Il crollo di un campione

Alla fine, si è commosso anche Michele. Nel corso di tutte le riprese veniva quasi naturale cercare un’emozione oltre lo sguardo rigido, i denti stretti in una resistenza che è diventata la sua condizione di vita per 17 anni. Solo qualche sospiro, subito richiamato all’ordine, è quanto si è concesso nell’ex carcere di Acqui Terme, dove è stata girata l’intervista. Troppa è stata la sofferenza interiorizzata, troppo forte lo shock di una sera di maggio del 2006, in cui la pagina si è strappata, la violenza di un arresto ha fatto irruzione proprio all’incrocio simbolo della sua vita. E poi, i 10 giorni in isolamento, senza sapere perché. Sentirsi innocenti e finire chiusi in pochi metri quadrati bui, a far flessioni “per non impazzire”, a leggere le carte di un’inchiesta che lo vedeva accusato di finanziare un traffico internazionale di droga. Dopo tre mesi e mezzo di carcere, un primo contatto con la famiglia che sembrava non arrivare mai, la dolcezza del figlio Denis, allora tredicenne da guardare oltre il vetro, così struggente da spingere a infrangere le regole, questa volta sì, per un abbraccio irrinunciabile. Denis porta il nome di 'Berga', il grande amico di Michele, compagno di squadra a Cosenza, ucciso il 18 novembre del 1989. Le loro storie si intrecciano incredibilmente, fin da quando Padovano vide il suo compagno di stanza molto turbato in seguito a una telefonata, poche ore prima che Denis, lasciando forzatamente il ritiro, andasse inconsapevolmente incontro alla morte. Mentre era in carcere, Padovano lesse su un giornale che la sera, in una nota trasmissione, si sarebbe parlato del caso Bergamini. Per nulla se lo saprebbe perso e proprio in quel servizio, si sentì accusare della morte dell’amico, di averlo introdotto all’epoca in affari loschi. Tesi sostenuta anche poi in corso di processo dalla difesa dell’ex fidanzata Isabella Internò, per dimostrare che per liberarsi di una situazione insostenibile, Denis si suicidò. Ipotesi, quella del suicidio, che ha retto per 35 anni. Il 1 ottobre 2024, la Corte d’Assise di Cosenza ha condannato Isabella Internò a 16 anni di reclusione per concorso in omicidio volontario. E quel giorno Michele, già libero, era in aula ad ascoltare la sentenza e a salutare l’amico, anche lui finalmente “libero di volare”. C’è tanta umanità nella prima parte del docu-film su Michele Padovano, ci sono le mille sfumature che emergono dalle parole della moglie Adriana, il dolore e il sorriso, la forza di chi ha saputo sostenere Michele sempre, anche quando da indagata semplicemente voleva esserci, all’esterno del carcere di Cuneo, per “respirare la stessa aria” del marito. Fin da quando gli eventi hanno rivoluzionato la loro esistenza, ha protetto Denis ricorrendo a tutti i principi che già in passato l’avevano portata a preferire la realtà al lusso, i sentimenti alle luci che avevano accompagnato la carriera calcistica di Padovano, sperando che finisse presto, per avere Michele con sé. Lei sempre al fianco, fin da ragazzini. In auto verso Cosenza, dove ad attendere Michele c’era l’inizio di un’avventura affascinante e ignota. Poi a Napoli, dove lo aveva voluto Maradona. Consapevole che, per dirla come Michele, “prima o poi anche lui sarebbe maturato”, che gli errori di gioventù si fanno e si possono perdonare. Non tutti riescono. Lei sì. Perché la fiducia in lui non è mai mancata, nemmeno per un attimo ha vacillato. Sapeva che “Michele è una persona per bene, che non aveva fatto nulla”. E conosceva anche Luca Mosole, l’amico d’infanzia, che aveva percorso fin da piccolo un’altra strada, oltre i confini della giustizia. Era lui, secondo gli inquirenti, a capo dell’associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Le ricorrenti telefonate all’amico Michele, prima e dopo i viaggi per traffici illeciti, hanno messo nei guai Padovano. Nella seconda parte del documentario, si scoprirà fino a che punto e come, dopo il crollo, i suoi avvocati lo hanno riportato all’assoluzione. Intanto quel che emerge, è il senso di amicizia di Michele, che forse è stato un po’ ingenuo, lo ammette lui stesso, ma che mai rimpiangerà quello che ha fatto, perché in sostanza, non ha commesso reati, ha solo prestato del denaro a Mosole per l’acquisto di un cavallo, ha mantenuto fede a un legame che tutt’ora non rinnega affatto. E se è difficile da capire per molti, questa è l’amicizia per lui. Anche dopo tutto quanto accaduto. Per questo Michele Padovano ha invitato i ragazzi dell’Istituto Albe Steiner di Torino, presenti alla prima al Cinema Massimo e in genere tutti, giovani e non, a “non giudicare, non puntare il dito contro, non fidarsi delle apparenze”. C’erano oltre 200 persone in quella sala, anche alcuni avvocati noti per cinismo che si sono commossi. C’erano le persone che sono sempre state vicine a Michele, mentre in troppi lo hanno abbandonato. E c’erano anche ragazzi che probabilmente non ricordavano la storia juventina di Padovano, raccontata da Alessandro Del Piero, Antonio Conte, Ciro Ferrara, Luciano Moggi. Proprio sul rigore calciato in finale contro l’Ajax nel ‘96 si chiude il primo capitolo. Michele Padovano ha rivisto la sua storia raccontata, questa volta non in una saletta di montaggio, dove già in qualche momento aveva avuto dei piccoli cedimenti, ma lì, in mezzo a tanti, con la madre vicino, mentre il papà non c’è più. E nell’ascoltare la voce di Adriana e di Denis, il suo tormento “di ragazzino ferito nel corpo ormai di un uomo”, ha ceduto. Alla fine, ha pianto anche lui.

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Il crollo di un campione

Silvia Vallini