Bruno, nessuno, centomila. Auguri Conti!

“Sole sul tetto dei palazzi in costruzione, sole che batte sul campo di pallone, e terra e polvere che tira vento, e poi magari piove” Comincia così il capolavoro di Francesco De Gregori, La leva calcistica della classe ‘68 . E sembra di vederlo, quel campetto della parrocchia di Nettuno: di terra battuta, senza un solo filo d’erba e dove la palla non esce mai, sbattendo sulle mura di cemento che ne costituiscono il perimetro. La cornice dei sogni di un ragazzino di famiglia modesta e dignitosa: papà Andrea muratore, mamma Secondina casalinga e 7 figli, tre femmine e quattro maschi, tre dei quali destinati allo stesso letto in una casa umile ma senza drammatiche privazioni. Bruno Conti era sempre lì, su quel campetto, a sognare, calciare, palleggiare, dribblare. Qualche volta dimentico delle raccomandazioni materne sulla necessità di contribuire all’economia familiare, qualche volta determinato a seguirle trasportando e consegnando pesanti bombole di gas con la sua bicicletta e inventandosi altri lavoretti, le cui mance finivano direttamente sul tavolo della cucina, senza ‘briciole’ che rimanessero impigliate nelle sue tasche. Era piccolo e minuto, Bruno. Troppo piccolo per tutti coloro che lo osservavano ai provini: “Bravo tecnicamente – scrisse Helenio Herrera – ma con un fisico non da calciatore”. Una sentenza ossessiva, un anatema che lo colse anche di fronte agli osservatori di Sambenedettese e Bologna, coinvolti dagli sforzi dello zio che lo trasportava in lambretta ovunque ci fosse la possibilità di metterne in mostra il talento. Un destino che sembrava ineluttabile e che acuiva di giorno in giorno i rimpianti per quel gran rifiuto al baseball. Sì, perché gli americani che erano sbarcati ad Anzio per liberare l’Italia dal nazifascismo avevano portato da quelle parti non solo cioccolata, sigarette, boogie-woogie e Clark Gable, ma anche quello sport lì, fatto di lanci, battute e scatti dentro un diamante da percorrere a perdifiato. Bruno aveva imparato tutti i segreti del baseball e dal suo braccio mancino partivano traiettorie curve e effettate quasi imprendibili per i battitori. Se ne accorsero addirittura gli osservatori dell’Università di Santa Monica che ci misero pochissimo ad avanzare un’offerta apparentemente irrinunciabile: trasferimento in California, istruzione assicurata con borse di studio e prospettive di carriera nell’MLB. Ma l’America è lontana e sebbene Secondina non ne conoscesse l’esatta ubicazione geografica sapeva benissimo che, come avrebbe scritto Lucio Dalla anni più tardi, è dall’altra parte della Luna . E Bruno aveva solo 15 anni. Papà Andrea si prese un paio di giorni di riflessione, ma poi decise che no, il futuro di suo figlio non avrebbe imboccato quella strada. Scelta amorevole e comprensibile, che tuttavia a ogni rifiuto calcistico pesava sempre più sulle esili spalle di Bruno, facendolo sentire vittima di una stregoneria. Chissà, decisione forse presa affidandosi a Giano, il dio ancestrale romano raffigurato con due teste, una che guarda al passato e una che scruta il futuro. Il dio del ‘passaggio’ in un mondo in divenire, ‘pater factorum’ e plastica raffigurazione della dualità della condizione umana: anima e corpo, bene e male, vita e morte. Una dualità espressa a ogni bivio, a ogni porta che si apra sul sentiero dell’esistenza e che consenta, almeno per un attimo, al talento di incontrare l’opportunità. “Prese un pallone che sembrava stregato, accanto al piede rimaneva incollato, entrò nell’area tirò senza guardare, ed il portiere lo fece passare”. La canzone di De Gregori sembra scritta su misura, ma non è dedicata a lui. È invece liberamente ispirata ad Agostino Di Bartolomei, un altro figlio di Roma che ha segnato, con la sua parabola sportiva e umana, i sentimenti di milioni di persone. Ed è proprio ‘Ago’ la scintilla, il motore immobile che rende reale la metafora di quel brano nella storia di Conti. Sì, perché fu grazie a