Alessandro Gaucci: "Noi precursori, così abbiamo inventato un calciomercato"

Ogni gennaio fare il calciomercato è quasi un terno al Lotto. Ci vuole tanta fantasia per trovare le soluzioni nell’immediato o per programmare il futuro. Alessandro Gaucci ne parla quasi come un’arte, ma non solo perché ricorda quello che ha fatto con il Perugia. Di quello si rimanda anche a ‘Quando passa l’uragano’, in onda su Sky On Demand: la storia di una famiglia che ha fatto tornare il grande calcio in Umbria, tra altissimi e qualche basso. Da quando è giovanissimo, Alessandro il mercato ha sempre voluto viverlo, creando un modo di lavorare che ora è stato solo affinato, non stravolto: cercare, cercare sempre e ovunque. Ecco, questo è Gaucci, che continua a cercare talenti anche da presidente del Marbella, la società che in qualche modo lo ha adottato. Numero spagnolo, dà l’impressione di parlare con un vecchio amico: “È sempre bello parlare di quello che mi piace”. Ma lei lo sa in qualche modo di aver fatto scuola? "Parlano sempre del Perugia e di quell’esperienza incredibile che abbiamo vissuto con la mia famiglia. Tra luci e ombre, anche molto dolorose. Diciamo questo: ci siamo dovuti inventare un metodo per arrivare a un risultato che, a mio avviso, è stato straordinario. L’obiettivo era risparmiare non solo in termini economici, ma anche il tempo. Per poter investire nel migliore dei modi". Risparmiare tempo… come? "Adesso esistono WyScout o tante piattaforme. Adesso ci sono gli algoritmi. Ai tempi no: o si viaggiava, o si guardavano le videocassette. Vi svelo un piccolo retroscena: con un mio amico quando ero al Perugia avevamo pensato di creare un servizio di videoregistrazioni delle partite, per renderle fruibili agli addetti ai lavori. Di fatto, una piattaforma su VHS. Il progetto non andò avanti, ma adesso di fatto si lavora così. I pro sono tanti: allo stadio vedi da una sola prospettiva; con le telecamere ne hai molte di più. Si rende una panoramica quasi a 360° della disposizione in campo, non solo delle qualità tecniche del giocatore. Cosa manca? La percezione della temperatura. Non parlo di tifo che comunque può condizionare: parlo proprio di temperatura atmosferica. Se fa troppo caldo, i ritmi sono più lenti e la prestazione viene condizionata. E magari quel giocatore che stai osservando non si rende davvero protagonista". In inverno fa freddo: i ritmi sono più alti e anche i costi. Come si anticipa il mercato? "È difficile. Ai tempi del Perugia la finestra si apriva e chiudeva a novembre, ma il risultato bene o male era lo stesso: rischiavi di spendere troppo se non avevi il colpo di genio. E anche un po’ di fortuna". A cosa si riferisce? "A diverse occasioni. Ma forse quella che ricordo meglio fu nell’inverno della stagione 96/97, in Serie A. Era stato esonerato Galeone per Scala, che aveva bisogno di un difensore centrale mancino. Non avevamo molti soldi e quel tipo di giocatore non è mai stato facile da trovare. Poi mi venne in mente che avevamo dato in prestito in C al Carpi un nostro giovane: lo allenava De Canio e stava facendo il terzino sinistro. Aveva già fatto 7 gol ma secondo tutti poteva giocare anche al centro: in estate lo avevamo ceduto perché per Galeone proprio non era pronto. Tornò e fece bene. Benissimo. Era Materazzi. Ma quell’inverno per me fu anche motivo di grandi rimpianti". Perché? "Non è soltanto perché poi saremmo retrocessi. Ma per un’occasione mancata. Quello stesso anno prendemmo dal Brasile Müller, l’attaccante che qualche anno prima era stato anche nel Torino. Era tornato in Brasile, aveva vinto con il San Paolo. Con il club provammo a prendere anche Denilson, il terzino sinistro: era quasi tutto fatto ma poi irruppe il Betis e ce lo soffiò. Era fortissimo, infatti fece la storia del club". In Serie A però il Perugia non è ricordato per aver acquistato grandi nomi, ma grandi scommesse. "Sì, avevamo abbandonato quella strategia dopo i primi anni. Nel ‘91 per esempio acquistammo Dossena: arrivò proprio a novembre, dopo aver vinto di tutto. Eravamo in Serie C, ci serviva un giocatore che desse esperienza nello spogliatoio ed entusiasmo sugli spalti: ci chiese 650 milioni di lire all’anno, per tre anni. Accettammo. E facemmo così gli anni dopo anche con Gelsi, Pagano , Camploni o Braglia. Ci servivano dei giocatori forti e pronti per salire: era l’obiettivo di tutti la Serie A". Che quando è arrivata vi ha portati a spiazzare tutti. Come vi sono venute le intuizioni Nakata o Rapajic, per dirne giusto qualcuno? "Allora, io lavoravo secondo un calcolo delle probabilità: non era possibile, secondo me, che i giocatori forti e sconosciuti fossero solo nei campionati minori in Europa o in Sudamerica. Bisognava cercare, cercare e cercare. E quindi ci siamo inventati un mercato. La trattativa per Nakata fu la più difficile della mia vita: ci ho messo 5 mesi per chiuderla. Era iniziata in inverno ma si