La punizione al contrario: lo Zaire e la vita appesa a un pallone ai Mondiali del 1974

Alle 17.40 del 22 giugno del 1974, minuto più minuto meno, la vita di Ilunga Mwepu e dei suoi compagni di squadra è appesa al sottile filo di uno dei piedi mancini tra i più educati di sempre. E non in maniera metaforica, come molte volte si sente dire, forse impropriamente, nelle telecronache sportive. Il terzino e capitano dello Zaire, e con lui gli altri componenti della prima nazionale dell’Africa nera a partecipare a un Mondiale, era sul serio in pericolo di vita. Siamo a Gelsenkirchen, terza partita del gruppo 2, e dopo 85 minuti di contesa a senso unico l’arbitro romeno Raidea ha appena fischiato una punizione dal limite a favore del Brasile. Attorno al pallone un nugolo di campioni verdeoro confabula per decidere il da farsi, ma già tutti sanno che alla fine a calciare sarà Rivelino, uno dei più grandi realizzatori da palla ferma di sempre: l’uomo della ‘patada atomica’, come venivano definite in Sud America, ma non solo, le sue conclusioni mancine. Il conciliabolo si protrae per qualche secondo, poi Rivelino comincia a prendere la rincorsa ma dopo qualche passo si ferma per dire qualcosa a un compagno che sembra, forse solo apparentemente, volergli contendere la punizione. Nel frattempo, in questi interminabili secondi, i giocatori dello Zaire che compongono la barriera sono visibilmente agitati. Protestano per la distanza dal pallone, gesticolano, allontanano un brasiliano che si era avvicinato loro, il tutto in un atteggiamento che tradisce una condizione psicologica che non si addice alla partita che il resto del mondo sta vedendo. Il Brasile è avanti 3-0 e perciò è qualificato, lo Zaire già eliminato dopo la figuraccia rimediata contro la Jugoslavia. La partita non ha più senso ed è già finita, quella punizione dovrebbe essere un semplice inutile dettaglio. Ma così non è. E nessuno, tra gli spettatori di quella partita, in quel momento poteva saperlo. Mentre Rivelino sta ancora parlando col compagno, Raidea finalmente fischia, ma prima che il brasiliano possa accorgersi di quello che sta per accadere, Mwepu si stacca dalla barriera, corre velocissimo verso la palla e la calcia il più lontano possibile, rischiando tra l’altro di colpire il brasiliano in pieno volto. Nello stupore generale, mentre Ilunga fa il gesto del fischietto e allarga le braccia come a discolparsi, nascondendo così di fatto la vera natura del suo gesto, l’arbitro non può far altro che ammonire il giocatore dello Zaire. Che, però, con quel calcio ovviamente canzonato ed etichettato da tutti come il manifesto dell’ignoranza sportiva di un intero continente, riesce a distrarre Rivelino, che poi calcerà alto, e a salvare la sua vita e quella dei suoi compagni, pur perdendo l’onore agli occhi del mondo che lo osserva, sbigottito perché ignaro. È la famosa punizione al contrario, uno dei gesti forse più simbolici e rivoluzionari dell’intera storia del calcio: una pedata contro l’oppressione e la tirannia, un vero e proprio slogan politico, un atto di ribellione alle minacce di un despota che aveva trasformato il sogno di un gruppo di ragazzi nel loro incubo più vivido. Il Mondiale del 1974 doveva essere, tra le tante cose, anche la festa dello Zaire: la prima nazionale dell’Africa sub-sahariana a partecipare a una manifestazione iridata dopo l’apertura della Fifa di 4 anni prima e la presenza del Marocco in Messico. I 'Leopardi', guidati in panchina da uno jugoslavo della Macedonia del Nord, Blagoja Vidinic, sono nettamente la squadra più forte del proprio continente: hanno vinto la coppa d’Africa nel 1968 e nello stesso 1974, e hanno poi dominato il girone finale di qualificazione al Mondiale tedesco. Anche a livello di club non si scherza: dal ‘64 al ‘73 la Coppa dei Campioni africana viene alzata per ben tre volte