient’altro che un portatore d’acqua, uno di quei giocatori che vedi a ogni angolo di strada”, lasciando intendere che anche da allenatore non fosse dotato di alcun guizzo creativo. Punti di vista. Ma forse sbagliava. Perché i ponti, pur essendo elementi di ‘passaggio’, possono diventare di per sé stessi forma d’arte. Avvicinano e congiungono ciò che in natura è diviso, combattendo così l’entropia del cosmo e fornendo un principio d’ordine su cui forgiare le imprese umane. Ma congiungendo, rendono evidente ciò che è in effetti diviso per natura. Così è per Erik. Tutavia Didier non ha perso la misura e con il suo katà métron ha vinto due Mondiali, vivendoli come sponde separate e agganciate dallo stesso ponte. La prima, da calciatore, come gioia giovanile consumata senza freni né filtri, la seconda, da Ct, come sublimazione di una gioia trasferita alle nuove generazioni: “Nulla è come vedere tanti giovani, come mio figlio Dylan, gioire per un trionfo di cui, prima, avevano solo sentito parlare”. Ora è tempo di guardare oltre. Il 2026 sarà il suo ultimo Mondiale, ma l’annuncio in fondo è stato quanto di più atarassico ci si potesse aspettare: “Ho fatto il mio tempo. Bisogna saper dire basta”. Katà métron, un passo alla volta. Perché, come diceva Seneca, la felicità è raggiungere ciò che si desidera e desiderare ciò che si ha.

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