Cosa ci insegna il caso di Bentancur e Son

“Volete una maglia di Sonny? Potrebbe essere anche di suo cugino, visto che gli asiatici sembrano tutti uguali”. Questa frase, pronunciata sei mesi fa durante un’intervista televisiva in Uruguay in risposta alla richiesta del conduttore di poter avere la divisa del suo compagno di squadra Son, è costata al centrocampista del Tottenham Rodrigo Bentancur una squalifica di 7 giornate corredata da una multa di oltre 100.000 sterline. Secondo la FA, infatti, l’ex juventino ha violato la norma E3 del regolamento che individua i casi di cattiva condotta. Una violazione aggravata perché include un riferimento, esplicito o implicito, alla nazionalità e/o razza e/o origine etnica, fattispecie che prevede la sospensione per un minimo di 6 partite e un massimo di 12. A nulla sono valse le scuse quasi immediate dello stesso Bentancur che, via social, aveva ammesso il cattivo gusto della sua battuta rivolgendosi direttamente a Son, chiamandolo peraltro “fratello”. E ben poco ha influito la reazione dello stesso coreano che aveva risposto, sempre via social, accettando le scuse e aggiungendo che Rodrigo “mai avrebbe voluto dire intenzionalmente qualcosa di offensivo”. Una sentenza che ha sollevato molto clamore non solo in Inghilterra e che ha contribuito a rilanciare il dibattito sul razzismo, sul politicamente corretto e sulla valenza educativa dei comportamenti degli sportivi più famosi. Siamo di fronte a una giusta sottolineatura di una pericolosa distorsione socioculturale, che dunque va sanzionata senza se e senza ma, o al contrario di un’ipocrita e grottesca decisione che scambia una battuta spiritosa, per quanto di cattivo gusto, per razzismo? Cominciamo col registrare le reazioni dei protagonisti: Bentancur, presentando le sue scuse, ha proposto un chiarimento volto a escludere il dolo, ma non a cancellare la colpa. Lo stesso giocatore, infatti, ha recentemente ammesso di non essere sorpreso dalla decisione della commissione indipendente incaricata di esaminare il caso, perché “il mio procuratore mi aveva chiamato subito dopo quell’intervista, avvisandomi di ciò cui sarei andato incontro”. Son, intervenendo sulla vicenda, non ha assolto completamente il compagno, ma ne ha sottolineato implicitamente l’errore limitandosi ad escluderne la premeditazione di stampo razzista. Infine il Tottenham: ha presentato ricorso, certo. Ma non contro la ratio della squalifica, piuttosto in relazione alla proporzione della pena: “Sebbene accettiamo la sentenza di colpevolezza pronunciata contro Rodrigo dalla commissione di regolamentazione indipendente, riteniamo che la sanzione conseguente sia troppo severa”. Dunque, malgrado la tendenza dell’opinione pubblica a dividersi e radicalizzarsi tra innocentisti e colpevolisti, i soggetti coinvolti nella vicenda non sembrano mettere in dubbio i principi ispiratori della norma, né tantomeno l’essenza della sentenza che ne consegue, ma tutt’al più pongono l’accento sull’inconsapevole leggerezza del colpevole con l’obiettivo di mitigare l’asprezza della pena. Del resto esiste un precedente che riguarda Edinson Cavani, squalificato per 3 giornate nel 2020, quando giocava nel Manchester United, per aver ringraziato via social un amico con l’espressione “Gracias negrito”. Epiteto utilizzato spesso in Uruguay in senso affettuoso e senza particolari connotazioni razziste, e tuttavia sufficiente a far scattare la mannaia dell’FA. La 'sollevazione' popolare nel Paese latino-americano fu tale da produrre anche esiti quasi esilaranti: un’imprenditrice vinicola uruguaiana postò un selfie che la ritraeva con in mano una bottiglia di vino sulla cui etichetta si leggeva distintamente “Gracias negrito”. Si trattava di un fotomontaggio, una forma di satira solidale, che tuttavia determinò un’ondata clamorosa di richieste di quel vino in tutto il Paese. Tanto che l’imprenditrice decise di nominare in quel modo una sua intera linea di produzione per poterlo commercializzare davvero. Dunque la domanda resta: ma davvero certe espressioni, certe battute, certe frasi fatte attengono al razzismo e alla sua pericolosità sociale? O tutta questa rigida attenzione diventa