Tardelli, Collovati e l'Italia del 1982 come non è mai stata raccontata

Vedere due campioni del mondo che guardano sé stessi in azione è un’esperienza particolare. Osservarli, sbirciarli, coglierne gli ammiccamenti e gli sguardi di intesa, o canzonamento, nei momenti in cui sullo schermo passano immagini o risuonano parole che in quell’attimo si srotolano diversamente, perché diverso è il contesto. Che qualche giorno fa era quello dell’Arena del Grand Tour Italia, il complesso alle porte di Bologna sorto con l’obiettivo di offrire, sotto lo stesso ampio tetto, l’esperienza gastronomica di tutte le regioni italiane. Sullo schermo, la proiezione di ‘Italia 1982, una storia azzurra’ , il documentario, in regolare programmazione anche su Sky, che racconta lo straordinario percorso della nazionale di Enzo Bearzot verso l’inatteso titolo mondiale di Spagna, appunto, 1982, con contributo decisivo dei due azzurri presenti, Fulvio Collovati e Marco Tardelli, anche se sull’entità di tale contributo c’è qualche discussione: “Sono quarant’anni che mi rompe dicendomi ‘ti ho fatto diventare campione del mondo’. Non ce la faccio più. Una volta per tutte lo ammetto” ha infatti detto ad un certo punto, ridendo, l’ex difensore soprattutto di Milan e Inter, che in realtà in quei Mondiali giocò tutte le partite, uscendo solo una volta per infortunio, e venne alla fine pure votato nella formazione ideale come difensore, assieme a Claudio Gentile. Un documentario non nuovo, ma rinnovato nelle circostanze della visione congiunta, a cui hanno presenziato alcune decine di spettatori prenotatisi online, un pubblico in prevalenza di persone non giovanissime, quindi in grado di ricordare in qualche maniera quei Mondiali, ma anche giovani che volevano, forse, ascoltare, vedere e cercare le atmosfere e gli sguardi d’intesa che anche un’opera superba, dallo schermo, non può trasmettere. Alcuni di loro saranno rimasti colpiti da uno dei temi centrali dell’opera, ridiscussi anche nel dibattito coordinato da Oscar Farinetti, il patron di grand Tour Italia, e gestito da Gigi Garanzini, autore tra l’altro dell’eccellente ‘Il romanzo del vecio’, libro-intervista a Bearzot: l’atteggiamento verso la squadra dei media dell’epoca, specialmente i quotidiani che erano in uno dei momenti di loro massima diffusione e influenza. Una modalità di critica feroce, quasi sempre esagerata, con titoli e frasi di dileggio che risultano imbarazzanti ora, anche a prescindere dall’esito finale del torneo che ne ribaltò completamente il valore, ma che a una persona di buon senso avrebbero fatto ribrezzo anche all’epoca. I riferimenti cinematografici comprensibili solo a chi ha una certa età, come ‘L’Italia dei Ridolini’ o ‘L’Armata Brancazot’, a riprendere lo sgangherato gruppo di fedelissimi del bizzarro condottiero Brancaleone da Norcia, interpretato in maniera inarrivabilmente esagerata da Vittorio Gassman nei due indimenticabili film diretti da Mario Monicelli, a definire la faticosissima prima fase, 0-0 contro la Polonia, 1-1 contro il Perù e 1-1 contro il Camerun, quando un gol preso avrebbe mandato a casa gli azzurri. E poi frecciatine, doppi sensi, malanimi e recriminazioni, particolarmente accentuate da parte della stampa romana, citata nel corso della serata, per la decisione di Bearzot di portare ai Mondiali Paolo Rossi, appena uscito da un biennio di squalifica per il calcioscommesse, al posto di Roberto Pruzzo, eccelso attaccante, fresco capocannoniere per la seconda stagione consecutiva. Le immagini, seguite con molta attenzione da Tardelli e Collovati anche nei momenti, davvero curiosi per il pubblico, in cui sullo schermo comparivano entrambi intenti a… guardare i filmati di azioni di gioco, hanno ripercorso la strada dal ritiro di Alassio al trasferimento in Spagna all’amichevole premondiale contro lo Sporting Braga, avversario più prossimo al ritiro a Vigo, in Galizia, e partita al centro delle prime polemiche forti per la striminzita vittoria e la qualità modesta del gioco. Federico