Thiago Silva, il cacciatore di aquiloni che rischiò la carriera per la tubercolosi

Várzea è un parola brasiliana che indica qualcosa di improvvisato o che funziona senza una precisa organizzazione. L'esegesi riporta alle pianure alluvionali dove il calcio si è fatto strada più di un secolo fa, quei campi di fango in cui si sono giocate le prime partite di pallone; perché se è pur vero che il football l'hanno inventato gli inglesi, si dice che siano stati i brasiliani a renderlo uno sport più bello. Lì, nella várzea, un bambino che amava giocare con gli aquiloni è diventato un ragazzo con un sogno, il ragazzo con un sogno è diventato uomo, sconfiggendo la malattia, e l'uomo è diventato un leader elegante. Perché questo era ed è Thiago Silva - ancora in campo con la sua Fluminense a 40 anni esatti oggi . Due nomi e tre vite: correva in punta di piedi e accarezzava il pallone come si fa con la guancia di una persona amata. Più facile farlo da trequartisti col 10 sulla schiena, Thiago Silva lo faceva da difensore centrale, elegante, con lui Milano vendeva moda. Giocava con gli aquiloni e lo chiamavano tutti topolino, perché non usciva quasi mai di casa. Schivo, sensibile come poi lo sarà nelle letture sul campo, acuto nello scacchiere delle difese. Il twist narrativo prende sostanza già nelle prime pagine del suo libro: a dieci anni guarda il rigore di Roberto Baggio volare altissimo nel cielo di Pasadena e qualcosa, in lui, scatta. Il Brasile era appena diventato campione del mondo, ancora non lo sapeva ma era destinato a diventarne il capitano in uno sciagurato Mondiale di vent'anni esatti dopo. Il romanzo di formazione prosegue nella povera comunità di Vila Ucrania, a Rio de Janiero: il suo allenatore si chiama Dequinho e capisce che c'è un lampo di genialità in quel ragazzo timido che, via via, prende sempre più coraggio, pronto a volare alto come uno dei suoi aquiloni. Lo fa con una palla al piede e una fascia al braccio. La via sembra tracciata, ma il destino aspettava ancora di giocare le proprie carte. Tutti assi. È come nel film Match Point di Woody Allen: il concetto della pallina da tennis che rimbalza sulla rete e che può finire sia da un lato che dall'altro del campo. La sottile ma pesantissima differenza tra vincere e perdere. Tra vivere e morire. Thiago, qualcosa di molto simile, lo sperimenta a vent'anni: capitolo II della vita. Inizia a giocare come centrocampista, possibile? Poi entra in scena il classico personaggio secondario capace di creare un bivio lungo la storia: si chiama Ivo Wortmann. Ex giocatore degli anni Settanta e bronzo in una Copa América col Brasile, uno che ha allenato quasi trenta squadre tra Sudamerica, Usa, Cina e Arabia: nel 2004 - per la fortuna di tutti - è alla Juventude è ha l'idea di farlo diventare difensore centrale. Il salto in Europa è lo step successivo: al Porto, che lo prende in prova e poi lo riscatta. Si fa male e gioca solo con la squadra riserve, poi vola in prestito lontano, nel freddo che fa da ossimoro col suo Brasile: Russia, Mosca, alla Dinamo. È lì che la vita guarda Thiago Silva in tralice, come se fosse pronta a fargli uno sgambetto. E quello sgambetto si chiama tubercolosi: durante la pre-stagione in Russia il futuro centrale del Milan inizia a sentirsi male e gli esami confermano uno stadio già avanzato della malattia. I dottori spingono per un'operazione al polmone che avrebbe quasi certamente messo fine alla sua carriera, Thiago ascolta le persone che lo circondano di affetto e decide di lottare, capitolo III della sua vita. Riesce a raggiungere un accordo legale per tornare in Portogallo: inizia la cura, medicine tutti i giorni, l'attesa, agonica, diventa lunghissima come quei tunnel di montagna che sembrano non finire mai. Alla Dinamo, ovviamente, non ci gioca neanche una volta: si era trasferito lì nel gennaio del 2005, tornerà a giocare solo ad aprile 2006, dopo aver congedato la malattia con un triplice fischio e rientrando a casa in Brasile, in quella che, ancora oggi, è la sua Fluminense. È da lì che il Milan lo compra. È da lì che diventa uno dei migliori difensori del mondo. C'è anche un tocco di déjà vu: Leonardo lo porta in rossonero, ma ci sono ancora da sistemare gli slot extracomunitari, lui allora inizia ad allenarsi a Milanello e solo dopo sei mesi può finalmente esordire, un po' come era successo a Pato. Con Nesta inizia a formare una coppia che sta bene come James Bond e il suo Vodka martini, o come Big Lebowski e un White russian. Resta tre anni e vince lo scudetto del 2011. Verrà poi la Champions col Chelsea, ma non la gloria col suo Brasile: segna e porta la squadra in semifinale nel Mondiale casalingo del 2014, da capitano, ma in quella partita con la Colombia si fa anche ammonire e squalificare. Non è in campo - e non poteva essere altrimenti - nella catastrofe delle catastrofi, quei sette terribili schiaffi presi dalla Germania. Erano quelli gli anni dove giocava al Psg, con cui vince talmente tanti campionati da perderne il conto. Galliani lo aveva venduto a malincuore nel 2012, da un palchetto privato del numero uno del Paris Al-Khelaïfi, al Roland Garros. Forse, in quei momenti, anche lui stava guardando una pallina da tennis che rimbalza sulla rete. Era scivolata dalla parte del Psg.