Inter e Juve come lo Yin e lo Yang: all'origine della rivalità tra nerazzurri e bianconeri

Nella filosofia orientale Yin e Yang si riconoscono reciprocamente come l’altro da sé, ma contestualmente sono destinati a una fusione permanente perché nulla esiste senza il suo opposto e perché ogni Yin è permeato dal suo Yang e viceversa: giorno e notte, dei e demoni, terra e cielo, femminile e maschile. Universi antitetici che si specchiano alimentandosi reciprocamente, respirando l’essenza dell’altro in sé stessi come lingue della stessa fiamma, come Diomede e Ulisse nell’ottavo cerchio dell’Inferno dantesco. O come Sosia, servo di Anfitrione, che incontra il suo doppio per l’ingannevole rappresentazione di Mercurio che ne prende le sembianze, e che arriva a mettere in discussione la propria identità. Inter e Juventus, insomma, non sono due espressioni calcistiche, ma due visioni del mondo di un’unica filosofia che ha prodotto fratture passionali e arte condivisa, amorevoli metamorfosi e gelide scissioni. Che siano mondi contrapposti in aperta e costante polemica lo dimostra la storia, sin da quella sfida dell’aprile 1961. La Juve di Parola è in testa al campionato dopo una lunga rincorsa proprio all’Inter di Herrera, l’allenatore che scriverà pagine gloriose sulla panchina nerazzurra ma che ora è al suo primo anno in Italia. Lo scontro diretto a 7 giornate dalla fine è sostanzialmente lo snodo decisivo e l’attesa delle tifoserie è paragonabile a quella di una Finale. Il Comunale di Torino è troppo piccolo per quell’oceano di passione e a partita iniziata molti spettatori sciamano progressivamente dalle tribune a bordocampo per sfuggire a quella calca insopportabile. Intorno alla mezz’ora l’arbitro si convince che la situazione stia diventando potenzialmente pericolosa: sin lì non è accaduto nulla, d’accordo. Ma se una delle due squadre segnasse? Se un fischio per decretare un rigore dovesse risultare particolarmente sgradito a tutta quella gente assiepata accanto alle linee laterali? Insomma, il fischio arriva, sì, ma per sospendere la partita. Decisione che comporta la successiva assegnazione dello 0-2 a tavolino in favore della squadra ospitata, l’Inter. Ma il 3 giugno, vigilia dell’ultima giornata di campionato, la Caf accoglie il ricorso juventino e dispone la ripetizione della partita. I nerazzurri vengono informati mentre sono in albergo a Catania, sede del match decisivo, ed evidentemente non la prendono benissimo: scendono in campo molli e delusi, il Catania non fa sconti e vince 2-0. Scudetto alla Juve e ripetizione della sfida all’Inter del tutto pleonastica, a quel punto. Circostanza che favorisce la drastica decisione di Angelo Moratti, deciso a rimarcare la contrarietà dell’Inter per quell’epilogo pieno di veleni e sospetti, alimentati dalla doppia carica rivestita da Umberto Agnelli, al contempo presidente della Juve e della Federcalcio. E così a Torino scende in campo la Primavera, una masnada di ragazzini al debutto in serie A, tra cui un diciottenne di nome Sandro Mazzola. “Quel giorno lì dovevo sostenere gli esami del quarto anno di ragioneria e i miei genitori mi dissero di scordarmi la partita – dirà 'il Baffo' anni più tardi – ma il Preside si mise una mano sul cuore e acconsentì a farmeli fare di prima mattina. Una macchina della società mi aspettava all’uscita e mi portò a Torino giusto in tempo per scendere in campo”. Finisce 9-1 per la Juve con 6 gol di Sivori, il risultato più ampio della lunga storia tra Juve e Inter. Ma quel gollettino lì, su rigore, lo segna proprio lo sconosciuto Mazzola: si accende una piccola luce nel baratro più buio. A fine partita Giampiero Boniperti si toglie le scarpe da calcio e le regala al massaggiatore: “Tieni, a me non servono più. Oggi col calcio ho chiuso”. L’omega e l’alfa si toccano, lo Yin e lo Yang cominciano a mescolarsi e Sant’Agostino riecheggia anche nel mondo del pallone: “Novum in vetere latet, vetus in novo patet”. Due meravigliosi campioni sullo stesso campo per salutare l’alba e il tramonto di carriere opposte, ma simili, bianconerazzurre. Ma la freudiana conversione nell’opposto, la trasformazione di una pulsione nel suo