pratica 'bacchettona' che rischia di sfociare nel ridicolo? Per orientarsi meglio forse è il caso di fare qualche passo indietro e ricordare cosa sia effettivamente il razzismo. Per chi volesse davvero approfondire esistono molti splendidi saggi storici, antropologici, filosofici e scientifici in grado di chiarirne i termini, l’humus culturale e il contesto in cui nacque. Qui ci limiteremo a tracciarne qualche linea per sommi capi . Il razzismo è un’ideologia fondata sul presupposto che ogni gruppo etnico abbia un corredo genetico ben definito e immutabile nella storia. E che ne disegna caratteristiche specifiche, inserendolo in una gerarchia anch’essa ben chiara e definita secondo la quale esistono razze superiori, destinate al comando, e altre inferiori destinate alla sottomissione. Un’idea nata dopo la scoperta dell’America con la pretesa di fornire un abito scientifico e una legittimazione intellettuale alle orribili pratiche di sopraffazione dei coloni occidentali, sia in relazione al genocidio degli indios, sia alla munifica tratta degli schiavi dall’Africa al nuovo mondo. In realtà non c’era nulla di scientifico, si trattava spesso di teorie basate su presupposti arbitrari, grossolani e soggettivi che tendevano a isolare criteri zoologici, antropologici e fisiognomici al fine di fonderli strumentalmente e classificare l’umanità in sottogruppi distinti. Infatti tra le tante teorie razziste non ci fu mai unanimità rispetto al numero delle razze e alle evidenze cosiddette 'scientifiche' che le definivano. E così alcuni gruppi etnici finivano per essere accomunati alle bestie in base al colore della pelle e alle supposte incapacità intellettuali, artatamente attribuite loro da principi ideologici e non certo scientifici. Anche grandi pensatori e filosofi come Kant, Hume o Voltaire contribuirono a questo processo, ponendo le basi per quelle vere e proprie dottrine razziste dell’800 che successivamente ispirarono la visione del mondo di Hilter e del nazismo. In sostanza tra le pieghe dell’Illuminismo, il movimento capace di produrre documenti meravigliosamente rivoluzionari come la Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776 e la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1789, si insinuò il morbo di una delle malattie peggiori del nostro tempo, il razzismo. Perché? Come è stato possibile? Semplificando molto potremmo dire che questa orribile distorsione rispose alla necessità di rendere conciliabile ciò che non lo era per definizione. In Europa il Cristianesimo portò attraverso il Vangelo il concetto di universalizzazione dell’uomo, di eguaglianza di fronte a Dio. E l’Illuminismo dichiarò senza mezzi termini che tutti gli uomini sono creati uguali e posseggono gli stessi diritti inalienabili. Dunque come giustificare la sopraffazione? Semplice, attraverso la disumanizzazione di alcuni gruppi etnici. Nemmeno la Bolla papale di Paolo III riuscì a rallentare questo perverso meccanismo: con la 'Sublimis Deus' del 1537, infatti, il Papa ritenne di porre fine alla disputa tra chi riteneva lecita la riduzione in schiavitù degli indios e chi invece la avversava, dando ragione a questi ultimi e definendo gli indios 'veros homines'. Di più: Paolo III estese il concetto anche a tutti gli indigeni pagani che fossero stati 'scoperti' in futuro, in qualsiasi parte del mondo. Eppure le pratiche vessatorie proseguirono per secoli, tanto che gli ideologi del razzismo adottarono un’interpretazione strumentale anche dei documenti più qualificanti della successiva epoca illuminista. Quando i padri costituenti americani parlavano di “tutti gli uomini sono creati uguali”, secondo Madison Grant non si riferivano a tutti gli uomini tout court, ma a tutti gli inglesi trapiantati nel nuovo mondo dalla madrepatria. Giochino 'logico' disonesto, ma facile. Che aveva lo spudorato intento di legittimare la schiavitù anche di fronte ai principi più nobili contenuti nella Dichiarazione d’Indipendenza. Un’operazione ideologica basata, per altro, sulla storia antica. Perché in effetti la più pura forma di democrazia, quella greca, si basava su un principio di totale esclusività: tutti erano chiamati con uguali diritti