Everton-Liverpool, gli ultimi riflettori sul derby a Goodison Park

Le luci si sono spente dopo la mezzanotte, mercoledì sera a Goodison Park. Sono luci che si vedono perlopiù dall’alto, installate come sono sulla parte frontale del tetto delle tribune, e quindi non illuminano il vicinato, che a volte ne avrebbe bisogno, considerato lo stato di degrado in cui versa. Letteralmente a 10 metri dall’ingresso sulla Goodison Road, ad esempio, c’è un appartamento sventrato, con immondizie varie sparse in quel che resta dei vani un tempo abitati. E in parte - in parte, sia chiaro - anche questo è uno dei motivi per cui l’Everton ha deciso di trasferirsi sul lungomare, o meglio lungofiume, nello stadio sull’ex banchina chiamata Bramley-Moore che è ormai completato e verrà inaugurato tra qualche mese, dopo una serie di prove a porte chiuse, a invito, la prima già lunedì 17. Già adesso, però, non appena si prende una qualsiasi strada anche solo lievemente in salita la struttura domina il panorama visibile, soprattutto alla sera, con le sue luci blu e chiare, un segnale importantissimo di presenza in una città che da tanto tempo è dominata dal Liverpool, in contrasto con una storia che sul lungo termine non ha fatto registrare un dominio come quello attuale. Quelle che si sono spente tardi erano le luci dell’ultimo derby contro il Liverpool, mercoledì sera, il numero 120 che ha chiuso con simmetria la situazione statistica: in 119 sfide precedenti erano state 41 le vittorie a testa, e 41 restano, con il 38esimo pareggio arrivato grazie al gol di Tarkowski al 98’, confermato dal VAR solo tre lunghissimi minuti dopo. Un derby che avrebbe dovuto giocarsi lo scorso 7 dicembre ma che era stato rimandato per le condizioni del tempo eccezionalmente malevole, con venti fortissimi che non avrebbero impedito un vigoroso undici contro undici, considerando la conformazione dello stadio, ma costituito un pericolo per gli spettatori nel percorso di avvicinamento, considerando che già dalle 8 anche a persone di sana e robusta costituzione era diventato molto difficile reggersi in piedi di fronte alle folate continue e a quelle, ancora più insidiose perché subdole, improvvise. Uno scenario spettrale in cui gli unici indaffarati erano sprovveduti cronisti intenti a registrare immagini e addetti alla ristorazione che cominciavano a impacchettare i lautissimi pasti prenotati dai vip dei salottini per distribuirli a mense della carità, e Dio sa quante ce ne siano qui lì intorno. Dopo 133 anni, inaugurazione il 24 agosto 1892, la Grand Old Lady, la Vecchia Signora, cui l’aggettivo aggiuntivo ‘grand’ conferisce il tono di decadente nobiltà che riflette esattamente il suo status, chiuderà a maggio, per ora il 18, contro il Southampton, e a meno di posticipi al lunedì sera, o al sabato alle 17.30 locali, il derby è stata anche l’ultima partita ufficiale alla luce dei già citati riflettori. 120 derby in assoluto, 106 di campionato, con l’Everton a condurre, definitivamente, 35 vittorie a 34. È del resto, il derby di Liverpool, la partita che si è giocata più volte nella storia del calcio inglese, tra qui e Anfield: 245 volte, 211 solo in campionato, e le 23 espulsioni sono un record per un qualsiasi sfida da quando è nata la Premier League, 1992. Rievocando alla vigilia lo spirito di questa partita, del resto, David Moyes, vittorioso solo tre volte in 22 incontri nella sua precedente esperienza sulla panchina dell’Everton, aveva detto “È giusto caricarla di significati, di attesa esplosiva, i derby sono così. E quando c’erano Steven Gerrard e Jamie Carragher la domanda era ‘chi sarà il primo a tirare un calcione?’”. Su Goodison Park bisogna essere dolorosamente sinceri. Un appassionato vero di calcio inglese non può non amarlo, per come è fatto, per come è incastrato tra le case, per come spunta all’improvviso mentre si passeggia tra vie e vicoli. Per la sua storia, per la sua origine, per la tribuna principale disegnata nel 1909 dal celebre architetto scozzese Archibald Leitch. Per i suoi amabili difetti, come le colonne che ostruiscono la vista - e nei biglietti è specificato - e le porticine anguste di ingresso. Un museo all’aria aperta, che se fossero stati mantenuti i posti in piedi nei settori dietro le porte avrebbe permesso, dall’arrivo all’uscita, di vivere un’esperienza non molto dissimile da quella degli anni Cinquanta o Ottanta, ma che anche così profuma di un antico onorevole ancorché malandato, un antico in cui ogni scorcio che vedi ti sembra unico e asimmetrico, perché tale è. Fosse possibile, l’autore di questo articolo si farebbe nominare custode a vita, con appartamentino vista campo, per ammirarlo ogni giorno, ogni mattina, ogni sera. Ma con la stessa sincerità