Baroni, l'uomo che non c'era

Un giorno, un giovedì di Coppa, con la solita disponibilità, acquietando le emozioni di una partita appena finita Marco Baroni la ridusse così: si gioca su un pallone. Raggrumò in questo slogan la strategia della Lazio, che da settimane stava mostrandosi piena di tiri, di corse, di gol, di recuperi. In breve: di fatti. Tutto questo darsi da fare comincia lì: giocando su un pallone, “può essere quello decisivo ma non lo sai, e non puoi saperlo se non lo giochi come se fosse l’ultimo, il più importante”. Può essere davvero semplice e al tempo stesso significativo, come lo sono le cose fatte bene, le persone perbene: in campo, sembra tutto importante, la squadra dà importanza a ogni cosa, forse è questa l’estensione al racconto di come l’ha detta spiccia Baroni, il 61enne fiorentino che raccoglie oggi attenzioni e complimenti con la serenità di chi pare non averli mai cercati, e accetta l’ennesima dissociazione della critica, guardinga con la sua nomina sulla panchina della Lazio, oggi invece esaltata dalle 15 vittorie stagionali ma sicuramente già preparata a tornare agli umori opposti, se i risultati dovessero virare. Però Baroni queste cose le sa, calciatore per due decenni, e ormai alle nozze d’argento con la panchina: cominciò con il nuovo millennio, passando direttamente dal campo alla panchina nella Rondinella, la squadra di San Frediano, di là d’Arno, dove il millantatore Bob di Pratolini imbrogliava la storia e confondeva le ragazze del quartiere. Siamo a Firenze, dove Baroni è nato per tutti i versi: come essere umano, come calciatore, come allenatore. Eppure, fra Firenze e Roma è stato un continuo viaggiare e ricominciare: 12 squadre da difensore e 17 da tecnico . Non c’è da raccontare niente a Baroni, che pure è stato vissuto come il parvenu della stagione, solo perché in questo paese ereditare è più sensuale che presentarsi con una biografia corposa e mossa, ricca di tutto e anche di esoneri, dunque sospetta. Invece è da quel ricominciare perpetuo, anche tornado spesso ad allenare le selezioni giovanili, che Baroni s’è costruito, evoluto, messo in discussione, alimentato dal dubbio. E oggi ci sta bene, ci sta giusto nel senso etico, consapevole di tutto, anche di una carriera quasi mai profetica e in crescita nell’ultimo giro: come risultati, come proposta di calcio. O forse siamo noi a essere più attenti: lui, di sicuro, non sposta il riflettore addosso, non illumina e non confeziona con le parole quello che fa. Ma l’ultima risposta è rimasta, appuntata : si gioca su un pallone, se volete sapere qual è il segreto. Ci giochiamo tutto su quel pallone che adesso passa, è conteso: questa è la mentalità che voglio. Se sollecitato, spiega bene, spiega tutto: è pur sempre toscano, di parlare ha certamente voglia. Curiosamente, oggi è l’unico ad allenare in Serie A di una regione che due anni fa - per qualche mese - era seduta su quasi il 40% delle panchine . È toscano come chi scrive, e qui scivoliamo sul proibito dalla professione, mischiandoci al protagonista: s’è scritto che finì di giocare e cominciò ad allenare nella stessa città e con la stessa squadra, la Rondinella dell’allora presidente e proprietario Enzo Forzieri, recentemente scomparso. Fu quello l’anno in cui cominciammo a imbrattare la carta, seguendo un sogno fanciullo che ci parve una vocazione. Il quotidiano che accolse questa ambizione era il Corriere di Firenze del gruppo Donati, l’orizzonte era emulare qualche mito mai avvicinato - raccontando lo sport - e magari scrivere per la squadra del cuore . Ci riuscimmo, dopo anni, in un altro quotidiano . Intanto era cronaca nera, cronaca sindacale, appostamenti negli ospedali, insomma la gavetta di tutti. Poi, per colmare un’assenza di un collega, la chiamata a sorpresa: Buccia, ce la fai la Rondinella domenica? Il centravanti era Ciccio Tavano, l’allenatore era appunto Baroni, io ricordo ogni secondo di quella prima giornata da cronista di calcio, lui certamente niente . Chiusa la parentesi vanitosa , torniamo all’elenco dei colleghi: il nostro è toscano come Guido Pagliuca, che recentemente abbiamo incontrato, incuriositi da una promozione sensazionale e dal chiacchiericcio a cui bisogna tendere l’orecchio, quando sussurra di uomini ricchi: di idee, di aneddoti, di irrequietudini, di vittorie geniali e mai illuminate. Andammo sotto al vulcano a incontrare Pagliuca, livornese di Cecina, e quando l’intervista stava virando sui rimpianti, uscì il nome di Baroni: “Sarei incosciente se non avessi qualcosa da rimproverarmi, se non avessi rimpianti. Ma ne avrei molti di più se non avessi lavorato con Marco Baroni a Cremona”. E Pagliuca si accorse che quel nome ci aveva disorientato, quell’accostamento, il mare calmo e il mare ondoso, come era accaduto che fossero insieme, quasi a cercare una virtù nella mediazione. E soprattutto come diventò decisiva una stagione così deludente per risultati? “Facendo il suo assistente - ci rispose - mi sono sentito un allenatore. Riuscendo a condividere, vivendo la sua calma come forza, come modo di arrivare meglio ai calciatori. Da solo non ce l’avrei fatta. Fu Baroni a darmi il consiglio decisivo, schietto: fatti aiutare. Sono stato umile. Mi feci affiancare da uno psicologo dello sport, mi chiese: vuoi fare l’allenatore?”