Sordillo, presidente federale, prese subito le distanze dalla squadra , e successivamente il presidente di Lega, Antonio Matarrese, espresse giudizi molto severi sul livello degli azzurri. Un coro negativo che portò al celebre silenzio stampa, ritratto nel documentario anche nei momenti di tensione tra i giornalisti e lo stesso Bearzot. Che lasciò la libertà decisionale ai giocatori, non potendo egli stesso prendere alcuna posizione in quanto dipendente della Federazione. Fu scelto un portavoce unico, il capitano Dino Zoff, e come ha detto Collovati “Eravamo tutti felici perché lui avrebbe comunque fatto un altro silenzio stampa, dato che era uno che non parlava mai”. Il bavaglio autoindossato dai giocatori non fu per le critiche in sé ma per il tono e la cattiveria, forse mai più viste , anche se a dire il vero la lezione di quei Mondiali, quella cioè che l’andamento del primo turno, purché lo si superi, non ha alcuna influenza sul risultato finale di una manifestazione, non è stata mai realmente compresa, dato che non c’è stata edizione successiva di Mondiali o Europei in cui non si sia vista un’ossessiva attenzione verso la qualità del gioco nella fase a gironi, con una montagna di parole e considerazioni frequentemente smentita nelle settimane successive. Matarrese, le critiche e... Le polemiche, anche a livello federale e di Lega, ebbero poi una conseguenza una volta che l’Italia, passata dal clima quasi autunnale della Galizia al caldo allucinante di Barcellona, prese il volo. Dopo il 2-0 all’Argentina, Matarrese entrò negli spogliatoi a festeggiare ed ebbe la sventura di incrociare per primo proprio Tardelli. “Beh, intanto già in campo Claudio Gentile era andato verso la tribuna stampa a insultare… Poi, sì, Matarrese entrò negli spogliatoi e io gli parlai subito. ‘Ma scusi, lei che ci ha sempre insultato, ci ha detto che eravamo scarsi, che ci avrebbe preso a calci nel sedere, che ci fa qui dentro? Se ne vada!’ Poi arrivò a darmi man forte anche Zoff. Sordillo era un’altra cosa, aveva fatto una sparata e Bearzot non è che gliele avesse mandate a dire, lo riprese subito dicendo cose anche molto pesanti, ma Matarrese faceva un po’ lo sbruffoncello e allora lo mandammo fuori. Fu invitato a uscire da parte di tutti e Zoff lo accompagnò alla porta, cosa che non è da tutti i giorni”. “È stata anche la nostra forza questa - ha aggiunto Collovati - Sapere che se facevi una cosa gli altri ti venivano dietro”. Anni dopo, Zoff avrebbe detto a Garanzini che la sua reazione, prima di scortare Matarrese alla porta, era stata quella di dire ad alta voce “Eh, ma oggi entrano proprio tutti, qui dentro”. Bearzot… e Maradona Seguirono le vittorie sul Brasile , sulla Polonia, in finale sulla Germania, brillantemente descritte nel documentario, e la rivincita del Ct , prima di tutto silenziosa. Nel racconto di Garanzini: “Voi giocatori stavate uscendo dallo stadio Bernabeu, l’allenatore della Germania Jupp Derwall aveva già fatto la conferenza stampa ufficiale e arrivò Bearzot. Che si sedette e squadrò tutti, uno dopo l’altro, senza aprire bocca. A un certo punto uno di noi prese coraggio, dicendo ‘È quasi mezzanotte, qualcosa dobbiamo scrivere’, e Bearzot ‘Fate le domande, non avete più niente da dire?’”. Uno sfogo che Garanzini ha paragonato a quello, peraltro molto più aggressivo e colorito, di Diego Armando Maradona al termine di Uruguay-Argentina del 14 ottobre 2009, sotto la pioggia, allo Stadio Centenario, che valse all’Albiceleste la qualificazione ai Mondiali 2010: le polemiche erano state molto forti, in un tormentato girone che aveva visto una sconfitta per 6-1 in Bolivia e una vittoria sul Perù solo al 93’, ma quel giorno il gol decisivo del Gringo Bolatti, l’unico in 12 presenze in nazionale, a 6’ dalla fine diede all’Albiceleste la certezza della qualificazione diretta, visto che i padroni di casa avrebbero comunque avuto bisogno di una vittoria. E appena si trovò di fronte i critici, Maradona liberò tutta la rabbia che aveva solo parzialmente represso