bisogna ammettere che dal punto di vista logistico e funzionale è uno stadio che ostacolava i tentativi dell’Everton di reggere il passo con altri club di analogo prestigio, ad esempio il Liverpool: non sul campo, viste le enormi somme già spese sul mercato dalla proprietà di Farhad Moshiri, che ora ha passato la mano al gruppo Friedkin, ma sugli altri fronti, dal commerciale al promozionale. Con un po’ di sforzo, vista l’angolazione, da alcuni finestroni di Goodison Park si potevano vedere negli anni scorsi gru e macchinari che, a poche centinaia di metri di distanza, lavoravano all’ampliamento di Anfield, lo stadio rivale. Lì c’era spazio, qui no, e allora addio con la morte nel cuore. Di alcuni, non di tutti: perché nel viavai dei dirigenti e degli addetti sembra quasi, con un piccolo sforzo di immaginazione, di cogliere il fastidio dei più giovani di loro nel doversi muovere in ambienti stretti e claustrofobici, ad esempio quelli della sala stampa , e la voglia di passare al più presto nei corridoi ampi ed eleganti di Bramley-Moore, che di suo è sicuramente uno stadio magnifico e verrà amato dalla stragrande maggioranza dei tifosi. Perché è così: al West Ham è successo che lo straordinario Upton Park fosse rimpianto da molti ma che molti di più abbiano trovato più comodo, funzionale, vivibile l’ex Stadio Olimpico, pur se orrendo da molti punti di vista. Il nostalgico è spesso - non sempre, ovvio - chi in certe strutture non deve soggiornare o lavorare costantemente e il cui parere conta più di ogni altro, ma chissà perché se dici ‘Venezia è bella ma non ci abiterei’ vieni quasi elogiato mentre se pensi ‘Goodison Park è uno stadio straordinario ma andarci spesso è scomodo’ passi per iconoclasta. Così come il turista straniero, ingenuo, si meraviglia per l’efficienza della metropolitana londinese ma pendolari e residenti la detestano, per la presenza, tra l’altro, dei turisti stessi. E a proposito di turisti, non pochi al West Ham sono convinti che uno dei motivi per il calo di atmosfera nell’Olimpico sia dovuto alla maggior presenza di spettatori mordi-e-fuggi, stranieri che timbrano il cartellino del selfie ma non contribuiscono al clima, pericolo che si può profilare anche per Bramley-Moore. È peraltro abbastanza assurdo che lamentino la perdita di Goodison Park e della sua tradizione tifosi - non pochi - che la tradizione hanno dimostrato di non rispettarla, attendendo l’arrivo del pullman tra fumogeni e petardi, abitudini recenti, copiate dai fan del resto d’Europa, che con quelle inglesi fondate solamente su sciarpe e voce, senza strumenti sonori o visuali, c’entrano meno di quanto Bramley-Moore c’entri con l’Everton e la sua storia. Il dolore più coerente è quello dei tanti che prima della partita fanno la fila a comprare il programma ufficiale, ieri andato esaurito, oppure quelli che salgono al secondo piano dell’edificio adiacente alla chiesa di St.Luke’s, quella visibile sulla destra nelle immagini televisive, dietro al tabellone luminoso, e si lustrano gli occhi di fronte alla commovente gamma di souvenir, libri, magliette, alcune delle quali di decenni fa, in esposizione e vendita da parte di collezionisti, compreso un angolo che offre magliette, cappellini e gadget con le parole ‘Mes que un club’ e sei loghi diversi. Una bonaria rivisitazione dell’analogo slogan che caratterizza il Barcellona, ma che qui prende un senso diverso: ‘Più che un club’ perché di Everton, nel mondo, ce ne sono appunto sei, oltre all’originale, e sono tutti in Sudamerica, fondati tra il 1905 e il 1922 in Argentina , Cile e Uruguay. Sono Everton Club La Plata, ADEO , Everton Viña del Mar, Newbery y Everton, Club Atletico Everton, Everton Club Moldes, tutti nati o rinominati in occasione di una tournée continentale del club originale, anche se in alcuni casi le storie sono confuse. Lo stanzone della chiesa è a neanche 30 metri dal campo ma lì dentro, in assenza di finestre agibili, sembra di essere in un altro mondo. Quello che ha poi dato vita ad un derby feroce, mercoledì sera. In tono con l’occasione, con l’attesa, con le parole di Moyes. Contrasti duri, capitomboli a volte eccessivi, proteste, esagerazioni, tensione sfociata in una rissa dopo il fischio finale. L’Everton ha cercato di creare, non solo di distruggere, scontrandosi però con la buona capacità del Liverpool di non perdere la testa e mantenere le posizioni, tradite solo sul calcio di punizione dell’1-0, disegnato benissimo dall’ex centrocampista dei Reds Charlie Adam, responsabile dei calci piazzati della squadra di Moyes. Un gol che ha mostrato il Beto nella sua forma più pura, come il resto della partita: chiamato ancora a sostituire Calvert-Lewin al centro dell’attacco, il