a partecipare delle decisioni della Polis, ma solo se greci, cittadini e maschi. La più alta esperienza di democrazia diretta della storia, insomma, si fondava sulla schiavitù e sull’esclusione delle donne dalle istituzioni politiche. Ecco quindi che l’eguaglianza selettiva e riferita solo a una parte sociale trovava un precedente significativo nella civiltà che è stata culla di tutto il mondo occidentale. E a questo proposito potremmo chiederci: ma gli antichi greci erano razzisti? Se applicassimo i nostri criteri di giudizio potremmo concludere che sì, lo erano. Nel senso che professavano una superiorità militare e culturale rispetto ai barbari, ritenuti spesso inferiori anche per caratteristiche antropologiche . E tuttavia nessuno nel mondo antico si sentì in dovere di elaborare teorie razziste, semplicemente perché la schiavitù e l’annientamento del nemico, percepito come 'altro' rispetto alle proprie coordinate culturali, era considerato un elemento naturale della vita. Non c’era bisogno, insomma, di giustificare la sopraffazione, perché era normale che esistesse. Il paradosso storico è tutto qui: solo il salto di qualità nella valorizzazione dell’uomo, i principi universalistici e egalitari, l’attribuzione dei diritti naturali e inalienabili resero necessaria una teorizzazione razzista per legittimare la conquista e il dominio su altri esseri umani. Che trovò il suo apice parossistico nel nazismo di Hitler. Ma che agita i suoi miasmi in tante parti del mondo anche oggi. Bene. E che c’entra Bentancur con tutto questo? Cosa c’è di più lontano dalle atrocità legittimate dal razzismo di una battuta spiritosa per di più proferita nei confronti di un amico e compagno di squadra? Per provare a rispondere, è bene cercare di comprendere l’evoluzione del razzismo nei tempi contemporanei. La forma originaria del razzismo, vale a dire l’ideologia secondo la quale esiste un corredo genetico immutabile che rende una razza superiore e un’altra inferiore, esiste ancora. Radicata in alcune frange fondamentaliste. Ma è ben riconoscibile e universalmente condannata. Esiste tuttavia una forma più larvata di razzismo, fatta di stupidi stereotipi che colano come gocce di veleno nelle relazioni interpersonali allargando le crepe della convivenza. Si tratta di vecchi arnesi ideologici mutuati dalle argomentazioni utilizzate per dar forma al suprematismo, piccole tessere di per sé apparentemente innocue ma che componevano l’articolato puzzle dei luoghi comuni di cui si nutre quel malessere sociale. Ogni volta che si attribuisce una connotazione negativa a un intero gruppo etnico ci si rende vassalli di quel metodo, ogni volta che una generalizzazione viene espressa per etichettare un gruppo sociale con una vena di spregio ci si rende tributari di quella logica. Dunque non basta riconoscere che 'sporco negro' sia un’offesa profonda e non assimilabile a 'figlio di puttana' in quanto la prima affonda le sue radici in una terribile ideologia che nella storia ha prodotto tragedie senza soluzione di continuità. Occorre anche prestare attenzione a tutto ciò che, per leggerezza o inconsapevolezza, viene mutuato da un bagaglio ideologico e lessicale squisitamente razzista. Perché è spesso nella banalità che si nasconde il male. La propaganda ha sempre attinto a questi meccanismi per contrapporre il sé all’altro, percepito non come semplicemente diverso, ma come nemico. Il periodo della cosiddetta 'frontiera' americana fu innervato da saggi e racconti che ponevano i nativi su un piano di totale disumanizzazione: gli indiani cioè erano presentati come selvaggi, ignoranti, violenti, scevri da qualsiasi sensibilità umana, in grado persino di costruire collane con gli occhi dei poveri pionieri uccisi nelle praterie. Roba che oggi suona come ridicola, ma che non è lontana dagli attributi spesso inflitti agli attuali immigrati sporchi, violenti, naturalmente criminali, antitetici rispetto ai valori di un’armoniosa convivenza umana. E anche i nativi, di fronte all’invasione dell’uomo bianco, spesso ragionavano per stereotipi. Nel film 'Balla coi lupi' si assiste a un dibattito decisamente verosimile, anche se evidentemente concepito da un