Antonio Conte sulle orme del 'Trap'. E dello scudetto

Sembra la Guerra dei mondi, sfida tra due monolitiche dimensioni ideali divise da differenti filosofie calcistiche. Ma a ben guardare Napoli-Inter è un gioco di specchi che sfuma la realtà in una miriade di frammenti che si riflettono a vicenda sino a comporre una verità pirandelliana, cangiante e intricata. Antonio Conte e Simone Inzaghi già da calciatori incarnavano personalità differenti: centrocampista applicato, instancabile e lottatore il primo, attaccante talentuoso, tecnico e un po’ discontinuo il secondo. Mai compagni di squadra, nemmeno in Nazionale, e avversari non banali in epiche sfide dall’esito clamorosamente opposto, visto che Simone con la sua Lazio prima sfilò uno scudetto in rimonta alla Juventus di Conte per poi 'restituirlo' due anni dopo sigillando il 4-2 che affondò l’Inter di Cuper. Eppure accomunati da una piccola città emiliana, Piacenza, dove Conte ha festeggiato il suo primo trionfo da allenatore, la promozione del Bari nella massima serie, abbracciando i suoi giocatori per le vie del centro la sera dell’8 maggio 2009, quando cioè la Triestina superò il Livorno rendendo del tutto pleonastica la sua partita contro il Piacenza in programma il giorno successivo. E dove Simone è nato, collezionando le prime gioie in Serie A lanciato da Beppe Materazzi, il padre di quel Marco protagonista e testimone sia di quel Perugia-Juventus del 14 maggio 2000, sia di quel Lazio-Inter del 5 maggio 2002. Ecco, l’Inter: una svolta significativa del destino anche nella loro vita successiva, quella da allenatori. Conte in nerazzurro ha vinto uno scudetto storico, interrompendo la serie di 9 titoli consecutivi juventini che lui stesso aveva inaugurato e spiazzando quella parte di opinione pubblica che aveva visto come 'innaturale' il suo approdo a Milano. Era stato bandiera bianconera per 14 anni da giocatore, vincendo tutto, e da tecnico aveva riportato la Juve sul tetto d’Italia per tre anni di fila dopo 8 di amaro digiuno. Ma Antonio è sempre stato refrattario a quelle etichette che avvolgono tutto togliendo il respiro e così anche la patina di 'juventinità' gli era insopportabile. Lo disse esplicitamente durante una conferenza stampa in cui si strappò di dosso la camicia di Nesso, cambiando il mito e sfuggendo al destino di Ercole: “Se un giorno mi chiamassero l’Inter o il Milan, io valuterei in base a riflessioni professionali. Che significa juventinità? Io sono un professionista!”. Del resto era già accaduto nella storia con Giovanni Trapattoni, un monumento bianconero e italiano rispetto al quale Conte ha compiuto un cammino del tutto parallelo. Anche Giovanni da Cusano Milanino aveva costruito la sua gloria da allenatore alla Juventus, vincendo 6 scudetti in 10 anni. E anche lui finì per sposare le ambizioni dell’Inter, firmando lo scudetto dei record e riportando le bandiere nerazzurre per le strade dopo 9 anni di astinenza. L’unica differenza è nell’ordine degli addendi, perché il Trap attraversò direttamente il diaframma tra i mondi contrapposti del derby d’Italia, Conte no. Prima Antonio si è preso il lusso di vincere in Inghilterra col Chelsea e di guidare la Nazionale italiana. Altre due tappe in comune con Giovanni, ma posizionate diversamente sul tappeto rosso della sua carriera. Sì, perché anche il Trap ha vinto all’estero in uno dei top 5 campionati europei, precisamente in Germania col Bayern Monaco. Senza contare che dopo l’esperienza da Ct dell’Italia, quando tutti lo davano in declino, riuscì a vincere anche in Portogallo col Benfica e in Austria col Salisburgo. Ma ora Conte ha l’occasione di superare il maestro, realizzando un capolavoro che al suo alter ego non è riuscito: vincere in Italia in una piazza diversa dalle 3 tradizionali poste sull’asse Milano-Torino. Trapattoni ci provò a Firenze, nel 1998-99, quando Cecchi Gori lo chiamò per replicare in Toscana il modello vincente bavarese. Il Trap organizzò e rese solido il gioco di una squadra che davanti poteva contare sulla poesia di Rui Costa, Batistuta ed Edmundo. Risultato? Vetta immediata e titolo d’inverno conquistato. Ma nel febbraio ’99 Batigol si infortunò ed Edmundo non resistette al richiamo del Brasile, dove il carnevale è ben più di una festicciola. E così a Udine, senza quei due, finì male e la Lazio agganciò la Fiorentina per poi staccarla una settimana