da squadre dell’ex Congo belga. Il virtuoso percorso che aveva portato a questi successi era però macchiato dalla mano del sanguinario dittatore Joseph-Désiré Mobutu, grande appassionato di calcio, che del pallone ma dello sport in generale voleva fare, come molti prima di lui, un’importante arma di propaganda per il proprio regime. Salito al potere nel 1965 grazie a un colpo di stato finanziato dagli Stati Uniti in ottica anti-Urrs, Mobutu era quasi ossessionato dal concetto di ‘autenticità africana’, principio che volle recuperare in ogni campo e che lo portò a cambiare molte cose, soprattutto i nomi. Quello del paese stesso, da Congo belga a Zaire, quello della capitale, da Leopoldville a Kinshasa, il proprio, diventerà Mobutu Sese Seko Koko Ngbendu Wa Zabanga, ovvero ‘Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che alcuno possa fermarlo’, e persino quello della Nazionale, anche se per un vezzo personale, i cui giocatori da leoni quali erano divennero leopardi, in onore al felino che Mobutu maggiormente prediligeva. Tornando al calcio, il ‘suo’ calcio, perché tutto nello Zaire di quegli anni era dell’inarrestabile tiranno, la chiave di volta fu la decisione di richiamare in patria tutti i migliori giocatori zairesi sparsi all’estero, soprattutto in Europa e in Belgio, rilevando i loro contratti attraverso i soldi dello stato, ovvero i propri . I risultati, e con questi anche i benefici per il proprio autoritarismo, arrivarono sin dai primissimi anni e culminarono col traguardo più atteso, la qualificazione al Mondiale tedesco. La finestra più luminosa nella quale esporsi al mondo, l’occasione per far vedere alla comunità pallonara internazionale di cosa fosse capace lo Zaire di Mobutu. Per incentivare e caricare i giocatori, già meritevoli del primato, promise loro una macchina nuova e una casa a testa, oltre a un premio in denaro di circa 45mila dollari, ma a una condizione: fare una bella figura, far conoscere lo Zaire al mondo e non coprire di ridicolo il proprio Paese, che Mobutu identificava totalmente con la propria persona. I calciatori partirono così per la Germania orgogliosi per il risultato e felici per la ricompensa, pieni di buoni propositi e rosee speranze, nonostante l’urna li avesse destinati a un girone per nulla semplice, nel quale oltre alla Scozia ci sono la Jugoslavia e, soprattutto, il Brasile. La prima sfida che attende Ilunga e compagni, il 14 giugno a Dortmund, è forse quella meno complicata sulla carta: di fronte ci sono gli scozzesi guidati dallo ‘squalo’ Joe Jordan, leggendario centravanti passato con successo anche dal Milan che all’età di 18 anni perse i due incisivi superiori in uno scontro di gioco. Rimediò due denti finti, ma da quel giorno decise che ogni volta che sarebbe sceso in campo, e da qui il soprannome, l’avrebbe fatto senza la protesi che portava abitualmente nella vita per assumere, coi soli canini in vista, un aspetto ancor più truce e spaventoso agli occhi dei difensori. Uno squalo, per l’appunto. E sarà proprio Joe Jordan, in campo ovviamente senza incisivi, ad aprire i primi due squarci nell’animo speranzoso dei giocatori dello Zaire. Prima servendo l’assist a Lorimer per la rete dell’1-0, poi segnando di testa, suo personale marchio di fabbrica, il gol del 2-0, grazie anche all’evidente complicità del portiere Kazadi: il tutto nell’arco di 7 rapidissimi minuti. Due schiaffoni all’interno di una partita comunque combattuta e giocata a viso aperto dai ragazzi di Vidinic che, schierati con un coraggioso 4-2-4, vanno anche vicini al gol in almeno 3 occasioni e tengono tutto testa a una nazionale europea di gran lunga più scaltra ed esperta. Nonostante ciò, nella nuova capitale Kinshasa il risultato viene accolto come una sorta di disgrazia, soprattutto per l’immagine del paese e dunque di Mobutu stesso. I giocatori sanno che il