un torneo di calcetto a Lavinio che Bruno lo conobbe. Lo aveva organizzato suo cugino, proprietario di un bar, e ci partecipavano alcuni ragazzi non ancora diventati campioni, ma già ben inseriti nelle giovanili di squadre importanti, come Giordano, Di Chiara e, appunto, Di Bartolomei. Non a caso Bruno ottenne un nuovo provino con la Roma, dopo quel torneo. E stavolta a osservarlo c’era Nils Liedholm, l’illuminato svedese che leggeva il calcio con idee innovative e interpretava la vita con ironica saggezza. Bruno fu preso, il giorno più bello della vita di papà Andrea. Che nel giardino piantava solo fiori gialli e rossi. “Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette, quest’altr’anno giocherà, con la maglia numero sette”. Sì, grazie ad ‘Ago’, quello che sarebbe diventato il suo capitano, il suo leader, il suo più grande rimpianto. Per non aver capito, per non aver saputo abbracciare quel dolore nascosto sciogliendolo in un abbraccio. Luca, il figlio di Di Bartolomei, un giorno scrisse del padre: “Un ragazzo della periferia di Roma che ha provato a comportarsi in maniera civile e a fare il suo lavoro con serietà e professionismo. Uno dei tanti romani che non sbraita, che non scoatta. Uno che non hai mai pensato di essere un esempio. Di Ago a Roma ce ne sono tanti”. A partire da Bruno. Quella di De Gregori non è la sua canzone, ma è anche la sua canzone. Il dito di Pertini 11 Luglio 1982, stadio Santiago Bernabeu di Madrid, Finale Mondiale Italia-Germania, 35’ del secondo tempo. Bruno parte in una corsa folle sulla fascia destra verso l’area tedesca facendo sussultare quell’inconfondibile casco di capelli neri, arriva quasi ai 16 metri poi rallenta, alza la testa e appoggia centralmente, osserva Altobelli che dribbla Schumacher e quando vede la palla in fondo alla rete si volta indietro, alza le braccia e si lascia cadere sulle ginocchia, sfinito dalla gioia, abbandonato all’estasi. È il 3-0. Mentre l’Italia impazzisce, mentre il Presidente della Repubblica Sandro Pertini in tribuna alza le braccia e ondeggia il dito della mano destra in un segno che assume il significato del trionfo quando viene accompagnato dal labiale inconfondibile: “Adesso non ci prendono più!”. Eppure quella partita, l’apice della gloria di un gruppo che ha scritto la storia, era cominciata con una delusione atroce, come otto anni prima in quel Roma-Torino del febbraio 1974: Conti che viene atterrato in area, l’arbitro che fischia rigore, il pubblico che esulta senza controllo. Nel ’74 era il suo esordio in maglia giallorossa, nell’82 la sua occasione di toccare la vetta del mondo. Ma nel ’74 Domenghini si fece parare il tiro da Castellini e nell’82 Cabrini angolò troppo, mandando fuori. Ancora l’ombra della maledizione, ancora un bivio che ripete il suo esito disperante, l’omega che rincorre l’alfa chiudendo un cerchio senza sorrisi. Quella domenica pomeriggio all’Olimpico c’era tutta Nettuno, una torma di amici e parenti arrivati allo stadio con ogni mezzo, visto che le auto erano dimezzate dall’ordinanza che imponeva le targhe alterne. Ed era la prima volta del diciottenne Bruno Conti, che Liedholm aveva deciso di schierare dal primo minuto. Sarebbe stata l’ultima, almeno per quella stagione, ma in fondo che importava? Il diaframma che separa i sogni dalla realtà si era squarciato e dopo quel rigore sbagliato ci sarebbe stata una sequenza di fotogrammi da gustare uno a uno. C’era tutta l’Italia quella domenica sera davanti agli schermi per tifare gli azzurri di Bearzot che avevano compiuto l’impresa di centrare una Finale Mondiale 12 anni dopo quel Brasile-Italia senza storia a Città del Messico. Una spedizione cominciata tra le critiche, quella spagnola. Per le scelte del Ct, per le amichevoli disastrose dell’immediata vigilia, per le prime 3 partite del girone, giocate senza grandi idee e pareggiate in sequenza contro Polonia, Perù e Camerun. Anche Bruno era afflitto da una forma non impeccabile, a causa di un infortunio alla