contrario che è altro da sé pur innervando il sé, è incarnata da uno scambio di calciomercato che resterà per sempre nella storia. Roberto Boninsegna, detto 'Bonimba', è una bandiera dell’Inter, gioca in nerazzurro da 7 anni e ha segnato la bellezza di 173 gol. Nel dicembre del 1970, circondato dalla neve, ha già giustiziato la Juve a San Siro con un a partita magistrale, prima stoppando al volo un cross dalla destra per offrire, sempre al volo, un cioccolatino da scartare a Mario Corso. Poi sorprendendo tutti con una punizione dal limite: sulla palla c’è sempre Corso, il maestro della foglia morta, Bonimba è qualche metro più indietro, quasi passasse di lì per caso. Ma all’improvviso prende la rincorsa e tira con tutta la forza possibile, sul palo del portiere, dal basso all’alto. Sembra un fiocco di neve impazzito che va a spegnersi all’incrocio dei pali rendendo evidente il significato del suo soprannome. 2-0 e tanti saluti. Pietro Anastasi, detto Pietruzzo, è una bandiera della Juve, gioca in bianconero da 8 anni e ha segnato la bellezza di 130 gol. Nel gennaio del 1969 ha già giustiziato l’Inter a San Siro. E la neve c’è anche quella volta lì. Prima un tuffo di testa, splendido, saltando all’indietro per recuperare un cross leggermente arretrato e inarcandosi per infilare l’angolo sul primo palo. Poi raccogliendo un cross da destra e calciando nello stesso angolo. 1-2 e tanti saluti. Pietro è l’idolo di 3 scudetti bianconeri e di una Sicilia intera che in lui vede il riscatto di una terra troppo spesso calpestata. E ha solo 28 anni. Ma qualche problema fisico lo affligge, così come un rapporto non del tutto sereno con Parola, leggenda juventina. Roberto è l’idolo di uno scudetto nerazzurro e viene dall’ennesima stagione in doppia cifra. Ma ha 33 anni, sembra in declino ed è considerato sacrificabile. E così, in quel luglio 1976, si consuma uno scambio di calciomercato che non sarebbe stato mai più dimenticato: 800 milioni di lire di conguaglio alla Juve dovuti ai 5 anni di differenza tra i due giocatori e il ribaltamento delle prospettive è cosa fatta. Un po’ come se Achei e Troiani avessero deciso di scambiarsi Achille e Ettore per scelta strategica: Pietro in nerazzurro e Roberto in bianconero sembravano il rovesciamento del mondo, la neve sul fuoco delle passioni che alimentano appartenenza e orgoglio. E da quel giorno lo Yin e lo Yang che tutto fondono e confondono in un incessante conversione nell’opposto ha prodotto innumerevoli Sosia, identità capovolte, scisse ma uniche: Brady, Tardelli, Baggio, Vidal, Ibra, Pirlo, Cannavaro, Altobelli, Serena…un elenco infinito di storie rovesciate e ricadute sulla sponda rivale come neve in una palla di vetro. Inter-Juve dunque è filosofia, pensiero, psicanalisi, arte, storia e sociologia. La contrapposizione ideale prende qualsiasi sembianza. Nella Juve, per esempio, c’è la purezza dei tratti rinascimentali. Il 'Barone' Causio nell’aprile del 1972 firmò un 3-0 con una tripletta storica e spettacolare: primo gol di testa, da perfetto centravanti. Secondo al volo di destro, il suo piede magico. Il terzo con pallonetto al difensore, controllo e diagonale nell’angolo. Un dipinto fatto di linee armoniose, profondità di pensiero, simmetrie e prospettive innovative. Anche lui finì per dipingere nella bottega nerazzurra, regalando ancora qualche opera di pregio ma senza i fasti della giovinezza in bianconero. Le 'Roi' Michel Platini segnò proprio a San Siro nell’aprile del 1984 un gol paradigma della sua classe nobiliare: aggancio al volo e esterno destro sull’uscita di Zenga. Una delle 4 perle confezionate contro l’Inter, complessivamente. Un tratteggio aristocratico e botticelliano. Il 'Raffaello' Baggio, duettando con Casiraghi, fece qualcosa di simile 8 anni più tardi appoggiando con finezza sul palo più lontano l’assist del compagno. Lui che l’anno prima aveva impreziosito l’illusorio 4-2 di Maifredi ai nerazzurri, fondato su un gioco che avrebbe dovuto incardinare l’estetica nella teleologia bianconera. Fino a 'Pinturicchio' Del Piero che nel febbraio 2006 inventò una parabola degna del Brunelleschi per mettere fuori causa Julio Cesar e segnare il