La pazza storia del Magico González, il talento che incantò anche Maradona

In questi giorni di festa e di storie raccontate, uno spunto mi arriva da una frase di Sergio Conçeiçao. Il nuovo allenatore del Milan l'ha pronunciata nella conferenza stampa di vigilia del suo debutto. Conçeiçao ha detto più o meno questo: “non sono un mago, lavoro tutti i giorni per avere dei risultati”. Un concetto probabilmente e giustamente condiviso dalla stragrande maggioranza delle persone di buona volontà. Sicuramente però non da uno. Uno che ha sempre vissuto nel modo esattamente contrario: magia a fiotti, sacrificio zero. Uno che è diventato grandissimo idolo in posti piccoli e non mainstream. Uno che, a chi lo ha visto giocare e ha colto le sue vibrazioni, divertendosi come con pochi altri calciatori della storia, ha suggerito che potesse essere addirittura il più forte di tutti. Non si può francamente dire se il ‘Magico’ Gonzalez lo sia effettivamente stato, ma il fatto che Maradona lo abbia definito il giocatore più tecnico che abbia mai incontrato e Cruijff uno dei cinque stranieri più forti della storia del calcio spagnolo qualcosa vale. Non si può e non si deve giudicare questo artista incredibilmente funambolico e incomparabilmente bohémien sulla base di canoni comuni o scale di valori. Si possono solo raccontare le sue storie, addirittura inventarsene alcune, farsi accarezzare dalla brezza di libertà che portano con sé e magari tornare a respirare la sua interpretazione del gioco e della vita. E' quello che provo a fare ora. Jorge Alberto Gonzalez Barillas nasce a San Salvador nel 1958, ultimo di otto figli. Passa le sue giornate giocando a calcio per la strada, e questa è probabilmente l'unica cosa che lo accomuna a quasi tutti i bambini del mondo in quell'epoca. Per il resto, è anticonformismo totale. Non ha neanche il sogno nel cassetto di diventare un calciatore importante: giocare a pallone lo diverte tantissimo, ma la vera aspirazione è quella di essere un tassista. Però, per sua sfortuna, è troppo bravo con la palla fra i piedi. Non sviluppa un fisico portentoso, anzi l'immagine che da di sé è quella di un ragazzetto smilzo con i capelli lunghi, spessi e scuri. Ma il pallone è sempre suo, e quello che riesce a farci in termini di dribbling, tiri, giochetti, assist, scherzi e opere d'arte non lo aveva mai visto nessuno. Cresce di popolarità nel Salvador, arriva presto a giocare da professionista. Porta il numero undici sulle spalle, tende a stare sulla sinistra perché è la posizione di partenza ideale per fare scorribande a tutto campo puntando sul piede destro. E' per distacco il miglior giocatore abbia mai calcato i campi di quella porzione di mondo, e altrettanto per distacco è il più indisciplinato e anarchico. Provano a metterlo a regime, addirittura riceve multe ed esclusioni. Il problema è che se lui non gioca la gente protesta e diserta lo stadio. Quindi gioca. Gioca sempre, anche se non si allena e passa ogni notte a fare baldoria. E la naturale evoluzione è la maglia della Nazionale; l'esatto opposto di naturale, è invece il fatto che riesca a qualificarla al Mondiale del 1982. Lo fa con un'immagine che, nonostante fosse solo il 1981, attraversa l'oceano: la partita cruciale è contro il Messico di Hugo Sanchez, squadra unanimemente considerata molto superiore e di conseguenza la chiara favorita. Finisce invece 1-0 per El Salvador, e lo storico gol lo segna Ever Hernandez. Ma nessuno ricorda il suo nome, perché ebbe l'unico merito di trovarsi lì, a pochi passi dalla porta vuota, per spingere la palla in rete. Dopo che nei dieci secondi precedenti Jorge Alberto Gonzalez aveva preso palla nella propria metacampo, aperto in due il Messico come Mosè con le acque del Mar Rosso, saltato tutti quelli che gli si erano parati davanti e piegato le mani del portiere con un secco tiro incrociato. Dopo questa impresa, mezzo continente americano lo vorrebbe mettere sotto contratto e anche dall'Europa si fanno avanti interessi notevoli. In particolare, quello del Paris Saint Germain. Che ha la brillante idea di organizzare un'amichevole pre Mondiale contro la Nazionale salvadoregna. Perde 