nel lungo percorso verso Sudafrica 2010. Resta il fatto che tra l’Italia di Vigo e quella di Barcellona e Madrid ci fu una differenza clamorosa, una trasformazione che nelle parole di Garanzini assomiglia a livello pittorico a quella tra i colori scuri di un Francisco Goya e quelli vivi di un Joan Miró, tra l’altro proprio catalano. L’altro tema del documentario: le critiche, sì, ma anche la metamorfosi da squadra incerta a gruppo travolgente. Per motivi ancora difficili da capire e spiegare. Garanzini, qualche giorno dopo aver assistito a un allenamento azzurro nel quale, secondo le sue parole, “Quando provavate i tiri la porta non la prendevate mai, o quasi mai» , andò a Siviglia a seguire una sessione del Brasile e vide che Eder e Leandro, attaccante e terzino, non solo si allenavano a piedi nudi, ma centravano ogni volta la porta con bordate impressionanti. Un paragone improponibile tra le due squadre, in quel momento, che però Tardelli ha cercato di decifrare: “Inizialmente c’erano dei momenti in cui siamo stati in difficoltà, certo. Io credo di sapere perché: quando abbiamo giocato in Argentina, lui era giovincello e non c’era. In difesa c’era ancora il povero Mauro Bellugi, abbiamo fatto un tipo di preparazione che ci ha fatto fare bene la prima parte e poi calare. Allora, in Spagna gli allenatori e i preparatori ci fecero fare una preparazione diversa: c’era il rischio all’inizio, poi decollavi, e così è stato”. Collovati stesso ha annuito, riprendendo però il discorso, in una botta e risposta che ha ulteriormente infittito un mistero destinato, probabilmente, a rimanere tale: “È una domanda inevitabile, ce l’hanno fatta tutti: cosa è cambiato? Io devo dire la verità, una risposta non riesco a darla. Nella prima fase sembravamo dei cadaveri, usiamo questo termine…”. “Ma io non credo però - ha ribattuto Tardelli - Noi meritavamo di vincere contro la Polonia, poi il Perù era una squadra di professionisti sudamericani che sapevano giocare a calcio, il Camerun in quel periodo era una grande squadra in crescita, come si è visto poi anni dopo. Si voleva dire che erano squadre scarse, ma non era assolutamente vero. Abbiamo fatto fatica? Sì, ma hanno fatto fatica anche loro contro di noi… Ma anche lì dico una cosa, avessimo avuto una squadra al completo, il nostro Paolo Rossi al completo, avremmo fatto un altro campionato del mondo, molto bello dall’inizio alla fine, e invece avevamo un uomo in meno”. Collovati ha annuito: “In effetti la nostra trasformazione è nata con Paolo, contro l’Argentina è stato determinante anche se non ha segnato. L’’Italia si è trasformata quando si è trasformato lui. È cambiato lui e siamo cambiati noi. Se ci pensi è incredibile, perché siamo cambiati tutti: Marco ha fatto due gol, Cabrini un gol, Gentile che ha marcato Maradona...”. Sullo schermo, la metamorfosi è viva perché condensata, e gli sguardi che Tardelli e Collovati si sono dati in alcuni momenti della proiezione, ancora prima del dibattito, hanno chiarito il legame che esiste ancora tra i campioni del mondo, anche se due di loro, Gaetano Scirea e Paolo Rossi, non ci sono più. Il sorrisetto ironico quando nel video Gentile racconta di non aver fatto «Nulla di particolare per fermare Maradona», quando in campo fu in realtà una battaglia, il cenno divertito di intesa quando Bruno Conti, raccontando il geniale colpo di tacco che liberò poi Cabrini per il gol dell’2-0 all’Argentina, dice “È sempre lo stesso colpo di tacco, ma perché si girano?”, le scaramucce verbali per la differenza di status tra il clan degli juventini, ben sette, e i due milanisti, Collovati appunto e un 22enne Franco Baresi, che venivano dalla fresca retrocessione in Serie B, arrivata sul campo dopo quella di due anni prima per il calcioscommesse. E l’accento ancora, più che su semifinale e finale, divenute una cavalcata vittoriosa per destino, proprio sulle due partite contro Argentina e Brasile, il vero simbolo di quei Mondiali. Alla vigilia della seconda gara, tra l’altro, Bearzot volle