americano moderno, rispetto all’ottica e alle convinzioni dei Sioux: quando il tenente John Dumbar viene avvistato isolato come unico abitante di un fortino di giacche azzurre in pieno territorio indiano, uno dei guerrieri si pronuncia davanti al consiglio dei capi in questo modo: “Qualsiasi cosa sia, non è un Sioux! E questo lo rende inferiore. Quando sento che stanno arrivando altri bianchi mi viene da ridere, abbiamo rubato 100 cavalli a questa gente senza alcun onore. Questi non cavalcano bene, non sparano bene, sono sporchi. Non sopravviverebbero un solo inverno, qui. Secondo me quello scemo si è semplicemente perso!”. Stereotipi, figli della non conoscenza dell’altro, strumentali all’affermazione della propria superiorità, elementi che servono per costruire quei muri che compattino la propria parte disumanizzando l’altra. In altre parole, oggi non è più necessario aderire a una dottrina rozza e ideologica per affermare il razzismo. È sufficiente attingere a piene mani a frammenti di quel meccanismo, magari occasionalmente , per tramandare e vivificare afflati di esclusione. Bentancur, certamente senza dolo, ha preso in prestito un pezzo di questo armamentario logoro e primitivo elevandolo a battuta ironica, con l’idea di regalare una risata a tutti, asiatici compresi. E in effetti il suo stereotipo è meno violento e 'negativo' di tanti altri luoghi comuni. Tuttavia il centrocampista del Tottenham non si è reso conto, almeno nell’immediatezza, del peso della storia razzista che anche quel popolo ha, stratificato, sulle sue spalle. Un rapporto di qualche anno fa dell’American Psychological Association ha dimostrato che gli stereotipi di carattere etnico/sociale amplificano le esperienze di emarginazione, invisibilità e oppressione. E una frase apparentemente innocua, come “gli asiatici sono tutti uguali” appartiene esattamente a quel tipo di visione stereotipata del mondo. Tanto più che sia negli Usa che nel Regno Unito gli asiatici sono stati oggetto di un razzismo forse meno pubblicizzato ma non meno inaccettabile rispetto a quello inferto alla popolazione di colore. E che è stato mitigato dalla costruzione progressiva del mito della “minoranza modello”, cioè della convinzione che il loro tasso di integrazione sia migliorato grazie al duro lavoro e al loro rispetto per le leggi. Paradossalmente altra visione stereotipata, benché utilizzata positivamente. Ma non necessariamente razzista. E che ci porta a un ultimo livello di analisi, più raffinato e sofisticato. In quest’ottica vale la pena recuperare la lezione di Claude Lévi-Strauss, padre dell’antropologia moderna e teorico dello strutturalismo, secondo cui un antirazzismo superficiale e distorto può offrire ai razzisti molte più armi di quanto si creda. Certo, la condanna al razzismo inteso come ideologia pseudogenetica che assegna patenti di superiorità/inferiorità, deve restare ferma e senza ombre. Ma il filosofo francese metteva in guardia dalla tendenza a confondere piani significativamente differenti: gli uomini non sono tutti uguali e le differenze si misurano anche tra gruppi sociali a seconda delle loro propensioni culturali. In altre parole esistono caratteristiche sociali, non immutabili ma anzi in continua evoluzione, che tuttavia configurano popolazioni distinte: gli influssi religiosi e culturali generano specifiche abitudini, comportamenti tipici e una peculiare visione del mondo. Banalizzando, dire che noi italici non siamo particolarmente propensi a rispettare le file al contrario dei nord europei, o sostenere che l’arte di arrangiarsi ci consente di risolvere in extremis situazioni apparentemente critiche al contrario di quanto accade ad altre latitudini, non è razzismo. È la presa d’atto, attraverso luoghi comuni, di una differenza culturale. Soggetta ad evoluzione, ma che oggi definisce alcune attitudini sociali. I popoli non sono intercambiabili hic et nunc, poiché ognuno ha una storia peculiare che ne traccia i confini in una determinata epoca storica. Prendere atto delle differenze, accettarle e magari scherzarci sopra non è una logica razzista. Al contrario è un formidabile meccanismo di integrazione. In un episodio della sitcom 