portoghese-guineense ha dato l’anima, rifilando e prendendo colpi dai difensori centrali, ha sprintato, ha visto la porta con foga esagerata anche quando poteva passare la palla e, a fine partita, si è fatto tre lati del campo di corsa battendosi il petto verso i tifosi, ennesimo segnale di una partecipazione sanguigna alla partita e all’evento che aveva ribadito anche in una interessante intervista per il match programme. Nella quale aveva sì ammesso che prima del cambio di allenatore la sua tentazione era stata quella di andare via, causa utilizzo non sufficiente, ma al tempo stesso ha scherzato sulla foto, fatta con un tifoso all’aeroporto di Manchester, che aveva generato illazioni su una sua partenza per Torino. No, stava andando in Portogallo per pratiche per il passaporto, volo poi cancellato per condizioni atmosferiche sfavorevoli. Al calcio d’inizio c’erano 30 punti, ovviamente rimasti poi inalterati, e 15 posizioni di classifica di distacco tra le due, e subito c’era stata una novità, per certi versi coerente col progressivo distacco di questa sfida dai bei tempi che furono, perché per la prima volta nella sua storia in massima divisione il Liverpool non aveva alcun inglese tra gli undici titolari, considerando che Alexander-Arnold e Jones erano in panchina. Non se n’è accorto quasi nessuno se non in tribuna stampa e nei seggiolini ausiliari per giornalisti, meravigliose citazioni anch’essi dei tempi che furono, dato che accedervi richiede equilibrio, elasticità e sprezzo del ridicolo che si può spalancare se perdi l’appiglio nello scavalcare una fila di sedie e voli per terra. In mezzo al pubblico, il che permette di farsi coinvolgere nelle emozioni e pazienza se fai fatica pure ad usare una biro, in quella massa. E questa coabitazione consente però anche di percepire, come un battito cardiaco, il flusso emotivo: e bisogna allora dire che il clima è stato sì di alta intensità, ma con pause, che dopo l’1-2 segnato da Salah al 73’ avrebbero smorzato l’entusiasmo locale se non ci fossero state quelle costanti scaramucce a riaccendere gli animi e collegare i momenti di esaltazione annullando i silenzi. Inutile poi sottolineare come fosse l’atmosfera al gol di Tarkowski, arrivato, per ironica coincidenza, pochi istanti dopo che i tifosi del Liverpool avevano intonato per la prima volta "We’ won the League at Goodison Park" , il classico canto di chi sente che, pur a febbraio, l’obiettivo è raggiungibile. Anche per questo, molte migliaia di spettatori sono rimaste dentro lo stadio fino a che non è stato loro chiesto di sgombrare, per motivi di ordine pubblico, di pulizia degli spalti e di comodità per gli inservienti, e hanno eseguito uno a uno tutti gli inni proposti dall’altoparlante. Un significato chiaro: non è l’ultima a Goodison Park ma è l’ultima, qui, contro gli storici rivali, quelli che, come si sa, nacquero nel 1892 solo per dare un senso al campo, Anfield, che era stato abbandonato dall’Everton stesso. Fondato molto prima, 1878, ed è per questo che è spuntato per l’ennesima volta lo striscione che ricordava, appunto, ‘questa città l’abbiamo costruita noi, dal 1878’. 1878, e vengono i brividi: perché nel programma ufficiale della partita una pagina è stata dedicata a uno sfortunato ragazzo che, colpito da malattia muscolare degenerativa, è di recente stato ospite del centro di allenamento, dove alcuni giocatori hanno festeggiato con lui il suo 21esimo compleanno. Incredibilmente, il trisnonno del ragazzo assistette proprio nel 1878 alla primissima partita nella storia dell’Everton, all’epoca ancora chiamato St.Domingo’s, ed è una storia che fa girare la testa ed evidenzia ancora una volta il concetto di comunità che un club calcistico, non solo questo ovviamente, genera e alimenta. La retorica della passione trasmessa dai padri ai figli è tale solo quando esagerata, ma nasce dalla realtà, e attorno ad Anfield prima della partita l’abbiamo vista in innumerevoli esempi, con gli adattamenti dei tempi. Il ragazzino, avrà avuto 11 anni, che teneva in alto orgogliosamente un fumogeno blu all’ombra della statua dei tre eroi dell’Everton , non faceva altro che proseguire la tradizione del giovane padre, in piedi accanto a lui, e pazienza se quel fumo e quell’odore rappresentavano una violenza al tradizionale aroma del prepartita inglese, cipolla e carne cotte sulla piastra: per tornare ai tempi belli bastava fare 150 metri, andare di fronte alla statua solitaria del grande Dixie Dean, il capocannoniere storico dei Toffees, vedere i fiori composti a formare la scritta DAD, papà, e capire che cambieranno modi e strutture ma forse lo spirito che si trasmette è lo stesso. Speriamo, almeno.

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