. Grazie al rapporto umano, così onesto e franco, da quell’insuccesso sportivo crebbero due fortune professionali. È una svolta da film di Capra, è una suggestione. Siamo di quella schiatta che ci cade in pieno in questi tranelli, in queste cotte: e peschiamo nella biografia di Baroni segnali messianici. Scherziamo un po’, esaltiamoci il giusto: in panchina vanno uomini stressati dall’opposto, da giudizi continui, spesso insolenti, a volte incompetenti, a volte disonesti. In più, le prossime partite della Lazio sono difficili, anzi le più difficili possibili: Inter, Atalanta, Roma . Di questa mesata che doveva sgonfiare questo capolavoro, per ora è passato il Napoli, anzi due Napoli, quello sperimentale battuto in Coppa Italia e quello capoclassifica battuto in Campionato. Torniamo a quel pallone. Giocarsi un pallone alla volta, e giocarseli tutti è il desiderio di ogni allenatore, niente di geniale o divinatorio. Vedere una squadra compattata dalla volontà condivisa di cercare, lottare, conquistare quel pallone, in ogni singolo momento, e ‘giocarlo’ in attacco, portarlo avanti come se fosse ‘quello decisivo’, e non lo sarà quasi mai, ma la volontà trasforma le statistiche e le biografie, ecco, questo arrivarci insieme è la distanza fra il desiderio e la capacità di entrare negli atleti, convincerli, riuscire. E dopo conta il come viene fatto: come viene ‘giocato’ quel pallone. Come quel pallone diventa calcio: un’idea d’insieme, un fare insieme qualcosa, secondo esercitazione, visione, scopo. E la Lazio piace per come attacca, per quanto spinge, per come accetta un difetto di gestione e lo trasforma in una virtù: attaccare. Un messaggio chiaro perché è l’idea strutturale, basilare: giocano quattro attaccanti, Zaccagni e Isaksen sui lati e Dia e Castellanos nel corridoio centrale. Il settimo è Noslin, che è stato attardato da un infortunio, è arrivato e sembra essere nel gruppo da sempre, dalla nascita. Ecco, sembrano nati insieme da quanto stanno bene insieme. Sembrano tutti avere un compito e nessun limite, in questo ricordano le squadre più appaganti del momento . Nel mezzo, questo ardore è collegato dai perpetui Rovella e Guendouzi e dal sostegno e dal mestiere comprovato di Vecino e sta entrando nel senso comune anche quel Dele Bashiru che pare avere cilindri adatti a questo motore. Ma tutti sentono la partita secondo la musica: i terzini sono a vocazione di spinta estrema , e i difensori sembrano surdeterminati, a caccia del pallone da rigiocare per ripartire e scatenare queste gambe veloci. Bisogna stare bene insieme per rischiarsela così, bisogna elevare l’associazione in solidarietà perché ci sarà un po’ di campo scoperto da riparare. Nonostante sia piuttosto scontato quando le cose vanno benissimo, colpisce la felicità dei giocatori, negli atteggiamenti e nelle dichiarazioni. Pedro, che qualcosa indietro ha fatto da non doversi troppo impressionare per un terzo posto provvisorio, ha usato una frase - “mi diverto a giocare questo calcio moderno” - che va al di là dei connotati, degli schemi e delle rendite di posizione: moderno, termine da riempire a volte di significato, non spiega da solo. La Lazio sembra invece riuscita a dare un senso, un significato, una traiettoria a questa parola. L’ha spiegata - in queste poche partite - correndo, bene, meglio in avanti che indietro. “A loro dico: possiamo difenderci solo attaccando”, questo è ancora Baroni, qui attratto dall’oracolo. Si gioca su un pallone, dunque, e su tutto il campo, questa possiamo aggiungere da spettatori appagati, sapendo che tutto nel calcio dura troppo poco, turbato dalla violenza dei risultati e degli umori. Questa considerazione non ci ha mai abbassato la quota, anzi: proprio perché le cose passano, anche quelle belle così come passa il tempo, è onesto testimoniarle quando appaiono, raccontarle per le emozioni che provocano . Prima che il tempo le cancelli, sperando che non accada, come è successo lo scorso anno a Verona, il capolavoro di Baroni, quel tredicesimo posto fabbricato perdendo titolari a fastelli, l’ultimo motivo per cui oggi è alla Lazio. Non il più importante.

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