Italia-Germania 4-3, la partita del secolo compie 55 anni

Ne parlano tutti, compreso chi non l’ha mai vista, e sono tanti. Perché compie 55 anni Italia-Germania 4-3 , e questo significa che solo quelli che hanno superato abbondantemente i 60 possono averne reale ricordo. Eppure, la partita allo stadio Azteca, semifinale del Mondiale 1970, è entrata non solo nella memoria, ma nell’anima di chiunque, perlomeno in Italia: non è dato sapere se in Germania ne parlino con lo stesso entusiasmo. Simbolo dell’imprevedibilità del calcio, della capacità di questo sport di rovesciare sia le emozioni, passando in un secondo dalla depressione all’estasi, che le considerazioni tecniche: quel match, folle e bellissimo nei supplementari, era stato in realtà noiosissimo per novanta minuti, e tutto il calcio dovrebbe ringraziare per sempre Karl Heinz Schnellinger. Il tedesco del Milan, difensore che con Nereo Rocco non superava mai la metacampo, e si trovò al novantesimo in area avversaria a deviare il pallone alle spalle di Albertosi: senza di lui la storia del football sarebbe cambiata, la semifinale archiviata con un noiosissimo 1-0 deciso da un gol di Boninsegna, e parleremmo del solito cinismo difensivo italiano e della consueta incapacità dei tedeschi di decifrare gli Azzurri. Fu una partita vissuta nella notte italiana, con la Rai a cui fu concessa la diretta: tre anni prima alla tv fu vietata la trasmissione del match per il titolo mondiale dei pesi medi tra Benvenuti e Griffith, temendo che i lavoratori non sarebbero andati a dormire . La voce in Messico era quella di Nando Martellini, che a Mondiale in corso era diventato il cronista della Nazionale dopo l’estromissione di Niccolò Carosio, accusato ingiustamente di aver insultato un guardalinee etiope durante Italia-Israele: in realtà non ci fu nessun epiteto razzista, probabile che qualcuno volesse pensionare chi, cresciuto in Inghilterra, aveva proposto di portare anche in Italia il racconto, prima radiofonico, poi televisivo, degli eventi sportivi. Più passionale Carosio, linguaggio più pacato, a tratti persino distaccato, per Martellini, che da persona colta seppe però interpretare il match come uno spartito rossiniano, crescendo nel linguaggio con il susseguirsi delle emozioni. L’Italia era arrivata in semifinale giocando maluccio: un solo gol nel girone iniziale, un tiro di Domenghini con papera di Hellstrom che regalò il successo sulla Svezia, poi due pareggi senza reti con Uruguay e Israele, quindi un agevole 4-1 sui padroni di casa del Messico, issatisi sino lì più per il fattore campo che per reale valore. I tedeschi si erano presi la rivincita sull’Inghilterra dopo la discussa finale di Wembley quattro anni prima, nel modo più chirurgico possibile: inglesi avanti 2-0 e convinti di avercela fatta, Ramsey che leva Bobby Charlton e Peters già pensando alla semifinale, dimenticandosi che in porta non c’è Banks, fermato dalla vendetta di Montezuma, ma Peter Bonetti, talentuoso portiere del Chelsea che in una mezzora da incubo inanella errori in serie. Segnano Beckenbauer e Seeler, poi Muller decide nei supplementari. Lineker all’epoca ha 10 anni, ma valeva già la sua idea che a calcio si gioca in undici e alla fine vincono i tedeschi. Proprio questo fa pensare alla Germania come favorita per la semifinale, l’Italia è fra l’altro devastata dalle polemiche per la staffetta tra Mazzola e Rivera ideata dal Valcareggi, commissario tecnico perfetto per l’epoca democristiana: un tempo uno, un tempo l’altro, follia dal punto di vista tecnico ma ideale per il manuale Cencelli applicato al calcio. La partita, si diceva, è divisa in due: tempi regolamentari orrendi, il gol di Boninsegna all’alba del match, difesa azzurra nemmeno troppo sollecitata dalla poco concretezza tedesca, poi il gol di Schnellinger che apre i fuochi di artificio. I supplementari non durano 30 minuti, semmai sono una vita più 30 minuti. Quando i tedeschi segnano con Muller per un clamoroso pasticcio tra Poletti e Albertosi sembra di nuovo finita, stavolta a favore della Germania, ma per la legge del contrappasso è di nuovo un difensore a riaprire tutto: dopo Schnellinger, Burgnich. Poi va in gol Riva, con quel sinistro che somma eleganza e potenza, il ‘Rombo di Tuono’ caro a Gianni Brera. 3-2, ma siamo ancora lontani dall’ultima pagina di una partita che è un romanzo. Angolo per la Germania, torre di Seeler, il solito Muller con il solito tocco da rabdomante dell’area che pare sempre sapere dove finirà il pallone. Le sue sono sempre conclusioni in apparenza facili, infatti in patria lo chiamano ‘L’uomo dei piccoli gol’, ma quello del 3-3 è pesantissimo e causa le urla di Albertosi contro Rivera, rimasto incollato al palo senza intervenire. “Vado di là e segno”, dice l’alessandrino, forse per far sbollire la rabbia del toscano di Pontremoli. Promessa irrazionale, dunque perfetta per una partita irrazionale: fugge Boninsegna trovando chissà dove energie ai 2200 metri dell’aria rarefatta di Città del Messico, palla in area e Rivera che impatta in rete un rigore in movimento mandando Maier dalla parte opposta. Italia-Germania 4-3. La fine di una partita, l’inizio di una leggenda.

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