Vent'anni di De Laurentiis, presidente a metà tra la tifoseria e l'imprenditoria

'Aurelio, posso chiamarti papà?'. Il 26 settembre del 2004 ad accogliere Aurelio De Laurentiis, nell’allora Stadio San Paolo, c’era questo striscione, esposto nel settore Distinti. Era la sua prima partita da presidente del Napoli: 16 giorni prima aveva firmato le carte per acquisire il club. Il Napoli Soccer esordiva in serie C contro il Cittadella. A Fuorigrotta c’erano 50mila spettatori, la partita finì 3 a 3. Il tempo di organizzarsi alla meno peggio e partire. Un viaggio che ha compiuto vent’anni. Il sentimento dei tifosi del Napoli in questi quattro lustri non è stato sempre così benevolo come recitava lo striscione di benvenuto, però, quantomeno, tutti quanti hanno sempre riconosciuto al presidente una ferrea coerenza nelle strategie adottate per far crescere il Club nell’ottica di una politica economica incentrata sulla sostenibilità e sul trading. Tre Coppe Italia, una Supercoppa Italiana e il terzo scudetto nel 2023, i risultati ottenuti in vent’anni, quindici dei quali partecipando alle competizioni internazionali. "Sono io il vostro Cavani", dichiarò quando sembrava che il 'Matador' potesse tornare a Napoli perché messo in vendita dal Paris Saint Germain. Come a dire "Fidatevi di me", per mettere a tacere chi lo criticava accusandolo di non voler il bene del club — ma di pensare solamente ai suoi interessi — e in qualche modo per spegnere la diffidenza di chi sosteneva che la gestione del Club dovesse ancora essere incentrata al puro mecenatismo. Così non è mai stato. Da subito De Laurentiis ha guidato il club come un’azienda, vestendo i panni dell’imprenditore. La visione, le intuizioni, prima di altri. Dalla gestione esclusiva dei diritti di immagine dei calciatori, alla pay per view della singola partita. Ma anche un approccio a volte troppo irruento — per usare un eufemismo — nel processo di evoluzione del sistema, figlio di un’estrazione totalmente avulsa dal mondo del calcio e dalle sue ancestrali dinamiche. Lui non ha mai guardato in faccia a nessuno, come quando durante una riunione in Lega Calcio mandò a quel paese —sempre per usare un eufemismo — i suoi colleghi abbandonando via Rosellini a bordo di un motorino guidato da un ragazzo che si trovava lì per caso. In fin dei conti, in Aurelio De Laurentiis, non ha mai fatto difetto questa componente un po’ cinematografica, per non dire da Cinepanettone, che lo ha accompagnato nei suoi primi vent’anni alla guida del Napoli, una gestione comunque virtuosa e allo stesso tempo familiare. La creazione di un settore giovanile di primo livello, la 'Scugnizzeria', annunciata per anni e la costruzione del nuovo stadio: le promesse non mantenute, fino ad ora. Così come il centro sportivo, a Castel Volturno, da sempre in affitto. Per molti il manifesto di una politica imprenditoriale in cui gli investimenti, le spese, sono sempre state studiate per avere un ritorno a breve-medio termine, senza tenere in considerazione la particolarità del rapporto fortemente identitario tra la squadra e la città. Lui ha sempre ribattuto, colpo su colpo, rilanciando e sorprendendo. Da Hamsik a Osimhem, con rari passaggi a vuoto. La scelta dell’allenatore prerogativa sulla quale non ha mai voluto ingerenze esterne. Anche a costo di sbagliare, raramente peraltro. Da Ventura ad Antonio Conte, passando per Mazzarri, Benitez Sarri, Ancelotti e Spalletti. Grandi amori e qualche flirt finito in malo modo, senza curarsi delle conseguenze. D’accordo, Cavani, ma anche un po’ Marchese del Grillo. Tanti auguri, Presidente.