3-1, ma i dirigenti sono quasi contenti perché il loro obiettivo di mercato fa faville. Ci mettono poco ad accordarsi con il club proprietario del cartellino per portarlo in Europa. Manca solo la sua firma. L'appuntamento è in un grande hotel della capitale del Salvador. Un appuntamento troppo formale, troppo serioso, troppo impegnativo per lui. Che non ci va, e la trattativa salta... Con sommo disappunto di tutti, tranne che del Magico: “gioco a calcio solo per divertimento, se lo prendessi come un lavoro non sarei io” è la scusa sempre pronta, e sempre sincera, per tutte queste innumerevoli occasioni. E, nel caso specifico, aggiunse anche che non aveva voglia di imparare la lingua, e che visto che i francesi sono molto “tocapelotas” con chi non la parla non si sarebbe sicuramente trovato bene... In Europa ci va comunque per disputare il Mondiale, e anche lì, nonostante le tre sconfitte in tre partite della sua squadra che segna un solo gol e ne incassa tredici, fa strabuzzare gli occhi di tutti, entrando clamorosamente nella Top11 finale del Torneo. Nella prima partita, finita 1-10 contro l'Ungheria e che rimane a tutt'oggi il match di una fase finale della Coppa del Mondo in cui una squadra ha segnato più gol viene eletto miglior giocatore dell'incontro. Nella seconda ferma il tempo e i battiti di ognuno degli spettatori del Martinez Valero di Elche esibendosi in quella che lui chiama culebrita, un dribbling ad elastico che poi Ronaldinho avrebbe fatto diventare il proprio marchio di fabbrica ma che allora non si era mai visto in Europa. E se parliamo di grandi Numeri Dieci, nella terza e ultima partita, lo 0-2 contro i Campioni del Mondo dell'Argentina, fu ‘el Diez’ per antonomasia a rimanere folgorato dalle giocate del suo avversario, tanto da non vedere l'ora di poterci giocare insieme. Gli occhi che però lo mettono nel mirino più direttamente sono quelli di Camilo Liz, segretario tecnico del Cadice, che sta scandagliando gli stadi del Regno a caccia di qualche buon rinforzo a costo contenuto per tentare di assaltare la promozione in Primera Division. Il Magico Gonzalez può essere un affare sensazionale. Lo è, per tutti tranne che per il diretto interessato, almeno in termini economici: l'operazione si chiude e frutta al club salvadoregno da cui proveniva circa un milione e trecentomila dollari, mentre lui se ne mette in tasca solo sessantamila. Non gli interessa nulla di quelle questioni. Probabilmente aveva già capito che la meravigliosa Costa de la Luz e una città di un centinaio di migliaia di abitanti, dove la vita scorre lenta e succosa come piace a lui, è il posto perfetto. Infatti a Cadice, in tempo zero, diventa amato come nessun altro, prima e dopo. Nel club spagnolo provano a disciplinarlo. Gli mettono addirittura una sorta di bodyguard personale, che però finisce irrimediabilmente e costantemente dribblato, come del resto tutti quelli che tentano di imbrigliarlo. I tifosi impazziscono di gioia ogni volta che scende in campo, e la testimonianza più incredibile, forse più pienamente ‘Gonzalista’ di quel che è stato il Magico per questa gente, sta in quella famosa memoria del cuore narrata da Garcia Marquez. Perché se vi fate un giro a Cadice e chiedete di lui, o anche solo se spulciate superficialmente in rete, uno dei primi aneddoti che troverete è quello che narra di una sua leggendaria serata nel Trofeo Ramon Carranza, il tradizionale e prestigioso quadrangolare estivo che si disputa in città e che assegna una delle coppe più voluminose che ci siano nel calcio. La storia è questa: la semifinale in cartellone è Cadice-Barcellona, il Magico si presenta ubriaco e passa il primo tempo a dormire negli spogliatoi. Il risultato all'intervallo è 3-0 per i catalani, ragion per cui un massaggiatore rimette in piedi Gonzalez, lo manda in campo, lui segna due gol, dà altrettanti assist e la partita finisce 4-3. Surreale? Sì. Verosimile? Anche. E' successo davvero? Assolutamente no. O forse sì, ma solo nel cuore dei tifosi gialloblù e in quei sogni che ha saputo regalare a tutti quelli che lo hanno ammirato in campo. Compreso Maradona, che per non rinunciare alla voglia di giocare