gol vittoria a 5’ dalla fine. Sfumando la purezza dell’arte con l’esultanza che divenne marchio, la linguaccia rock in stile Rolling Stones, un pizzico di scapigliatura tra le pieghe del Rinascimento. Ma nella storia juventina contro l’Inter c’è anche, perché no, un po’ di architettura del realismo socialista, limpida ed essenziale, grazie alla doppietta di Kovacevic nel 2000 e al gol vittoria di Kostic nel marzo del 2023. Scuola artistica cui vorrebbe certamente attingere il connazionale Vlahovic. Nell’Inter, invece, prevalgono il post impressonismo e il romanticismo, in particolare quello tedesco, legato a doppio filo con lo Sturm und Drang. Dove la natura è sublime nella sua potenza devastatrice. Esponente della prima corrente 'Spillo' Altobelli, personaggio che sembrava uscito da un quadro di Van Gogh e che dipingeva il campo con rapidi tocchi di colore. Spesso apparentemente sull’orlo di un equilibrio approssimativo, spesso preciso e incisivo come il suo soprannome. Firmò un 4-0 alla Juve, anche lui con una tripletta storica: prima con un rigore procurato e trasformato, poi approfittando di un retropassaggio sbagliato e infine perfezionando un controllo di petto leggermente abbondante con un tocco di controbalzo sull’uscita di Zoff. Altobelli fu testimone attivo anche di un altro 4-0, nel novembre del 1984, in coppia con Karl Heinz Rummenigge. Kalle e Spillo: non gli antesignani della coppia protagonista di una canzone di Samuele Bersani, ma le punte di diamante di un’Inter che avrebbe potuto vincere ma che invece si fermò sulla soglia dello scudetto. Rummenigge in quel pomeriggio segnò un passaggio culturale destinato a durare, in casa nerazzurra. Il suo Sturm und Drang travolse la Juve incapace di controllarne la furia: colpo di testa a piegare le mani di Tacconi per l’1-0, mille scatti per logorare la difesa bianconera e il suggello del gol finale con una galoppata imperiosa e un tiro potente e preciso. L’anticipazione di quel che sarebbe stato con Mattheus e Klinsmann, per altro allenati dall’allenatore umiliato da Kalle, quel Trapattoni che in nerazzurro avrebbe vinto lo scudetto nell’89 dopo averne vinti 6 con la Juve, giusto per armonizzarsi al ribaltamento costante richiesto da Yin e Yang. Ed è tutta romantica e tedesca la vittoria dell’Inter nel settembre del 1989: prima una botta terrificante di Lothar dal limite dell’area, quasi a raccogliere il testimone teutonico di 15 anni prima, poi la fuga in contropiede del cerbiatto Jurgen, gambe veloci e un po’ scoordinate, ma dribbling e conclusione da manuale. Ma Inter-Juve è anche eros e thanatos, spesso intinto di scintille letterarie. E così quando nel febbraio del 1976 i nerazzurri vinsero 1-0 contro il Torino spingendo la Juve a + 5 sui granata molti titolarono “L’Inter uccide il campionato”. Salvo poi ricredersi, quando 2 mesi più tardi un tracciante di Bertini affondò la Juve a San Siro consentendo il decisivo sorpasso del Torino di Graziani e Pulici: scudetto prima consegnato, poi tolto come in un romanzo gotico. Ma l’eros senza colpi di scena la Juve lo afferrò dall’Inter nel 2012, il 6 maggio, quando un altro tracciante, stavolta di Maicon, chiuse definitivamente il derby di Milano regalando l’aritmetico scudetto alla Juve, vittoriosa a Trieste contro il Cagliari. Conte in campo ad esultare è la prima istantanea di una carriera a suo modo rivoluzionaria, perché anche Antonio appartiene all’album filosofico del derby d’Italia: tanto epicureo nel liberare le passioni durante la fase agonistica, tanto stoico nell’affermare l’atarassia, il distacco dalle cose terrene, dai dogmi e dalle forze che ingessano i sentimenti. Da allenatore bianconero si scrollò di dosso l’etichetta della juventinità intesa come vincolo sempiterno, appartenenza fatale e indiscutibile. E lo disse con forza in una conferenza stampa rimasta indimenticata. Tanto che poi, in effetti, avrebbe riportato alla vittoria pure l’Inter, certificando la fine del dominio juventino con un 2-0 firmato anche da Vidal, altro pezzo di storia bianconera ritinta in nerazzurro. Non solo. Tacciò di provincialismo l’atteggiamento totalizzante e gioioso di quei tifosi che al suo