'Becker' della fine degli anni ’90, il protagonista , si trova invischiato nell’accusa di razzismo lanciata da un giornalista locale che in una tavola calda ne capta alcune generalizzazioni piuttosto becere, esposte sull’onda di un sarcasmo tranciante tipico del suo carattere. Il dialogo finale è illuminante rispetto al concetto di antirazzismo superficiale e controproducente di cui parlava Lévi-Strauss: - Giornalista: “Mi spieghi cosa intendeva quando ha detto a un asiatico ‘quelli come lei mi fanno andare il sangue alla testa’ - Becker: “Quelli come lei significava ‘voi automobilisti incapaci’. Non mi importava da dove venisse, non ho mai detto che fosse un pessimo automobilista perché asiatico, non ho mai detto che loro non sanno guidare” - Giornalista: “Loro? Loro non è una connotazione razzista? Un altro modo per dire ‘quella gente là’? - Becker: “Loro è solo un pronome personale, non ha alcuna connotazione razziale. È vero, ho delle simpatie e delle antipatie, ma nessuna di queste ha una motivazione razziale” - Giornalista: “Lei ha ridicolizzato la musica rap, chiara espressione della cultura afroamericana” - Becker: “È vero, non mi piace la musica rap. E se è per questo non mi piace neppure la polka, eppure mi piacciono le salsicce polacche. Detesto i mobili cinesi e adoro le patate alla francese, odio le cialde messicane e amo i pastori tedeschi ma non riesco a sopportare i muffin inglesi. E se vuole proprio saperlo, odio il formaggio danese, ma amo le danesi!” - Giornalista: “E allora che mi dice di quell’attacco verbale ai portoricani?” - Becker: “Ma di che parla? - Giornalista: “Sì, ha inveito contro la gente che fa il barbecue sui balconi!” - Becker: “Quelli sono portoricani? Io non l’ho detto. Io parlavo solo del signore che abita sotto di me e che si cucina sempre la cena sul balcone. E francamente non ho idea se sia o no portoricano. Sa che le dico? Mi sa che è lei il razzista che parla male dei portoricani, perché sentendomi parlar male di chi cucina sui balconi ha immediatamente pensato che mi riferissi a loro. È lei ad avere pregiudizi razziali!” Bingo. Dunque, concludendo e cercando le domande da porsi nella vicenda Bentancur, è probabile che sia corretto procedere così: Bentancur è razzista? Probabilmente no. Ha espresso un concetto razzista? Sì, perché ha usato un tipico stereotipo razziale. Lo ha fatto con violenza verbale e consapevolmente? Certo che no. Meritava una squalifica? Considerando l’impegno delle istituzioni calcistiche e sportive per debellare il razzismo, non poteva aspettarsi altro. Perché l’assoluzione avrebbe costituito un precedente, per altro basato su un buonismo di maniera . E lui stesso ha ammesso di aver sbagliato. La sanzione è proporzionata? Forse no, probabilmente sarebbe sufficiente fissare un punto logico/normativo inderogabile con una pena più contenuta, ma ciò non toglie che concettualmente l’FA si sia mossa con giustizia. Tuttavia il confine tra la cultura razzista e l’antirazzismo esagerato e controproducente resta labile e personalmente sarei favorevole a promuovere anche qualche invasione di campo, ma a una sola condizione. Solo quando nel patto sociale che lega tutti gli uomini apparirà scontata l’assurdità di attribuire certe devianze a una determinata razza, si potrà scherzare su certi luoghi comuni. Recentemente ho visto due studenti uscire insieme da scuola. Uno ha chiesto all’altro di custodirgli lo zaino per qualche minuto e il secondo, raccogliendolo, ha detto: “Sicuro? Ti fidi anche se sono marocchino?”. La risata spontanea e sincera di entrambi a quella battuta a mio avviso segna una potenziale svolta. Poiché è scontato per tutti e due che quella caratteristica negativa non appartiene a un’etnia, allora sì che si può riderne. Perché in questo modo ci si prende gioco di una stupida e bestiale opinione che socialmente è diventata un idiota luogo comune. Un po’ come dire: cari boomer, noi vi si prende per il culo, perché delle vostre ridicole ideologie ce ne freghiamo. Alla fine la speranza sono sempre loro, i nostri adolescenti.

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Cosa ci insegna il caso di Bentancur e Son

Alessandro Biolchi