Quelle scarpette arancioni di un Papero: Pato compie 35 anni

Quelle scarpette non soltanto brillavano in una fredda notte milanese del gennaio 2008. Quelle scarpette erano magiche. Accendevano il campo, già un caleidoscopio di colori, perché il rosso e il nero, quel giorno, si erano uniti in un caloroso abbraccio con il verde e con l'oro. Un po' San Siro e un po' sambodromo, mentre le note milanesi di Jannacci - solo per una sera - lasciavano il posto alla musica brasiliana. Tradotta sul campo in tocchi morbidi come cachemire, nell’intuizione acuta, nel pallone usato come metafora di divertimento. In un acronimo: KaPaRo. Kakà, Pato, Ronaldo. Milan cinque, Napoli due. Era l'esordio del Papero - oggi 35 anni Alexandre Rodrigues Da Silva - nome morbido e musicale come quello di tutti i brasiliani. Detto Pato, il papero, faceva venire in mente un libro di fiabe per bambini, quelli popolati da strani personaggi e con un eroe buono che affronta mille difficoltà come protagonista. Un folletto simpatico e magico che non aveva mai giocato a undici prima dei dieci anni di età, perché il calcio a cinque lo divertiva di più. E che da bambino rischiava l'amputazione del braccio per un tumore, scoperto in tempo dopo una radiografia per una frattura, banalmente causata da un gioco sul divano con gli amici. Nell'agosto del 2007 sbarca a Malpensa col passaporto del futuro campione, l'apparecchio ai denti e qualche brufolo. Non certo in punta di piedi, ma circondato dai flash dei fotografi, come tante piccole stelle che brillano nel cielo. Per giocare deve aspettare i diciotto anni. E i diciotto anni arrivano a settembre, il 2, a mercato e liste già chiuse; il Milan quindi può tesserarlo solo a gennaio. Sale l'attesa, come quando in città spuntano i primi addobbi e i bambini aspettano il Natale. A settembre la società organizza un'amichevole contro la Dinamo Kiev praticamente solo per lui, i prodromi della sua avventura rossonera. Lì c'è tutto Pato: prima sbaglia un gol facilissimo, praticamente a porta vuota. Poi segna di testa qualcosa di molto più complesso. Lo hanno disegnato così quel brasiliano, un po' croce e un po' delizia. Il 13 maggio del 2008 - ai piedi le scarpette arancioni, non a caso il colore dell'allegria - è allora e finalmente il suo momento. San Siro è un catino che sta per esplodere: Pato si divora due volte un vantaggio facile facile ; il Milan brasiliano, intanto, segna una, due, tre e quattro volte. Divertendo. Ma manca qualcosa. Minuto numero 74. Favalli sventaglia dalla difesa, Pato vede palla e la insegue come si fa coi sogni. Il primo controllo è una dichiarazione d'intenti: vola verso la porta, segna, vola verso la gloria. È boato, come per un gesto di un matador nelle corride dei tori. Il papero buono quasi si commuove, poi mostra un cuore in tribuna per la fidanzatina Sthepany. È appena diventato il fratellino minore di tutto lo stadio. Esplosivo. Pato era mesmerismo puro. Ti ipnotizzava con le sue giocate lampo. Tra le migliori, in ordine sparso: la doppietta al Bernabeu contro il Real Madrid, da maestro Jedi del pallone; il gol al Barcellona dopo ventiquattro secondi di partita, lo scatto dinamitardo. Come quello a Roma nel gennaio del 2009 bruciando Mexes sulla fascia come una monoposto di F1. Quello sempre alla Roma, ma la stagione seguente - agli ordini di Leonardo che inventa il sistema 4-2-fantasia - su assist di Ronaldinho: controllo di petto a tagliar fuori l'ultimo difensore, dribbling al portiere e palla sotto la traversa. Il tiro a giro contro il Napoli nel 2011. Zurigo, un fulmine su punizione. Siena, gol da casa sua. E poi, chiaro, gli infortuni, la pozione velenosa della fiaba. Senza antidoto. In cinque anni di Milan Pato salta più di ottanta partite, prima per una slogatura , poi per un guaio muscolare, uno dopo l'altro. Il fisico del ragazzo con le spalle strette, tanto per citare De Gregori cambia forma. Non è più mingherlino, come si dice a Milano, è robusto, ma i muscoli non lo seguono. Iniziano i dolori del giovane Alex. Idiosincrasia da campo, si sta come su una montagna russa che sale in alto, altissimo, per poi scivolare velocemente verso terra. A terra come lui, tante volte. Come contro l'Atalanta nel 2010: le scarpe, da arancioni, sono diventate gialle. E lui si era fatto male, di nuovo. È la storia presa dal lato sbagliato e che proseguirà, post Milan, tra sette o otto dottori consultati contemporaneamente: un medico ad Atlanta lo mette a testa in giù mentre lo fa girare su se stesso, uno in Germania gli iniettata un liquido lungo tutta la schiena. Lacrime. Un altro usa venti aghi, in corpo, ogni mattina e ogni sera. Arriva a un punto in cui i suoi muscoli - gli dicono quei dottori - si sono accorciati a causa degli infortuni: più tessuto muscolare nella parte frontale della gamba rispetto a quella posteriore. Il suo corpo, in sostanza, è sbilanciato. Ma la sua vera fiaba, da lieto fine, Pato la scrive nella stagione 2010/11. Quella dello scudetto, decisa da un derby, decisa da lui: Milan in rottura prolungata di risultati, Inter alle calcagna e Ibra squalificato. Nel derby che decide tutto, Pato segna dopo un minuto, poi fa espellere Chivu e quindi segna ancora. Il parossismo del patismo: fugge come una lince affamata, il bello lascia posto al concreto. Game, set, match. Salvo la successiva Supercoppa italiana, quello scudetto è il suo unico trofeo rossonero. Se ne andrà nel gennaio del 2013, con un anno di ritardo da quel famoso, e clamoroso, bivio di mercato con Carlitos Tevez. Se ne andrà come finiscono certe storie d'amore, con quei non detti su quanto sareste potuti stare bene insieme. Anche più di quanto non sia già stato. Perché Pato sembrava davvero far parte di quella ristretta cerchia di giocatori provenienti da una galassia lontana lontana. Era atterrato su Milano con delle scarpette arancioni. E brillavano.

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