al suo fianco riesce a convincere i dirigenti del Barcellona ad invitare il Magico Gonzalez a partecipare ad un tournée primaverile negli Stati Uniti. Giocano insieme alcune partite in maglia blaugrana, e Maradona è talmente felice di poter dividere il campo con quell'artista assoluto del calcio da permettergli qualsiasi cosa, anche di rifilargli un tunnel . Diego preme per il suo acquisto, ma la dirigenza del Barça rimane un po' scettica, perché è vero che gioca in maniera divina ma sono comunque troppe le incognite. Però è quasi convinta. Finché ogni possibilità di vederlo vestire stabilmente la maglia blaugrana non va in fumo, letteralmente. Siamo in California, sul finire del tour. Nell'hotel che ospita la delegazione del Barcellona suona l'allarme per un principio di incendio: la struttura viene evacuata e tutte le stanze rimangono vuote. Tutte tranne una. Ovviamente, quella del Magico Gonzalez. Che si presenta fuori dall'hotel molti minuti dopo, suscitando le ire non solo dei suoi potenziali nuovi dirigenti ma anche delle rigorose forze dell'ordine americane. Il motivo del ritardo? Era con una signorina, e quando è suonato l'allarme non aveva ancora finito di fare quel che stava facendo.... D'altra parte, la sua propensione a rimanere a letto il più possibile, in compagnia o meno, è sempre stata arcinota. Quello che ha provato nella maniera più pittoresca a porvi rimedio è stato l'allenatore che ha avuto a Cadice nel suo ultimo anno di attività in Europa, quando peraltro ormai tante cose erano cambiate e non tutto era più solo allegria. Ma qualcosa, ancora e sempre, sì. E' la stagione 90/91, e una delle mirabolanti coincidenze che il calcio sa regalarci fa sì che sulla panchina gadiatana arrivi un altro con la sua stessa attitudine: l'argentino Hector Veira, ‘el Bambino’, controverso sì ma soprattutto spassosissimo personaggio il cui genio calcistico ha riempito giornali e almanacchi di imprese e la cui sregolatezza di vita ha portato fuochi d'artificio incomparabili nelle notti di svariati continenti. Racconta Veira che come prima cosa ha provato a spostare l'orario dell'allenamento mattutino, ma il suo talento centroamericano arrivava sempre e comunque tardi. Quando arrivava...allora, cominciando a scavare nel suo innato senso ironico, decide di regalargli una sveglia enorme a forma di Paperino, che produce un baccano pazzesco. Niente. In ultima istanza, l'idea geniale: all'ennesima assenza mattutina, decide di ingaggiare una banda musicale e di recarsi, con tutta la squadra al seguito, a casa di Gonzalez per svegliarlo. La banda esegue un flamenco ad hoc per il Magico, che dopo qualche minuto fa capolino dall'uscio, con gli occhi semiaperti e una precisazione da fare: “Mister, sia chiaro: mi sono alzato solo perché adoro la musica, non perché abbia intenzione di venire ad allenarmi...”. Era però il finale agrodolce dei suoi tempi a Cadice, perché dietro a quelle dormite infinite e a quelle scorribande notturne non c'era più solo un senso inderogabile di libertà, ma anche gli strascichi psicologici di una melmosa vicenda giudiziaria dalla quale uscì pulito ma che lo segnò nella testa, tanto che in quell'ultima stagione giocò poco e in estate, rifiutata per i soliti motivi la corte dell'Atalanta che si era messa in mente di portarlo in Italia, decise di tornare a casa sua, dove ha giocato fino a quarantadue anni. Non per soldi, perché quelli non gli sono mai interessati e non ne ha mai tenuti da parte, tanto che dopo la fine della carriera da calciatore, quando scelse in maniera sorprendente di andare a fare il viceallenatore dello Houston Dynamo in MLS, non fece bene i conti e si ritrovò negli Stati Uniti senza più mezzi per mantenersi. E lì, come sempre, trovò nel suo sogno e nel puro divertimento la soluzione per continuare la sua vita: finalmente, dopo anni di attesa, di deliri e di spettacolo in giro per il mondo, il Magico Gonzalez, il fantasista libertino e liberissimo che ha fatto inchinare i più grandi di fronte alla sua tecnica, poté mettersi serenamente, come sempre liberamente, a fare il tassista.

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Stefano Borghi