Il calcio a Capo Verde è sempre stato molto importante

Quando si atterra all’aeroporto Almicar Cabral di Sal, fino a qualche anno fa unica porta d’ingresso internazionale dell’arcipelago, appena si mette fuori il naso dalla fusoliera e ci si appresta a scendere le incerte scalette che segnano simbolicamente l’ingresso a Capo Verde, la si percepisce immediatamente. La si sente nell’aria, sospinta dal vento che sempre soffia sulle sue coste e che ne ha modellato nei secoli il paesaggio. Quella mistura di sale, sabbia, terra arsa, clima secco e rovente che ti aggredisce inesorabilmente, anche se si atterra a notte tarda, e ti proietta istantaneamente in un’altra dimensione, specialmente se si arriva dall’Europa. Un’apparente contraddizione rispetto al nome che porta l’arcipelago, mutuato dai primi navigatori portoghesi che scoprirono le isole tra il 1456 e il 1460 e che pensarono di essersi imbattuti nella lussureggiante natura che punteggiava Cap-Vert, promontorio senegalese ricoperto di vegetazione che rappresenta il punto più occidentale del continente africano e che proprio quelle 10 isole guarda in faccia, sebbene a 300 miglia nautiche di distanza. Perfettamente coerente, però, col nome dell’isola, quella più a nordest dell’arcipelago, raggiungibile grazie all’aeroporto che negli anni ’30 Mussolini aveva pensato di costruire per mettere l’Italia al centro delle tratte internazionali tra l’Europa e il Sud America: ‘Ilha do sal’, l’isola del sale, arida e desertica, praticamente piatta, chilometri di spiagge bianche e acqua cristallina, paradiso di squali tartarughe e surfisti, ma certamente non di piante e alberi. Un vortice di sabbia, terra, sale e vento - i suoi elementi fondanti, impossibili da non percepire istantaneamente - che ti avvolge anche mentre si gioca a calcio. Perché l’altra cosa impossibile da non notare se si trascorre almeno qualche giorno a Santa Maria, dove chi scrive ha avuto la fortuna di arrivare nel lontano 2002 e di essere tornato a più riprese, è che il futbol sia presente praticamente ovunque nella cultura dei ragazzi capoverdiani. Tutti giocano a calcio, ovunque, con qualsiasi pallone di fortuna, su qualsiasi campo, più o meno improvvisato, ovviamente sulle lunghe distese di sabbia che disegnano i confini dell’isola. Ma c’è un luogo speciale proprio al centro del piccolo paesino dislocato nel sud di Sal, fino a qualche anno fa per metà senza acqua corrente né luce elettrica: il Polivalente . Un campo in cemento racchiuso da quattro alte mura e circondato da un muretto, chiamato così perché adatto a ospitare più sport , ma nel quale pulsa soprattutto il cuore calcistico dell’isola del sale. Ininterrottamente, dalla mattina presto fino a notte fonda, spesso e volentieri sotto un sole cocente, a volte anche a torso nudo e piedi scalzi, decine di ragazzi di tutte le età si sfidano in partite forsennate, dai ritmi indiavolati, dove la palla non esce mai a meno che non scavalchi il muretto che delimita il campo, sostenuti dalle grida di amici, bambini che scorrazzano in giro liberamente senza genitori al seguito, anziani che sorseggiano stancamente grogue o pontche - i due distillati della canna da zucchero che i capoverdiani offrono come segno di benvenuto ai propri ospiti - le donne, sempre abbondanti e solari nei loro vestiti coloratissimi, che accorrono cariche di pastel da vendere a pochi escudos , curiosi e turisti che non possono fare a meno di fermarsi e rimanere per qualche minuto a guardare. È uno spettacolo magnetico e quasi ipnotico vedere questi ragazzi esprimere quello che principalmente gli scorre nel sangue, dove oltre all’arte del ballo, della quale sono magnifici esecutori , zampilla prepotente e innata anche quella del calcio. Oltre che giocarlo, i ragazzi di Santa Maria sanno tutto anche di quanto accade nell’universo pallonaro, europeo specialmente. Le partite del campionato portoghese , soprattutto quelle di Benfica, Porto e Sporting, sono seguite dalle tv dei baretti come fossero impegni della Nazionale; ‘o jogos do Champions’ sono attesi per settimane e scandiscono i momenti delle giornate dei giovani che, pur senza mai soffrire veramente la fame grazie all’abbondanza di pesce che sfama la popolazione, trascorrono languidamente le ore alla ricerca di possibili modi per 'svoltare' la settimana. Personalmente mi è capitato tante volte, da grande maniaco di calcio quale sono, di vederne alcune insieme ai miei nuovi amici capoverdiani, ritrovandomi nei ‘lojes’ di lamiera a discutere, ad esempio, dell’efficienza di Pavliuchenko nelle dinamiche offensive del Tottenham con ragazzi che non avevano luce e acqua nelle loro case, rimanendo