Totti, 10 anni fa il selfie sotto la Sud (tra Sordi e Fellini) nel derby di Roma

Più che per il selfie con la boccuccia "a culo di gallina" sotto la Curva Sud, quel gol andrebbe rievocato per la sua esecuzione, irreale: l'armonia della muscolatura, la posa plastica di un moderno Discobolo di Mirone o di uno di quei gladiatori raffigurati nei mosaici che decorano il pavimento della sala di ingresso della Galleria Borghese; o, meglio ancora, per la grazia di un dio: un Apollo in tunica giallorossa in volo sul carro del Sole colto nell'atto di scagliare una freccia avvelenata ai suoi nemici più invisi. Ma se la spaccata a incrociare in assenza di gravità che l'11 gennaio del 2015 contribuì a riscrivere la fisica classica newtoniana passò quasi in secondo piano, fu per la genialità - e un pizzico di 'vanagloria', legittima a 39 anni suonati! - dello stesso artista, esponente maximo della nobile Scuola di Porta Metronia: già, perché Francesco Totti - non sazio, evidentemente, di aver rimesso in piedi da solo un derby da 0-2 a 2-2 diventando il marcatore più prolifico dei Roma-Lazio all time - deciderà di immortalare la scena con un autoritratto degno del Moma. "Un marziano a Roma", per parafrasare il breve racconto di Ennio Flaiano. "Prima della partita - racconterà, non appena sceso sulla terra - avevo dato il mio telefono a Guido Nanni pregandolo di farsi trovare pronto a bordocampo e... il resto è storia". Un selfone da Oscar, photoshoppato in un lampo con l'allegra combriccola hollywoodiana capitanata da Ellen DeGeneres, ma a fantasticare un po' era nel suo destino, dagli albori: il 28 marzo del 1993 Francesco esordiva in Serie A proprio alla vigilia della consegna della Statuetta dorata alla carriera a Federico Fellini, l'uomo che meglio di chiunque altro restituirà lo splendore universale alla magnificenza della Città Eterna, uno che aveva cominciato dirigendo il più romano - e romanista - degli interpreti: lo "Sceicco Bianco" Alberto Sordi. Una sorta di passaggio del testimone tra visionari, accomunati essenzialmente da un tratto distintivo: la capacità di far sognare, al cinema come in un campo di calcio. Con un bagno nella Fontana di Trevi o una bizzarra esultanza all'Olimpico, purché ne valesse il prezzo del biglietto. Ne nascerà una spettacolare giostra iconografica, poco importa se cadenzata dalle note di Venditti anziché da una marcetta di Nino Rota: sarà Papertotti, più internet per Totti, le barzellette di Totti, mo' je faccio er cucchiaio, Totti dagli amici di Maria, mano per la mano con la Ferilli, il ciuccio, Er Pupone. Dipinto nelle caricature più singolari, eccentriche, grottesche, per questo erede naturale di Sordi, che sul grande schermo fu vigile, seduttore, medico, soldato, conte, marchese, un borghese piccolo piccolo, tassinaro, presidente del Borgorosso Football Club e che in un Americano a Roma dei giorni nostri non avrebbe certo esitato a 'spararsi' un selfie con l'indimenticabile piatto di maccheroni del "m'hai provocato e io me te magno". Stereotipi da commedia all'italiana, ma con una verità incontrovertibile: il valore di rimanere fedeli a sé stessi, il segreto del loro successo. Nella sua autobiografia Un Capitano - scritta con Paolo Condò e presentata al Colosseo per il suo 42° compleanno - Totti confessò di aver pensato di smettere già dopo il 3-2 in rimonta sul Torino, quando fu lanciato nella mischia da Luciano Spalletti soltanto agli sgoccioli: "In quei 4 minuti la ribalto con una doppietta, corro sotto alla Sud, la squadra vince, i compagni mi portano in trionfo. Sarebbe stata la conclusione perfetta e il pensiero mi aveva sfiorato, ma si è subito dissolto perché non avrei saputo come muovermi. Avrei dovuto improvvisare, e forse sarebbe stata la scelta migliore perché la gente, di me, ha sempre apprezzato soprattutto la spontaneità". Anche la scena finale della Dolce vita e dell'addio al calcio del fuoriclasse combaciano, è quella di un uomo smarrito: Marcello vaga, stanco dell'ennesima nottata romana, su di una spiaggia; Francesco calpesta un prato verde senza meta. Entrambi hanno una 'visione': c'è una bambina, un angioletto biondo dinanzi a loro, intravedono la salvezza, ma non possono captarne la voce, il frastuono delle onde, quel fiume di lacrime in piena impedisce di afferrarne la mano, di aggrapparsi a uno scoglio. "Non capisco, non si sente!". Nell'attore protagonista del nostro déjà-vu ritroviamo anche la purezza di Titta, il ragazzino che il regista riminese scelse per rappresentare sé stesso nel suo di Amarcord, che poi è quello autentico, il titolo di un capolavoro che diventerà un neologismo diffuso in letteratura: dal dialetto romagnolo "a m'arcord", io mi ricordo, un'immagine carica di sentimenti, figlia della poetica vernacolare di Tonino Guerra, che profuma di nostalgia, che si riferisce a un periodo dell'esistenza impresso indelebilmente nella memoria di chi l'ha vissuta. "Dicono che so' mammone? Non è vero. Ma 'a mamma è sempre 'a mamma". Così parlava il pischello cresciuto sotto le Mura Aureliane alla sua prima apparizione in uno studio televisivo, ospite di Rete Oro, timido ma con la battuta pronta, educato ma con un velo di malizia, disponibile ma geloso della sua ordinarietà. Fijo della Mamma Roma di Anna Magnani e Pasolini, della Lupa e della "Magica": istantanee senza tempo, scolpite per sempre nell'anima di un popolo.

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