caviglia rimediato nelle settimane precedenti. Circostanza che gli fece temere di finire ai margini per lasciare spazio allo stagionato ma sempre forte Franco Causio. Bearzot lo rassicurò quando in allenamento vide il suo tentativo di forzare i tempi del rientro e Bruno lo ripagò con un gol strepitoso al Perù, di destro, dopo una magia al limite dell’area per liberarsi della marcatura. Una gemma isolata, però. In un deserto di emozioni. Il resto della storia è ormai arcinoto: il silenzio stampa, la compattezza di un gruppo cementato dall’amicizia e dalla sindrome da accerchiamento, Cuccurucucù Paloma scelta da Bruno e sparata sul pullman come colonna sonora , la progressiva brillantezza riversata sul campo a partire dalla sfida all’Argentina di Maradona. Nel tabellino della quale compare, alla voce marcatori, il nome di Cabrini che chiuse la partita con un gol inventato da…Conti. Fu lui,infatti, a recuperare il pallone dopo un contropiede che sembrava abortito, a portarlo quasi sulla linea di fondo duellando con Fillol e a porgerlo al compagno dopo un repentino cambio di direzione orientato col tacco per mandare fuori tempo il portiere sudamericano. E la sua fantasia, vestita di velocità e tecnica, fu una delle costanti di quel climax inarrestabile che scrisse a caratteri d’oro il nome di Paolo Rossi nella storia del calcio mondiale. Strappi, scatti, dribbling, triangolazioni, cambi di direzione: una gioia per gli occhi e ambrosia per l’anima. Anche contro il Brasile, dove il suo movimento continuo fu spina costante nel fianco dei verdeoro, dove la tripletta di Paolo Rossi rovesciò la storia e dove la sua umiltà talentuosa lo portò ad abbracciare Falcao, a fine partita, senza esultare. Ma, anzi, con un’espressione di empatico dispiacere per il compagno giallorosso sprofondato nella disillusione di un Paese intero. Fino a quella parabola, perfetta e morbida, con cui pilotò la palla sulla testa di Pablito in semifinale contro la Polonia . E fino a quell’ultima corsa a perdifiato, come su quel diamante di Nettuno, come su quel campetto polveroso della parrocchia, per servire ad Altobelli la palla del trionfo. “Non ci prendono più”. E in effetti Bruno era imprendibile, irraggiungibile. Anche dalle delusioni. Perché, come diceva Seneca, la felicità è raggiungere ciò che si desidera, ma anche desiderare ciò che si possiede. Senza frustrazioni o recriminazioni. Tutti ricordano i 6 gol di Paolo Rossi che portarono l’Italia sull’Olimpo, pochi ricordano che un tale di nome Pelè dichiarò che a suo parere il miglior giocatore del torneo fu Bruno Conti. Quello di Spagna ‘82 è il Mondiale di Pablito. Ma è anche il suo Mondiale. Bivio che si riunisce 8 Maggio 1983, stadio Marassi di Genova, la Roma conquista il suo secondo scudetto, 41 anni dopo il primo. In panca lo svedese di cui sopra, Nils Liedholm. In campo una serie di fuoriclasse leggendari: da Falcao a Di Bartolomei, da Ancelotti a Pruzzo, da Vierchowood a Nela. A Bruno Conti. Giano bifronte ha ridotto a sintesi ogni bivio, ha ridotto ad unum ogni dualità. Sì, perché Giano affonda le sue radici nel termine latino ‘Ianua’ , così affine a Genova. Che, guarda caso, nel medioevo riempì strade e palazzi con la sua rappresentazione. E Genova è la porta della gloria, della redenzione dopo la dannazione. Così almeno doveva essere apparsa a papà Andrea quando, in sella al suo motorino, ascoltò in silenzio l’amara sentenza direttamente da Bruno: la Roma, dopo quell’esordio del ’74, aveva deciso di mandarlo a farsi le ossa proprio là, in riva al mar Ligure, in serie B. Andrea lasciò parlare, poi girò il motorino e se ne andò. Ma Genova fu la ‘porta’ girevole del Fato, che si sarebbe divertito a giocare col suo destino. Lì c’era Gigi Simoni, un grande uomo, che seppe disciplinarne le immense doti tecniche al servizio della squadra. Lì segnò il suo primo gol da professionista al Foggia di Cesare Maldini, lì visse la sua prima grande gioia vincendo il campionato. Lì conobbe e