Troppe partita giocate, come cambia la preparazione dei calciatori secondo gli esperti

Sulle pagine di Sky Sport Insider, Walter Zenga ha lanciato una questione: “Ma davvero tante partite sono un male per i giocatori?”. Il tema è dibattuto e forse una posizione netta, precisa, per non dire addirittura definitiva è difficile riuscire ad averla. Anche perché le componenti in gioco sono tantissime: c’è il tema degli infortuni , della preparazione per recuperare, dell’aspetto mentale. A proposito del primo punto, un report dell’Associazione Italiana Calciatori, ‘Injury time’, dello scorso 19 novembre, spiega come l’aumento delle partite possa portare nell’arco dei 365 giorni un aumento da 71 fino a 107 giorni di infortunio per un calciatore . Cioè praticamente un terzo dell’anno solare. Ma poi c’è l’aspetto mentale e del rendimento in senso più generale, che è il cuore di questo approfondimento. Riprendendo il ragionamento di Zenga, l’osservazione porta a dire che una squadra come l’Inter abbia avuto una flessione proprio nelle settimane in cui ha potuto giocare una partita a settimana. Stessa cosa per il Napoli che, al di là del bellissimo pareggio proprio contro i nerazzurri, nelle precedenti 4 partite ha raccolto solo 3 punti. E se per la squadra di Inzaghi una risalita c'è stata, non molto meglio è andata invece per quella di Conte. Partite allenanti? Cosa dicono i preparatori Cristoforo Filetti è da 5 anni all’interno dello staff del Psg. Lavora nel dipartimento performance, che fa da collante tra lo staff di Luis Enrique e il reparto medico. L’obiettivo è gestire il carico di lavoro quotidiano, “e ci siamo resi conto che rispetto allo scorso anno il numero di giorni tra le partite è drasticamente calato. La media è di circa 1,4 giorni in meno rispetto alla scorsa stagione. Lo staff deve gestire le situazioni, cercando di dare sempre una rotazione. Poi, la Ligue 1 rispetto alla Serie A o altri campionati ha dei ritmi diversi, e questo porta a un altro tipo di difficoltà: uno sbalzo di intensità tra una partita di campionato e una nelle competizioni europee”. Ma con meno partite, può calare in generale il rendimento? “Quello che abbiamo notato noi, è che la partita sa davvero essere molto allenante. Anzi, probabilmente è la forma migliore di allenamento, visto che l’atleta tende a spingere al massimo la propria performance. In allenamento non potremmo mai riprodurre esattamente una dinamica di partita, ma di certo possiamo controllare meglio alcune situazioni, alcuni movimenti. Si lavorava più nel dettaglio su alcuni aspetti specifici della preparazione. Ora di fatto non ci si allena, ma si strutturano tabelle di recupero personalizzate per ogni singolo giocatore”. E l’aspetto mentale? “Un giocatore di alti livelli ora sa che deve essere abituato a farsi trovare pronto ogni 3 giorni. Avere una settimana di tempo per allenarsi o solo 2 giorni per recuperare fa un’enorme differenza. Io sono convinto che un giocatore quasi preferisca giocare di più, anche se i rischi sono legati al fatto che tutto sia meno sotto il nostro controllo. Inoltre, più si va avanti durante la stagione, più il gap tra chi gioca e chi non gioca diventa enorme: il ritmo partita lo ottieni solo quando giochi tante partite. Non è possibile pensare di allenarsi per avere un ritmo sufficientemente adeguato alle richieste”. Il recupero e il cambio ‘culturale’ Se qualcuno ricorda la famosa conferenza stampa di Daniele De Rossi sull’effetto Florida, allora ricorda anche che la citazione aveva un proprietario: Giambattista Venturati, un vero e proprio specialista in campo della preparazione degli atleti. Dal 1998 al 2015 ha fatto parte dello staff di Cesare Prandelli, comprese le esperienze in Nazionale. E ora proprio per la Federazione è diventato un formatore, tra lezioni a Coverciano, master in tutta Italia e all’estero. La sua idea è chiara: “Trovo interessante l’osservazione di Zenga”, dice a Sky Sport Insider. “Si tratta del ragionamento di un allenatore, che valuta anche, e con grande correttezza, le ricadute psicologiche che possono arrivare da una pausa. Se ci atteniamo al solo livello della preparazione, dobbiamo partire da una premessa: la prestazione non può essere il riferimento totale, perché altrimenti dovremmo fare sei gare alla settimana per ottenere il massimo degli effetti. Solo la partita offre la tensione prestativa massima, nemmeno le amichevoli riescono a ricrearla. L’allenamento viene parcellizzato per rispettare la fisiologia dell’atleta”. Quali sono i problemi? “Che rispetto all’attuale modello di lavoro, ci si concentra soprattutto sulla prestazione, appunto, e sull’intensità. Mentre si perde la concezione classica di allenamento che in qualche modo va preservata”. Ma questo vuol dire che bisogna giocare meno partite? “Non necessariamente. Quello che urge è trovare una chiave di lettura coerente per tutti. Meno partite vogliono dire meno introiti. Meno introiti vogliono dire meno guadagni anche per i giocatori. È chiaro che le prime 8 squadre di Serie A giochino tendenzialmente più delle altre 12, ma la scansione del lavoro resta in realtà bene o male la stessa. La domanda è capire quale direzione si voglia prendere e muoversi d’anticipo: ci sono tanti studi su questo, dovremmo pensare al calcio non di domani, ma di quello che avremo fra dieci anni”. E su come si potrebbe lavorare, Venturati ha una sua visione: “Il modello settimanale non dovrà cambiare in maniera drastica, magari dovrà specializzarsi di più sui volumi e non sull’intensità. A contare sono le ore a casa, quelle che noi definiamo di ‘allenamento invisibile’: ore di sonno, alimentazione, gestione dello stress, allenamento personalizzato. Alcuni allenatori hanno già tracciato una strada: Palladino con la Fiorentina ha concesso sette giorni di riposo totali durante le vacanze di Natale; Ancelotti ha proposto delle vacanze a turno per i giocatori, così che tutti possano recuperare serenamente”. Ma quindi come si può spiegare il calo di Inter e Napoli proprio nel momento in cui c’è stato più tempo di allenarsi? “Ovviamente per rispondere con precisione massima, bisognerebbe essere dentro lo spogliatoio” continua Venturati, “Ma se ragiono da preparatore, dico che nelle settimane in cui ho meno partite io aumento i carichi. Vale il discorso di ‘tapering’, che nello sport indica la ‘diluizione’ del lavoro: mi alleno perché so che più avanti potrà allenarmi meno. Il problema è di nuovo quello iniziale: se devo solo valutare il risultato, allora non potrò mai fare un ragionamento ampio a livello di preparazione, recupero, addirittura formazione della rosa. È necessario valutare tutto veramente a 360°. Non è detto che le partite siano troppe: dipende sempre da come ci si prepara”.

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