concluse in estate. Lui era il giocatore più importante del Giappone, e in generale nessun giocatore giapponese era abituato a trasferirsi fuori dai confini. Aveva solo agenti donne estremamente professionali, ma non era facile mettere d’accordo tutti. C’era anche il problema linguistico: dovevamo farci capire in inglese. Poi in Giappone lui era già lo sportivo più ricco di tutti: percepiva sponsor importanti oltre all’ingaggio. L’idea di venire in Italia gli piaceva, ma il suo club, l’Hiratsuka, chiedeva 3,5 milioni di dollari, che per noi erano una cifra davvero importante. Riuscii a strappare un piccolo sconto, arrivando a 3,3 milioni. Ma che fu un affare anche mediatico venne dimostrato da un dato auditel: il giorno della presentazione, si misero davanti alla televisione quasi 80 milioni di giapponesi. Non avevamo solo inventato un mercato, ma ne avevamo creato uno. Solo che non tutti l’avevano capito all’inizio". In che senso? "So che in molti hanno visto il documentario sulla mia famiglia, ma non mi riferisco a quello. Adesso quel Perugia viene ricordato con affetto e le nostre intuizioni sono state celebrate. Ma all’inizio fu dura: una volta la mia macchina venne incendiata, volevano che ce ne andassimo. Per l’anno del debutto in A, ci presentammo con 6 giocatori che venivano direttamente dalla C1, o con tanti stranieri. Mi ricordo che nel ‘98 acquistammo dall’eccellenza Cristian Bucchi per farlo giocare subito nella massima serie: ci mise 6’ per segnare la sua prima rete, ed era contro la Lazio. Le nostre scelte non sempre si capivano, ma bisognava crederci. Anche con un po’ di testardaggine". Dopo Perugia non ha smesso di lavorare nel calcio. Nel 2007 per esempio ha lavorato con Preziosi al Genoa. Un altro non proprio facile da gestire, ma che ha avuto intuizioni importanti. "Di una sono particolarmente orgoglioso, perché mi riguarda. E anche quella fu invernale. Eravamo in Serie B e con Gasperini puntavamo alla promozione. Ma serviva un po’ di qualità in attacco: l’allenatore voleva un esterno, ma io mi ero fissato di più con una seconda punta che faceva anche il trequartista. Era Leon della Reggina, che in quel momento stava facendo benissimo con Mazzarri, in quell’anno della famosa salvezza arrivata nonostante i punti di penalizzazione. ‘Chi possiamo prendere?’, continuava a chiedermi Preziosi. Io rispondevo solo con un nome: ‘Leon’. A furia di dirglielo, un giorno il presidente mi disse: ‘Mi hai rotto il cazzo con sto Leon! Quanto costa?!’. La risposta era: ‘Tanto, ma sono convinto che ci potrà far fare il salto’. Preziosi portò avanti una trattativa molto lunga con Foti, ma alla fine con un grande sforzo lo acquistò. Giocò la prima partita il 29 gennaio 2007 contro il Napoli: entrò nel secondo tempo con la squadra in svantaggio, decise di battere una punizione da 25 metri facendo un gol incredibile. Preziosi non mi disse nulla …" E Gasperini? "Nemmeno. Aveva anche lui qualche dubbio soprattutto per il ruolo. Ma la storia ha dimostrato di quanto Gian Piero sia in grado di trasformare i giocatori. Io penso che al momento sia l’allenatore più forte d’Europa, se non del mondo intero. Come tutti, ha i suoi difetti: non è sempre semplice lavorarci insieme, ha le sue idee e le porta avanti con grande convinzione. Ma capisce le qualità dei giocatori e sa metterli nel posto giusto. In questi anni ho notato la sua evoluzione, che è stata impressionante: al Genoa era un po’ fissato con il modulo, ora l’ha cambiato. Un giocatore come Gomez, che era un trequartista, non avrebbe mai fatto l’esterno nel Genoa, per dire. Il fatto è che fa rendere la squadra tre volte in più rispetto agli altri allenatori e ha capito che con i giocatori di gamba, che sanno abbinare anche la giusta qualità, allora riesci a vincere". Va bene Leon, vanno bene le intuizioni esotiche. Ma il giocatore più forte che è riuscito a portare in Europa chi è stato? "Dal 2008 al 2016 ho lavorato come intermediario e consulente di mercato. Ho viaggiato tantissimo, sopratutto in Sudamerica. Credo che Wilmar Barrios sia stato il trasferimento più importante. È colombiano, centrocampista, gioca nello Zenit che nel gennaio 2019 lo pagò 15 milioni dal Boca Juniors. Ci ho messo un bel po’ a farlo venire, ma ora è tra i più importanti che hanno in rosa e qualche anno fa per cederlo il club chiese oltre 55 milioni di euro. Impressionante". E i nuovi Barrios? "Da presidente del Marbella non riuscirei a comprarli, ma ci sono due giocatori di cui sono innamorato: Valentin Gomez, centrale e terzino classe 2003 del Velez, e Julian Ceballos esterno d’attacco del Boca di vent’anni. Sono talenti purissimi e giocano in un campionato che mi è rimasto nel cuore. Sarebbero ottime occasioni di mercato invernali, magari bloccandole per giugno. Come facevamo un tempo noi. Non sempre, ma a volte funziona..."

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Valentino Della Casa