cominciò a servire cross di platino a Roberto Pruzzo, quasi a evocare una notte all’Olimpico che resterà per sempre sospesa tra l’eroismo e il dramma sportivo. E proprio grazie a quella stagione così brillante, Bruno riconquistò la maglia della sua Roma, cominciando a giocare con continuità e segnando, nel 1976/77, i suoi primi gol in serie A: il primo in assoluto alla Juve, con un tirocross che Prati lasciò scorrere ingannando Zoff, per un 3-1 che consentì al Toro di sorpassare i cugini in testa alla classifica. Ma giusto per un mese, il tempo necessario perché i giallorossi rifilassero un 1-0 anche al Torino di Radice rimettendo in sella la Juve, che poi seppe conservare quel punto di vantaggio fino alla fine. Il secondo in un derby con una botta di sinistro al volo nel sette che rappresenta il sogno di chiunque abbia accarezzato almeno una volta un pallone da calcio. Ma non bastò. Un paio di anni dopo, la società giallorossa individuò proprio in Pruzzo l’attaccante del futuro e il Genoa pretendeva il ritorno di Conti per dare il via libera al trasferimento. Per papà Andrea un tradimento, per Bruno l’ansia che quel primo arrivederci si potesse trasformare in un addio. Tanto più che quella seconda esperienza al Genoa si rivelò disastrosa: zero gol, zero assist, rischio retrocessione in C e Roma pronta a girarlo, stavolta definitivamente, al Pescara. Fu il solito svedese a impedirlo: Liedholm lo volle riprendere malgrado tutto, perché in quel trottolino tutto corsa e dribbling lui credeva davvero. Del resto era stato proprio lui a metterlo, da ragazzino, davanti ai mammasantissima della prima squadra dicendogli “Dai Bruno, fai vedere ai ragazzi lo stop orientato e il tiro al volo”. Ed era sempre lui a limarne gli spigoli tattici inserendolo nel meccanismo del gioco di squadra, come faceva anche con Rocca, il ‘Kawasaki’ imprendibile sulla fascia mancina che, tuttavia, sprecava il suo vigore in cross e movimenti non efficaci per la squadra. Dove Simoni aveva iniziato, insomma, Liedholm finì. E Conti divenne un cardine del suo capolavoro, lo scudetto del 1983. A Genova il gol decisivo lo segnò Pruzzo su cross di Di Bartolomei, Conti insieme a tutti gli altri portò in trionfo lo svedese. Genova, Ianua, Giano. Pruzzo e Ago, Simoni e Liedholm. La Roma e lo scudetto. Tutto in unico istante, implosione e sintesi di una storia di umiltà, fatica, talento e dedizione. La porta dei desideri che si apre al sorriso. Conti avrebbe segnato nella partita successiva, quella della festa scudetto all’Olimpico per chiudere un altro cerchio: di fronte il Torino, come in quel pomeriggio del ’74. Anche stavolta Bruno provocò un rigore, ma stavolta Falcao non lo sbagliò. E alla fine lo stesso Conti sigillò quel torneo trionfale con una botta di sinistro in diagonale, simile a quella che Totti avrebbe stampato nella memoria degli amanti del calcio anni più tardi a Genova contro la Samp. Gioia vera, ma solo la terza in campionato. Gli altri due gol Bruno li aveva segnati alla 10^ giornata contro la Fiorentina. Era uno degli eroi mondiali, ma nelle prime nove giornate aveva combinato pochino. Quella doppietta strepitosa per qualità e potenza, fece dire a Liedholm “Finalmente abbiamo ritrovato il Conti dell’anno scorso”, ma lui, malgrado le critiche per un rendimento sin lì al di sotto delle attese non volle prendersi la copertina con le tipiche dichiarazioni stizzite del campione che mette a tacere le malelingue. E si limitò a dire: “Sono contento, anche si mi spiace aver fatto due gol a Giovanni Galli, il mio compagno di stanza ai Mondiali di Spagna”. Difficile trovare nella stessa persona il talento e la classe di più grandi calciatori e l’umiltà timida dei più grandi uomini. Ma Bruno Conti è così. Quello fu lo scudetto di Falcao e Liedholm. Ma fu anche il suo scudetto. Ultima tappa Dopo un Mondiale e un tricolore in due anni, mancava la Coppa dei Campioni. 