mettere in guardia Collovati, destinato a marcare Serginho, il centravanti brasiliano, uno dei giocatori di minor talento della squadra. Parola al difensore: “C’erano Zico, Sócrates, Falcao, Toninho Cerezo, Oscar, Junior che giocava terzino sinistro perché non sapevano dove farlo giocare, e si diceva che due i scarsi erano il portiere Waldir Perez e Serginho. Uno-due giorni prima della partita Bearzot mi chiama nella sua stanza e mi dice ‘Mi raccomando, toccherà a te marcare Serginho, il giocatore più forte del Brasile’. Io ho pensato ‘Ma questo mi sta prendendo in giro?’, invece poi ho capito il perché, la sua grandezza… Non voleva che io pensassi ‘Quello è scarso, mi adagio psicologicamente’. Lo aveva fatto per farmi capire”. Qui, importante appunto di Garanzini, che ha ricordato come anni dopo Bearzot gli confessò che le sue parole non erano state solamente un’astuzia psicologica. Secondo lui, infatti, Serginho era fondamentale come sponda, perché “Tutti gli artisti della squadra si appoggiavano a lui, scaricandogli la palla per vedersela rimettere giù ”, e quindi era fondamentale che Collovati non gli concedesse spazio. Fu la partita della tripletta di Rossi e dell’uscita di Tardelli per infortunio, che gli causò “I 10 minuti più brutti della mia vita, negli spogliatoi a stare a sentire se c’era un urlo”, sperando ovviamente che non fosse quello dei brasiliani, per il pareggio. Bearzot, ancora. È emerso spesso, nella sua figura eticamente gigantesca, e tatticamente molto più raffinata di quanto l’immagine abbia tramandato. Per la finale manca l’infortunato Antognoni, dunque il centrocampista più calcisticamente educato, il più creativo, e al suo posto gioca… un difensore, Bergomi. Tardelli lo ha ricordato così: “Bearzot aveva questi colpi perché capiva tutto, era un allenatore che vedeva oltre, aveva bisogno di Beppe in quel momento, ci credette e gli disse ‘Vieni, stai attento perché giocherai’. Beppe risposte ‘Ma come giocherò?’. Anche lui era rimasto allibito, non si aspettava sicuramente di partire titolare, e sicuramente non al posto di Antognoni”. “Mettere in campo un difensore - ha aggiunto Collovati - non significa giocare una partita difensiva. Nel gol che ha fatto Marco, quello del 2-0, in quell’azione ci sono due difensori italiani che palleggiano nell’area di rigore tedesca , ad esempio”. “Sì - ha ribadito Tardelli - Bearzot a volte è stato considerato un difensivista, ma non lo era assolutamente. Lui giocava per offendere, e infatti ha sempre messo in campo squadre con attaccanti, con gente come Conti, Scirea libero che faceva il centrocampista, Cabrini sulla fascia… Certo, aveva anche Collovati, però…”. E allora si è ricominciato a galleggiare sul semiserio, con Collovati a ridere ma anche a ricordare come l’armonia di quel modulo dipendesse anche dalla sua permanenza in difesa accanto a Gentile, con l’aggiunta di Scirea quando non era richiesta la sua presenza in costruzione, istinto naturale dati i suoi esordi come centrocampista, e gli avversari lasciavano magari un uomo in più a costituire un potenziale pericolo. “Lo dico sempre, l’ho scritto anche nei libri, Gaetano e Zoff erano i miei angeli custodi, perché quando marchi un attaccante è inevitabile commettere qualche sciocchezza, e Gaetano era sempre lì ad aiutare”. Una serata di ricordi ed emozioni, con una conclusione forse inattesa, e unanime, perlomeno a giudicare dalla reazione del pubblico: quella vittoria inaspettata rappresentò, ha detto Collovati, “Una svolta, una scossa: diede una fiducia che prima non c’era, anche in altri settori. Me l’ha detto anni fa qualche mio amico che fa l’imprenditore”, e fu sentita e vissuta più di quella del 2006. “Non c’è paragone, perché con tutto il rispetto ci fu un’empatia diversa - secondo Tardelli - e tra gli avversari c’erano Maradona e una delle nazionali brasiliane più forti di sempre”.

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Tardelli, Collovati e l'Italia del 1982 come non è mai stata raccontata

Roberto Gotta