maresciallo-dittatore non può essere contento di quell’esordio ma nessuno di loro al termine della partita immagina quale sarà poi la sua effettiva reazione, che arriva tagliente come la sferzata di una falce: niente soldi e niente premi pattuiti prima della partenza per la Germania, né la casa né la macchina. È il terzo squarcio, che apre la frattura definitiva e fa esplodere il caso Zaire. Dopo il dietrofront di Mobutu, assolutamente ingiustificato agli occhi dei giocatori, il clima nello spogliatoio diventa incandescente. Tutti i componenti della rosa protestano, alcuni di loro minacciano persino di non giocare la seconda partita, quella contro la Jugoslavia, mentre si sparge la voce che i soldi del premio siano stati portati via da un ufficiale dell’esercito di Mobutu, già scappato dalla Germania. Alla fine, la decisione presa dai giocatori è quella di presentarsi alla partita del 18 giugno ma di boicottare la propria nazionale, o meglio quella di Mobutu, in un vero e proprio ammutinamento contro il loro autoritario presidente. Faranno finta di giocarla, lasciando i propri avversari liberi di infierire senza opposizione. Alla Jugoslavia, che nella prima partita aveva pareggiato 0-0 contro il Brasile, non pare vero e dopo 18 minuti è già avanti 3-0. Anche dal lontano Zaire, Mobutu capisce che sul prato del Parkstadion sta accadendo qualcosa di strano. Il dittatore, al limite della rabbia cieca, prende il telefono e in qualche modo riesce a far arrivare a partita in corso il suo diktat a Vidinic, al quale impone il cambio del portiere titolare Kazadi, uno dei leader dello spogliatoio, che lascia il campo in lacrime: il sostituto, l’inesperto Dimbi Tubilandu, non fa nemmeno in tempo a entrare che, pochi minuti dopo, subisce la rete del 4-0. Il conseguente rosso a Mulamba, arrivato dopo un presunto calcio rifilato all’arbitro durante le proteste per il fuorigioco sul quarto gol, completa un quadro che al termine dei 90 minuti diventa quasi grottesco. Finisce 9-0 per la Jugoslavia, che segna così un nuovo record: è la vittoria più ampia mai ottenuta in un Mondiale, poi eguagliata da quella dell’Ungheria contro El Salvador per 10-1, durante il Mondiale di Spagna 1982. Dopo la partita Vidinic viene prontamente accusato di aver avallato l’atteggiamento dei suoi giocatori per favorire i propri connazionali, che grazie alle 9 reti segnate e al pareggio per 1-1 tra Scozia e Brasile sono passati in testa al gruppo, e ai giornalisti che gli chiedono spiegazioni per il cambio del portiere non risponde, rivelando solo nei giorni successivi come l’ordine gli fosse arrivato direttamente da un rappresentante del Ministero dello Sport zairese. Ma il peggio, ovvero la reazione di Mubutu a questo affronto quasi personale, deve ancora arrivare. E sarà una vera e propria minaccia, che il dittatore questa volta non farà riferire dallo Zaire via telefono, ma direttamente a voce nell’albergo dove alloggia la nazionale di Vidinic. Subito dopo il 9-0 Mobutu sale infatti sul suo jet personale e insieme a una selezionata guardia armata e ad alcuni funzionari parte alla volta della Germania. Arrivato in hotel, dopo aver fatto allontanare tutti i giornalisti, raduna i giocatori in una stanza e fa rivolgere loro da alcuni funzionari una minaccia agghiacciante: “Se perdete con più di tre gol di scarto contro il Brasile scordatevi le vostre famiglie e le vostre case: nessuno di voi tornerà in patria vivo”. Sebbene nessuno dei 36.200 spettatori potesse esserne consapevole in quel momento, quella che alle 15.59 del 22 giugno stava per cominciare sul terreno del Parkstadion di Gelsenkirchen non era una partita come le altre. Da una parte una delle nazionali più prestigiose della storia del calcio a caccia di un’ampia vittoria, ma decisamente alla portata, per una qualificazione ai quarti; dall’altra la prima nazionale