30 maggio 1984, Finale contro il Liverpool, stadio Olimpico. Sin lì un percorso netto di vittorie senza storia contro Göteborg , Cska Sofia, Dynamo Berlino. Poi, in Semifinale, la meravigliosa rimonta col Dundee: 0-2 all’andata, 3-0 al ritorno. Non mancava che l’ultimo, altissimo ostacolo, rappresentato dai campioni inglesi, che la Coppa dalle grandi orecchie l’avevano già sollevata tre volte, l’ultima tre anni prima. È il Liverpool di Grobbelaar, Neal, Souness, Dalglish e Rush. Tutti giocatori di grande esperienza internazionale, del tutto impermeabili alla circostanza che la sede della Finale sia proprio Roma, nello stadio dell’altra finalista. E infatti Neal la butta dentro dopo un quarto d’ora scarso, svegliando una Roma sin lì paralizzata dalla pressione e dalla tensione. Chi se non Bruno? E chi se non Pruzzo? Quella coppia venuta dal passato ora guardava al futuro, come le due teste di Giano. E allora quella sgroppata sulla sinistra sembrò il timbro del destino, quel cross dipinto da Bruno come il lampo di Giove, la testa di Pruzzo come la spada di Marte. Ma nulla più si mosse sino ai calci di rigore, un’ordalia spietata che non consente appelli. Pruzzo era già uscito, Bruno accomodò la palla sul dischetto per il secondo tiro della serie: “Nino non aver paura di tirare il calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia”. Quella botta finì in curva, pareggiando l’errore di Nicol. Quello di Graziani avrebbe scritto l’amarissima sentenza. Falcao non tirò. Quella fu la Coppa di Joe Fagan e delle moine di Grobbelaar. Ma fu anche la sua Coppa. Perché nel fiume che scorre sotto le vittorie e le sconfitte ci sono sempre storie di coraggio, altruismo e fantasia. E questa è la storia di Bruno Conti. Il suo ultimo gol Bruno lo segnò al Flaminio, il 25 marzo del 1990, contro il Verona di Bagnoli. Quando il suo allenatore era quel Gigi Radice cui aveva prima regalato e poi tolto lo scudetto del ’77. La sua ultima presenza fu nel novembre dello stesso anno contro il Bordeaux, in Coppa Uefa. Ottavio Bianchi lo mise in campo gli ultimi 10’ sul risultato di 5-0 solo perché l’Olimpico lo invocava a gran voce. E allora Bruno capì che era arrivato il momento di dire basta. Il 22 maggio 1991 alla Roma non riuscì l’impresa di ribaltare lo 0-2 della finale di andata di Coppa Uefa contro l’Inter e malgrado la vittoria, vide ancora una volta la squadra avversaria sollevare la Coppa nel suo stadio. Ma non ci fu spazio per la delusione. Il giorno successivo era in programma la partita di addio di Bruno: Olimpico gremito più di quanto lo fosse 24 ore prima per una Finale, campioni di tutto il mondo riuniti per festeggiarlo in campo, caroselli di clacson e bandiere ad accompagnare il pullman allo stadio. In tribuna non c’erano i suoi genitori e Bruno regalò la maglia a donna Flora, la moglie del Presidente Viola. Andò sotto la Sud con i suoi figli, si inginocchiò come quella notte a Madrid, gettò al pubblico la sua scarpa sinistra. Quella fu la celebrazione di Bruno Conti, solo sua e di nessun altro. Un figlio di Roma che ha fatto amare la Capitale all’Italia intera, perché non è necessario essere nato dentro il Raccordo Anulare per capire l’essenza di un campione come lui. La sua romanità non è provincialismo ma apertura al mondo. Sembra di vederlo mentre si muove tra gli ombrelloni con un mangianastri che rovescia sulla sabbia le note di Gabriella Ferri con l’intento di attirare l’attenzione della madre di quella ragazza là. Che da allora è sua moglie, discreta e paziente, perché sin dal primo momento ha colto in quel sorriso timido e delicato la promessa di un rapporto profondo. E perché, come diceva sempre il buon vecchio zio Seneca “La vita è come una commedia: non importa quanto sia lunga, ma come è recitata”. Conti quest’altr’anno giocherà con la maglia numero 70. Quella di un attore di classe nella partita della vita. Auguri Bruno. Auguri ‘MaraZico’.

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Bruno, nessuno, centomila. Auguri Conti!

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