arrivo a Torino focalizzavano l’intera stagione su un’unica sfida, quella alla rivale di sempre, come frammento di revanchismo appagante e struggente. “Bisogna vincere i campionati – diceva – non una partita”, spazzando via così, con una ventata di aria finalmente pulita, tutta la polvere tossica dell’era calciopoli. C’era anche lui in campo quando nel 1998 Ronaldo e Iuliano furono protagonisti della più famosa collisione della storia, giudicata veniale dall’arbitro Ceccarini. Che pochi secondi dopo invece vide e fischiò il rigore a favore della Juve, scatenando la furia di un uomo da sempre dedito al katà metròn , Gigi Simoni. C’era anche lui in campo il 5 maggio 2002 quando l’incontenibile gioia bianconera risuonò sulle lacrime di Ronaldo come una frustata nell’anima del popolo nerazzurro. E c’era anche lui, da avversario, in serie B, contro una Juve uscita semidistrutta dalle sentenze sportive. Vide e visse l’apice della scollatura tra Yin e Yang, vide e visse il momento in cui la Juve divenne agli occhi interisti la plastica rappresentazione dell’arroganza del potere e l’Inter agli occhi juventini la grottesca immagine del vittimismo piagnone. Osservò anche il clamoroso e repentino ribaltamento dei ruoli, quando l’Inter del post-calciopoli si rivestì delle prerogative della monarchia assoluta, un po’ spocchiosa ed arrogante, culminata col Triplete. Mentre la Juve scivolava nel labirinto del vittimismo amareggiato e ricolmo di sterili rivendicazioni. E fu lui a tagliare questo inestricabile groviglio di odio sportivo, lasciando colare nei tombini gli eccessi sentimentali. Perché ostacolo al cammino, perché inaccettabile bile versata sul passato. L’animo stoico prevede etica, distacco, saggezza e lui, novello Zenone, ha sempre portato il suo ambiente sotto la Stoà per impartire lezioni di Logos: via le passioni negative, serve dedizione e razionalità. Per questo ha vinto con la Juve e ha vinto con l’Inter, diventando strumento della ricomposizione tra gli opposti. Ma Inter-Juve è anche il rovesciamento di Parmenide: “L’essere è, il non essere non è”. Sicuri? Il derby d’italia è stato capace di sovvertire anche questo, perché una partita, forse la più bella tra le due squadre, sembra invece la dimostrazione che “l’essere non è”. Perché è stata giocata, certo, è stata bellissima, ancora più certo. Ma non esiste più. Anzi, non è mai esistita. Oggi sui tabellini statistici al primo maggio 1983 viene ascritto un Juve-Inter 0-2. Senza marcatori, senza formazioni, senza minutaggi. Ma la partita giocata al Comunale di Torino finì 3-3. Mancavano 3 giornate alla fine del campionato e la Juventus era all’inseguimento della Roma capolista, ma l’Inter di Marchesi decise di sfoderare una partita sfacciata e spettacolare. Prima Altobelli da 30 metri, poi Oriali appena dentro l’area andarono a spolverare lo stesso incrocio dei pali per un uno-due che avrebbe tramortito chiunque. Ma Platini rimise in partita una Juve che sembrò crollare di nuovo a inizio ripresa: botta di esterno sinistro di Muller e gol da cineteca. Ma la Juve non era in vena di mollare e Platini di testa riportò sotto i bianconeri. Sarebbe toccato a Bettega segnare da opportunista d’area il gol del definitivo pareggio. Una partita che finì per risultare un’esibizione, splendida ma inutile. Poco prima del suo inizio, infatti, i soliti cialtroni criminali che infettano le tifoserie, pensarono bene di gettare due mattoni contro il pullman dell’Inter diretto allo stadio. Vetro sfondato e ferita alla testa per Giampiero Marini , ricoverato in ospedale e inabile al match. Il Giudice sportivo non potè far altro che assegnare lo 0-2 a tavolino. Ma anche questo in fondo è Yin e Yang: la bellezza, l’estetica ai massimi livelli, infangata dal becerume dell’idiozia umana, dal nulla che certe miserie vomitano sul mondo. Forse è per questo che bisogna lasciarsi salvare dal neoclassicismo, quello delle forme gentili e armoniche di due campioni che non finiremo mai di rimpiangere: Giacinto Facchetti e Gaetano Scirea. Voce quasi timida, modi educati e formali, eleganza nei tratti e nell’anima. Hanno vinto tanto, non hanno mai ceduto alla tentazione della