Roma, come l'umanità di Ranieri ha rigenerato Lorenzo Pellegrini

C’è soprattutto una qualità, nel novero delle tante che un allenatore deve possedere per fare al meglio il proprio mestiere, che accomuna tutti i più grandi professionisti della panchina. E che Ranieri, dall’alto della sua infinita esperienza pallonara ma soprattutto della sua caratura personale, possiede in dote massiccia e determinante. Quella che, sin troppo facile capirlo, gli ha consentito di raccogliere amore e consensi ovunque sia andato, di diventare l’uomo simbolo di una regione intera e, spesso e volentieri, restia a interferenze esterne, di ergersi a eroe di una città tanto fredda quanto distante dalle sponde roventi di passione del suo luogo natio. E che, al termine di un derby giocato e vinto grazie a un’encomiabile lucidità tattica, una feroce determinazione agonistica e al solito trasporto emotivo, gli ha permesso di fare la cosa giusta nel momento giusto. Lasciare ai propri giocatori l’impulso immediato dell’esultanza sfrenata, muoversi in direzione opposta, quella del nemico appena battuto, e porgergli a suo modo le scuse per l’unico aspetto che, di certo non per colpa sua, non era riuscito a contenere e controllare. Occhi negli occhi con Baroni, gli ha prima stretto la mano e poi gli ha chiesto scusa, dicendosi dispiaciuto, per la brutta scena del finale, quella rissa tra panchine scatenata dal calcio di Castellanos a Hummels e da un nervosismo latente che, piano piano e come spesso accade nel derby capitale, è montato con l’andare dell’agone. Non c’entrava nulla sor Claudio, ma si sentiva in qualche modo responsabile e la sua prima premura è stata quella di scusarsi, ridefinire le priorità, ristabilire le buone norme di condotta, a conferma di un’invidiabile e spiccata sensibilità. Della sua irrimediabile, inequivocabile, incontrovertibile, profondità umana. Claudio Ranieri ha dimostrato ancora una volta di avere la capacità di proiettare il suo sguardo e la sua comprensione oltre il confine umano dei sensi e dell’intelletto. Di possedere il super potere che solo gli uomini eccezionali sanno dominare, quello di riuscire a scrutare il futuro, percepire gli umori, e saper leggere tra le righe dei comportamenti. Capire l'animo delle persone che lo circondano e saper dispensare a ognuno, e con disarmante sicurezza, i migliori rimedi per ricondurli sulla giusta via. Di, molto semplicemente, saper rimettere le cose al proprio posto. E se, qualche anno fa e con un malizioso accentro francese, un altro allenatore giallorosso disse, proprio dopo un derby vinto, di aver rimesso la chiesa al centro del villaggio, lui, in questi due caldi mesi di passione giallorossa, e già prima del suo quinto derby vinto , è riuscito a fare ancora meglio: rimettere la Roma al centro di Trigoria. Con pazienza, duro lavoro e quelle stesse qualità che hanno piegato in una sera di inizio gennaio la squadra rivelazione del campionato. Proprio come avevamo pronosticato sempre in queste pagine, forse con un pizzico di presunzione, in questi due mesi Ranieri ha preso per mano gli smarriti tifosi giallorossi, esattamente come qualche anno fa aveva scortato il piccolo Orlando, suo nipote, alla scoperta del mondo romanista racchiuso nel tempio di Trigoria. Li ha rassicurati, ha trovato per ognuno il punto di leva attraverso il quale risollevare il proprio universo, li ha rigenerati e definitivamente recuperati. Non solo, ma soprattutto con la sua incontrovertibile cifra di umanità. E quale figlio principale di Roma, anzi a questo punto nipote, lo ha fatto soprattutto col suo capitano, l’uomo più esposto ai venti scostanti di una passione che restituisce molto ma altrettanto toglie, al ragazzo che più di tutti aveva smarrito strada e certezze e che, proprio come in occasione della sua primissima epifania giallorossa, nella serata più attesa di un intero campionato è