dell’Africa sub-sahariana qualifica ai Mondiali, tenuta in scacco da un dittatore e alla ricerca di una sconfitta onorevole per salvare… la propria vita. Uno scontro impari già in partenza, figuriamoci in queste tremende condizioni psicologiche. E dire che tutto era cominciato come una festa per lo Zaire. Sul campo la differenza tecnica è evidente e si traduce nel gol del vantaggio verdeoro firmato da Jairzinho dopo appena 12 minuti. Il Brasile è padrone del campo e i giocatori sembrano quasi giochicchiare senza impegnarsi più di tanto, certi che altre due reti prima o poi sarebbero riusciti a segnarle. Lo Zaire si difende come può e trascina l’1-0 fino a metà della ripresa, quando Rivelino trafigge per la seconda volta Zakadi, che nel frattempo ha riottenuto il suo posto tra i pali. Ma il portiere dello Zaire, evidentemente, è ancora scosso dagli eventi di quattro giorni prima, tanto che al 79’ si fa sfuggire un tiro non irresistibile di Valdomiro, che sigla il terzo gol dei brasiliani. Ci siamo, eccoci arrivati al punto di non ritorno: da questo momento in poi, e per loro fortuna mancano solo undici minuti alla fine, ogni gol del Brasile potrebbe significare la fine della vita dei giocatori dello Zaire. La partita per tutti è già decisa e bella che finita, per Mwepu e i suoi compagni, invece, comincia proprio in quel momento, mentre Zakadi raccoglie stancamente il pallone dalla sua rete per la terza volta in quel pomeriggio. La tensione che avvolge i giocatori dello Zaire è palpabile e anche se il Brasile fa poco o nulla per alimentarla, vuoi o non vuoi, quasi per inerzia, la palla gravita quasi sempre nelle metà campo degli africani. Fino al minuto 85, quando Raidea, ovviamente senza saperlo, fischia una banale punizione destinata a entrare nella storia. Al contrario, proprio come il suo nome. Nonostante lo scampato pericolo di morte, una volta tornati in Zaire i giocatori di quella nazionale vennero bistrattati e trattati alla pari di traditori nazionali. Nessun premio e nessun riconoscimento fu ovviamente consegnato loro, anzi finirono praticamente tutti emarginati e in povertà. Mobutu si impegnò personalmente nel far in modo che i contratti coi rispettivi club venissero cancellati e nessuno riuscì poi a trovare squadra né come giocatore né come allenatore, nel caso dei giocatori più anziani. Solo nel 2002, dopo un lungo silenzio dettato anche dalla paura , Ilunga Mwepu, che quella partita col Brasile non avrebbe nemmeno dovuto giocarla perché fu lui e non Mulamba a rifilare il calcio all’arbitro contro la Jugoslavia, rivelerà tutta la verità di quei giorni e spiegherà finalmente la vera natura di quel gesto considerato da tutti figlio dell’ignoranza sportiva del terzino dello Zaire. “Avevamo l'erronea convinzione che saremmo tornati dalla Coppa del Mondo milionari; invece, siamo tornati a casa senza un centesimo in tasca. Prima della partita contro la Jugoslavia abbiamo saputo che non saremmo stati pagati a causa della prima sconfitta. Avevamo passato due mesi lontani dalle nostre famiglie, senza i mezzi di comunicazione moderni. E ora loro si prendevano i nostri soldi? Fino a due ore prima del calcio d'inizio non avevamo nemmeno intenzione di giocare. Poi ci furono minacce. Ci dissero che se non avessimo giocato ci avrebbero mandato in prigione, così siamo scesi in campo, ma abbiamo sabotato la partita: un po' come uno sciopero. Dopo aver perso 9 a 0 contro la Jugoslavia arrivarono in Germania gli uomini di Mobutu che cambiarono la minaccia. Se avessimo perso con più di tre gol di scarto col Brasile, ci dissero, nessuno di noi sarebbe tornato a casa. Prima di quella punizione eravamo già sul 3-0, fui preso dal panico e calciai il pallone lontano. I brasiliani ridevano, ma non capivano cosa io provassi in quel momento”.

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