supponenza. E ovviamente anche loro hanno scritto molte pagine del derby d’Italia. Nessuno dei due, per ruolo e attitudini, ha segnato montagne di gol, ma entrambi hanno scritto il loro nome nell’album dei ricordi. Facchetti si prese il lusso di rifilare alla Juve addirittura una doppietta: nel maggio del 1966 a San Siro l’Inter riceve la Juve a 3 giornate dalla fine. Il Bologna è dietro di soli 3 punti e il derby d’Italia può diventare decisivo. Lo sarà. Giacinto ci mette 15’ a costruire la sua giornata storica cucendo un pezzo di scudetto sulla maglia nerazzurra, prima agganciando un cross per poi scagliare di sinistro la palla alle spalle di Anzolin, poi catapultandosi in avanti sulla punizione di Corso per il tap-in vincente. Finirà 3-1, pura felicità nerazzurra. Gaetano segnò un gol pesante nel novembre del 1980, annata in cui la Juve avrebbe festeggiato lo scudetto. All’ottava giornata arriva l’Inter a Torino e lui, il capitano, decide che non sempre il fato è immutabile. Il tiro di Brady è devastante ma colpisce la traversa e sbatte a terra, allora arriva lui di testa ad anticipare il portiere, ma il suo tocco finisce ancora sul palo e solo quando la palla danza ironica sulla linea davanti ai suoi piedi Scirea riesce a spingerla dentro malgrado l’intervento disperato di Baresi. Sarà il gol vittoria. Loro sono la vittoria, sempre. Giacinto e Gaetano, arte apollinea prestata al calcio. Nei tempi più recenti però Yin e Yang sembrano convergere, fondersi con più naturalezza, attraversando l’Oceano e portando nel bagaglio di questo romanzo infinito la poesia argentina. Borges ne scrisse una, tra le altre, intitolata 'Il tempo': “il tempo è un fiume che mi trascina, ma sono io quel fiume; è una tigre che mi divora, ma sono io quella tigre; è un fuoco che mi consuma, ma sono io quel fuoco; il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges”. Ecco, basta sostituire il nome dell’autore alla fine con quello dei tanti argentini che hanno portato garra e classe al derby d’Italia per capire. Qui ne sceglieremo solo due, il cui cammino è stato breve in bianconerazzurro, ma i cui momenti resteranno eterni, visto che il tempo, in fondo, non esiste. Milito e Higuain, il Re del Triplete e il Pipita di uno scudetto che sembrava perso. Diego fu l’artefice nel 2012 della rimonta nerazzurra più entusiasmante a Torino, con una doppietta che cancellò lo 0-1 iniziale. Due rintocchi sulla prima sconfitta della Juventus nel suo nuovo stadio al cospetto di Antonio Conte . Gonzalo fu l’artefice di un gol che di fatto chiuse il campionato, quello del 3-2 segnato a Milano all’89’ nell’aprile 2018, trasformando in oro l’assist di Dybala e calando un macigno nello stomaco dell’Inter di Spalletti, ma anche di un Napoli che, in albergo, sentì di aver perso il duello scudetto. D’altra parte quello di Borges è realismo magico, fusione di sogno e pragmatismo, di universi distanti e coincidenti. Sarà per questo che la sua arte visionaria si attaglia perfettamente agli argentini che hanno scritto pezzi di storia calcistica in Italia, da Zanetti a Tevez, da Cruz a Dybala. E così la sublimazione della conversione degli opposti non poteva che ricomparire in questo Inter-Juventus: una sfida tra Motta, esponente di quell’Inter mourinhana che operò il ribaltamento delle prospettive relegando la Juve al ruolo di comprimaria, e Inzaghi, il cui fratello giocò nella Juve segnando e vincendo contro l’Inter. Ecco, forse 'fratello' è la parola più desueta e rivoluzionaria nel contesto di una sfida che evoca da sempre accese rivalità. Ma stavolta due fratelli ci saranno davvero sulle opposte barricate: Marcus e Khephren Thuram. Per ricordare a tutti che sfidarsi è sano, vincere è bello, ma che nella vita sono altri gli abbracci più importanti. Lo Yin e lo Yang, l’incarnazione degli opposti che si riconoscono reciprocamente come l’altro da sé, ma destinati a una fusione permanente. E chissà che Totò Schillaci, ovunque sia adesso, non si sieda comodo, non indossi la maglia bianconerazzurra e non si goda lo spettacolo. C’è il derby d’Italia, ma in fondo è lui il “fratello d’Italia”.

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