rinato forse ancora più forte di prima. Erano le 15.45 del 29 settembre del 2018 quando, appena 8 minuti dopo essere entrato in campo per il Flaco Pastore, Lorenzo Pellegrini decise di irrompere con tutto il suo talentuoso fragore nell’universo dell’As Roma. Un colpo di tacco per stappare il derby e lanciare la sua candidatura di trequartista titolare e futuro capitano della squadra del suo cuore. Inizialmente tenuto in panchina da Di Francesco, sfruttò un’incomprensione della difesa laziale per infilare, sguardo simbolicamente rivolto verso la Sud, la porta lasciata sguarnita da un’uscita a vuoto di Strakosha. Ebbene, 7 anni e mezzo dopo, sempre in un derby, sempre in un primo tempo giocato sotto la Nord, ha deciso che il momento più complicato della sua carriera dovesse terminare nella maniera più dolce e roboante. Non più di tacco, ma con uno dei suoi colpi, il tiro a giro, ha spaccato il sette difeso da Provedel e restituito alla sua squadra e ai suoi amati tifosi il proprio capitano gagliardo e orgoglioso. È stato proprio Pellegrini a volerlo fortemente, come lo stesso Ranieri ha confidato al termine della partita. Senza chiederglielo, mai si sarebbe permesso, ma semplicemente facendo capire al nonno/padre/amico del quali tutti a Roma avevano bisogno che il suo momento stava per arrivare. Che era giusto dargli una nuova possibilità. Dopo una prova incolore nel freddo catino di San Siro e il peso di un gol mancato nel finale che poteva regalare la prima vittoria esterna della stagione, ha parlato in maniera schietta al suo allenatore, restituendogli tutte le attenzioni, la premura e la sensibilità che lo stesso Ranieri gli aveva dedicato negli ultimi due mesi. E lui, sor Claudio da Testaccio, che a capire gli uomini, figuriamoci quelli con la sua stessa passione, ci mette veramente poco, non ha dovuto far altro che ascoltare le parole del suo capitano per comprendere che era arrivato il momento di rimetterlo in campo dall’inizio. Proprio come, sempre da quel campo, l’aveva tenuto lontano per 5 partite consecutive. È così che l’ha guarito ed è così che ha rigenerato la Roma: proteggendolo, isolandolo, concedendogli il tempo necessario per recuperare forza e convinzioni morali, per costruirsi una corazza che potesse ricacciare all’indietro i fischi dei suoi tifosi, figli a dir la verità più dell’amore che dell’odio. Permettergli di riconsiderare il valore di un ruolo, quello di capitano romano e romanista, che nella città del biondo Tevere è forse il più complicato da interpretare e gestire. E l’ha rimesso dentro, molto semplicemente, come altrettanto semplicemente, in un altro derby che stava per segnare la pagina più clamorosa della sua storia , aveva invece tolto la Roma dal campo, escludendo all’intervallo di una sfida chiave per continuare a inseguire il sogno scudetto, il padre, il figlio e lo spirito santo del romanismo più vero e autentico degli ultimi 30 anni, Totti e De Rossi ovviamente. Non c’è mai una sola via per arrivare a dama, a volte si toglie, a volte si aggiunge, anche se tutte le strade, e quelle di Ranieri ancora di più, alla fine portano sempre e comunque a Roma. Nonno Claudio ci è tornato, ancora una volta, ancora in emergenza, richiamato esclusivamente dal suo amore per quei due colori, per rimettere tutto se stesso, tutta la sua sconfinata e irrimediabile umanità, al servizio di una squadra che, chi la tifa lo sa bene, è molto più di una squadra. Rientrato a Trigoria non ha fatto altro che rimettere tutti i pezzi a posto, i campioni del mondo in campo, i giocatori ognuno nel proprio ruolo, e concentrarsi soprattutto su quel figlio, ops nipote, che più di tutti aveva bisogno di lui. Proprio come Orlando, proprio come ognuno di quei tifosi che, a poche ore dall’arrivo della Befana, hanno ritrovato la propria squadra. Bentornati a casa.

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