Chiedimi chi era Paulo Roberto Falcao

Vendeva i vuoti di bottiglia, per procurarsi i soldi necessari a pagare il biglietto dell’autobus, che lo avrebbe portato agli allenamenti del settore giovanile dell’Internacional di Porto Alegre. Circa quindici anni dopo segnò a Dino Zoff il gol del momentaneo pareggio in Italia-Brasile del Mondiale 1982. Sarebbe bastato un punto alla Seleçao verdeoro per eliminare gli azzurri e affrontare in semifinale la Polonia, ma fortunatamente quel giorno, al Sarriá di Barcellona, Paolo Rossi decise di far piangere un’intera nazione. Meno di un anno dopo, ecco la sua rivincita personale, non in nazionale ma con la maglia della Roma. Marzo 1983: chiese al suo amico fraterno, il giornalista brasiliano Roberto Moure, per tutti ‘Pato’, di richiamare la Rai dopo aver rifiutato il primo invito, qualche settimana prima, per un faccia a faccia con il giornalista Giovanni Minoli nella celebre trasmissione ‘Mixer’. La Roma aveva appena perso lo scontro diretto in casa con la Juventus, ribaltata all’Olimpico in appena 3’ dai gol di Platini e di Sergio Brio, lo storico stopper bianconero di quegli anni, che tornò sì a Torino con i 2 punti in classifica ma anche con i segni visibili del morso di un cane poliziotto che era a bordocampo. Avvolto da un foulard giallorosso, sembrava indossare i panni del perfetto giustiziere, in realtà quelli sul collo del cane lupo erano semplicemente i colori del reparto di appartenenza. La Roma, dopo quel ko, si era ritrovata da un possibile +7 sulla Juventus, a un + 3 capace di far tremare i tifosi giallorossi. Servivano le parole di un leader, era necessario rispondere a quelle di Giampiero Boniperti che da Torino parlava di “Roma ormai impaurita”. E il leader non esitò a rispondere: “I bianconeri credono nello scudetto? Noi ci crediamo ancora di più, siamo 3 punti avanti e sono abbastanza per vincere”. Aveva ragione e di lì a poco, l’8 maggio 1983 a Genova, assieme a Tancredi, Nela, Vierchowod, Ancelotti, Maldera, Conti, Prohaska, Pruzzo, Di Bartolomei, Iorio e poi ancora Chierico, Valigi, Righetti, Faccini, Superchi, Nappi, era in campo a festeggiare uno Scudetto che alla Roma giallorossa mancava da 41 anni. Con l’Internacional di Porto Alegre, che in tutta la sua storia non aveva mai vinto e mai più vincerà, c’era riuscito tre volte , oltre a essere nominato per due anni miglior calciatore di tutto il Brasile. “Voglio vincere il campionato”, lo aveva detto ai 5000 tifosi che trovò a Fiumicino quel 10 agosto del 1980, anche se uno dei suoi virgolettati più celebri fu “Sono venuto qui anche per studiare giurisprudenza e laurearmi”. Non aveva ancora 27 anni, venne avvolto da una sciarpa e ‘incoronato’ da uno zuccotto giallorosso. Eppure, non tutti a Roma erano pazzi di lui. Del resto, lo stesso Dino Viola era attratto più dalle magie del genio Zico, il numero 10 del Flamengo. ‘O Galinho’, un giorno a pranzo a casa del Presidente romanista, aveva detto sì al trasferimento nella Capitale, ma il parere dei calciatori all’epoca contava poco o nulla, erano i club di appartenenza a decidere e il Flamengo rifiutò l’offerta della Roma. Viola ‘ripiegò’ allora su un profilo diverso che in pochi conoscevano, ma che in breve tempo impararono ad amare. Carmelo Bene disse di lui: “Non è un calciatore, è un fenomeno artistico, un grande artista paragonabile a un grande direttore d’orchestra, a un musico del gioco”. L’emanazione in campo di un altro fuoriclasse che, in quegli anni, la Roma aveva in panchina, Niels Liedholm. Non a caso nell’estate dello Scudetto romanista, l’Inter di Fraizzoli provò a strappare il numero 5 brasiliano ai giallorossi. E, diciamo la verità, c’era riuscita grazie al lavoro di Sandro Mazzola e al procuratore Cristoforo Colombo. La firma del giocatore c’era, mancava l’accordo tra i due club. A far saltare l’affare ci pensò un tifoso giallorosso doc come Giulio Andreotti, con la collaborazione preziosa del suo braccio destro Franco Evangelisti. Fu lui a convincere mamma Azise che sarebbe stato meglio per suo figlio restare a Roma. Giulio Andreotti si occupò del resto, telefonando direttamente al Presidente dell’Inter Fraizzoli che, poco dopo, ordinò a Mazzola di stracciare il contratto. Un sospiro di sollievo per tutti i tifosi giallorossi che non avrebbero sopportato la rinuncia al loro condottiero proprio nella stagione della prima partecipazione giallorossa alla Coppa dei Campioni. Andava chiuso un cerchio e nel modo migliore possibile, per questo la Roma arrivò a un passo dal trionfo. L’unica recita stonata, ma per molti ancora indelebile, andò in scena il 30 maggio del 1984, all’Olimpico, in finale contro il Liverpool. Quello che per tutti era diventato ‘il divino’, dopo l’1-1 nei tempi regolamentari, preferì non presentarsi dagli undici metri di fronte a Bruce Grobbelaar. Sbaglieranno Bruno Conti e Ciccio Graziani e ai romanisti non restò che consolarsi al Circo Massimo dove Antonello Venditti cantò lo stesso, anche da sconfitto in una “Notte di sogni, di coppe e di campioni, di lacrime e preghiere”. Durò un altro anno la permanenza a Roma del condottiero arrivato nel 1980 dal Brasile. Sarebbe potuto tornare da allenatore nel 1991, c’era già l’accordo con Dino Viola, ma il Presidente morì poche settimane dopo e non se ne fece più nulla. Otto anni dopo un altro brasiliano vinse a Roma. Non era un calciatore, ma un tennista di nome ‘Guga’ Kuerten che trionfò agli ‘Internazionali d’Italia’. Sul centrale del Foro Italico, dopo la vittoria contro Rafter, un giornalista gli chiese se si sentisse un po’ l’ottavo re di Roma. Guga rispose che l’unico ottavo re di Roma era e sarebbe stato sempre Paulo Roberto Falcão. Oggi, a 71 anni, può dire di esserlo ancora.