più tardi. Quel campionato l’avrebbe vinto il Milan di Zaccheroni in rimonta e la Viola si sarebbe risollevata, ma non abbastanza per coltivare il sogno tricolore. Ora tocca a Conte. Anche lui a Napoli ha ricostruito una mentalità che sembrava evaporata con lo scudetto di Spalletti, anche lui ha reso solido e strutturato il gioco di una squadra che ha meno poesia di quella Fiorentina, ma più muscoli e vigore. Anche lui ha conquistato il titolo d’inverno, anche lui ha visto 'fuggire' un suo talento all’estero, stavolta non Rio ma Parigi, e anche lui ha perso la vetta a febbraio, poco prima del carnevale. Ma Antonio coltiva una feroce determinazione nel forgiare la storia a martellate, come una lama di pregio. E può riuscire là dove Trap si arenò, perché la volata finale per lo scudetto comincia adesso e perché, più del Trap, sembra fatto della stessa sostanza di Alcibiade, lo statista ateniese protagonista della guerra del Peloponneso durante la quale cambiò spesso schieramento, alienandosi la simpatia 'mediatica' di alcuni storici ma portando sempre enormi vantaggi alla sua parte. Come Alcibiade, infatti, Conte ha saputo far pendere l’ago della bilancia prima dalla parte della Juve e poi dell’Inter, realtà contrapposte quasi come Atene e Sparta, per poi essere apprezzato anche quando scelse il 'terzo polo', quel Napoli che oggi si identifica con la sua passione e che per lo statista ateniese divenne la Persia di Tissaferne. E così oggi Conte sogna l’obiettivo di centrare un record assoluto per un allenatore: fregiarsi del titolo di campione d’Italia con 3 club differenti, impresa che sarebbe riuscita a Fabio Capello se solo non fossero stati revocati i due scudetti vinti con la Juventus. E lo fa ritrovando sul suo sentiero Simone Inzaghi, l’uomo che all’alba della terribile parentesi del Covid frustrò il suo primo tentativo interista nel 2020, sempre a febbraio, ribaltandolo 2-1 all’Olimpico con la sua Lazio, togliendogli la vetta della classifica e la casacca dello sfidante alla Juventus allora guidata da Maurizio Sarri, il 'maestro' amatissimo proprio a Napoli e che quell’anno lasciò entrambi alle sue spalle. Lo stesso Inzaghi che poi ereditò l’Inter dalle sue mani trasformandone il 3-5-2 in sistema più aggressivo e che in tre anni ha conquistato uno scudetto, 3 Supercoppe, 2 Coppe Italia e una finale di Champions. Una danza delle emozioni e un gioco di ribaltamento delle prospettive che, dunque, investe anche il tecnico piacentino. Sì, perché Simone insegue un obiettivo che lo porrebbe accanto a pochi altri nella storia nerazzurra: vincere due scudetti consecutivi, impresa che all’Inter è riuscita solo a Foni negli anni ’50, Herrera negli anni ’60, Mourinho e Mancini nel nuovo secolo . Senza contare che Inzaghi è chiamato anche a sconfiggere un avversario, per così dire, cabalistico visto che nell’era dei 3 punti solo 3 volte l’Inter a questo punto della stagione era coinvolta in una volata a 3 per lo scudetto. E alla fine non ha mai trionfato: nel 97/98 con Juventus e Lazio , nel 2001/02 con Juve e Roma e nel 21/22 con Milan e lo stesso Napoli , proprio nella stagione in cui Simone aveva appena sostituito Conte alla guida dell’Inter. Del resto la pesantissima eredità 'contiana' ha rischiato a più riprese di bruciargli prematuramente le ali, visto lo spessore del predecessore e le sue ambizioni ritenute ancora acerbe da gran parte dell’opinione pubblica. Ma così come Temistocle seppe diventare l’eroe di Salamina malgrado Atene vivesse nel mito di Milziade che qualche anno prima era stato l’eroe di Maratona, anche Simone Inzaghi ha dimostrato di poter reggere il confronto con il predecessore. Ed ora eccola qui, la sfida. Che non è solo Napoli-Inter, ma un insieme di storie e di immagini riflesse, come in un’elegante sala degli specchi. Che confonde e trasfigura, moltiplicando sfumature e angolazioni. Dalle quali emerge la figura di una Dea, di nome Atalanta, pronta a inserirsi nell’apparente duello. Quell’Atalanta guidata da Gasperini, condottiero che aspira al ruolo di Epaminonda, lo stratega che seppe nutrirsi dell’usura delle due potenze in conflitto ed esauste dalla guerra del Peloponneso, per imporre l’egemonia di Tebe. In definitiva l’incarnazione del detto “se Atene piange, Sparta non ride”. Ma questa è un’altra storia…

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Alessandro Biolchi