sbigottito per quanto potessero essere precisi e appropriati i commenti che sentivo. Ma come fanno a sapere tutto questo? Mi chiedevo. Potenza del wi-fi, chiaramente, che a inizio del secondo decennio del 2000 è arrivato anche nella piazzetta colorata di Sal dove tutti i ragazzi spontaneamente si radunavano. Ma anche voglia di sognare, di allargare i propri confini, di uscire almeno col pensiero dall’emarginazione fisica che un’isola pur meravigliosa, anzi un gruppo di isole, per forza ti costruisce attorno. Voglia di rivalsa, certo, perché col calcio si può uscire dal paese e provare a cambiare la propria esistenza, ma anche molto più semplicemente voglia di stare insieme, di divertirsi, di astrarsi; di ballare festeggiare e sfogarsi, di godere di tutte le emozioni possibili che una vita ti può regalare, nonostante tutte le difficoltà, nonostante si possegga poco o nulla e anche per questo ci si accontenta di tutto quello che si ha. Come il calcio, che è linguaggio universale e patrimonio dell’umanità, possibilità di emancipazione e possibile via di uscita, sia fisica che mentale. O meglio, in questo caso, la via verso l’America. Rivivendo nella testa tutte le scene che ho assaporato nei miei viaggi capoverdiani, una volta sancita la certezza della qualificazione al Mondiale del 2026, mi sono voluto convincere che il merito di questo risultato, più che storico direi quasi fantacalcistico, sia un pochino anche del Polivalente di Sal e dei tanti Polivalenti che sono distribuiti sulle 9 isole abitate, di quelle partite senza fine sulla spiaggia 20 contro 20, dello spirito di tutti i ragazzi capoverdiani coi quali ho stretto fraterni rapporti di amicizia, almeno nei miei giorni trascorsi sulle isole. Anche perché ho da sempre pensato, provando a sfidarli prima e guardandoli sfidarsi poi, che fossero fortissimi e che avrebbero avuto bisogno solo di tempo, organizzazione e continuità per potersi affermare come veri calciatori anche fuori dal campetto di cemento. Di una Federazione, nata solo nel 1982, che col tempo riuscisse a trovare l’uomo in grado di convogliare tutta questa festosa energia che da sempre coinvolge il calcio capoverdiano e trasformare un valore socioculturale, quello che per l’appunto rappresenta il calcio a Capo Verde, in una realtà tecnica, concreta, in una squadra vera, che potesse sul serio ambire a collocare il minuscolo paese africano, anche solo per qualche giorno, al centro del mondo. Quell'uomo si chiama Pedro Leitão Brito, conosciuto al mondo come Bubista, 28 presenze in Nazionale tra il 91 e il 2005, quando il solo accostare il nome dei Tiburones Azules, appellativo della nazionale capoverdiana, alla parola Mondiale sembrava assolutamente folle. È proprio per tutti questi sentimenti, oltre alla clamorosa portata dell’evento - la più piccola Nazione mai qualificatasi ai Mondiali, appena 4 mila km quadrati e 600 mila abitanti contro i 30 milioni del Camerun arrivato secondo nello stesso girone - che al fischio finale della partita contro Eswatini la gioia della popolazione capoverdiana è deflagrata con tutto il suo proverbiale entusiasmo. Bambini, anziani, donne hanno invaso le strade polverose di Praia , Mindelo , Ribeira Grande , Sal Rei , São Felipe , Ribeira Brava e ovviamente Santa Maria , saltando, ballando senza sosta, cantando a perdifiato, suonando i tamburi per tutta la notte, osannando quegli strani eroi racimolati in giro per l’Europa e accomunati da un solo sentimento: dare dignità a un paese intero, che proprio quest’anno festeggia i 50 anni dall’indipendenza del Portogallo. Ecco, ora sì che il processo probabilmente può dirsi finalmente concluso. Perché da oggi in poi Capo Verde non sarà più solo squali, tartarughe, sabbia, sale e vento, ovvero quello che nel 2002 un ragazzo curioso ma ancora ignaro aveva appena scoperto dopo un lungo viaggio intercontinentale. Non sarà più solo spiagge bianche e mare cristallino, resort con piscina per turisti o case senza luce né acqua per la popolazione. “Da oggi tutti sapranno chi siamo”, hanno gridato calciatori e tifosi al termine dell’impresa più incredibile che il calcio forse mai potrà ricordare. E allora, cari ragazzi e amici miei del Polivalente, “Manera, tud dret”. Tutto a posto, tutto giusto. Come il significato dell’espressione con la quale ci si saluta abitualmente a Capo Verde e che chiunque sia mai stato da quelle parti non può non aver sentito almeno un centinaio di volte al giorno. Ce l’avete fatta. Il mondo, oggi, è ai vostri piedi. In tutti i sensi.

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Il calcio a Capo Verde è sempre stato molto importante

Michele Mastrogiacomo