Lo scudetto dell'Hellas Verona: cosa resta dell'impresa di Bagnoli di 40 anni fa

I giocatori di quel Verona sorridono a Osvaldo Bagnoli con tutta la dolcezza della quale sono capaci. È il modo migliore per disporlo al buonumore, perché a quasi 90 anni non tutti i risvegli sono uguali, e certi giorni ci vuole un po’ perché la maschera rabbuiata svanisca come nebbia al sole del mattino. I giocatori di quel Verona vanno a trovare il loro vecchio allenatore appena possono, Pierino Fanna che vive ancora in città è il più assiduo, ma anche Domenico Volpati quando scende dal Trentino, oppure Hans Peter Briegel quando - due volte l’anno - torna in vacanza sul lago di Garda, o Roberto Tricella adesso che ha deciso di rallentare col lavoro. Telefonano alla signora Rosanna, la moglie di Bagnoli, o alla figlia più giovane, Monica, e si fanno dire come si è alzato, ma poi va a finire che ci vanno sempre, a prescindere dall’umore, perché sentono tutti che è giusto così. Rosanna chiede a Osvaldo se quei volti affezionati gli dicano qualcosa e lui replica bluffando con una smorfia sicura, come a dire “ma certo”, che poi è la stessa che dedica ai tanti veronesi che incrocia per strada, quando l’amico Paolone lo porta in giro, perché Osvaldo Bagnoli cammina ancora benissimo. Lo incrociano, e qualcuno di loro non resiste alla tentazione del selfie, anche perché il tempo del fisico a un certo punto si è fermato, e l’allenatore dello scudetto sembra appena un po’ più vecchio di quando decise di averne abbastanza - era a metà degli anni 90 - e passò in un amen dalla panchina dell’Inter a quella dei giardini. Ha corso troppo il tempo della memoria, invece, togliendo a questa enorme figura della storia del calcio italiano il piacere di ricordare l’impresa per la quale tutti in strada gli sorridono. Come racconta Francesca, la figlia maggiore che vive a Milano ma ogni settimana torna a Verona, Osvaldo asseconda gli sguardi di affetto, e perfino posa con i più giovani mentre il cellulare fa clic. È come se il calore di chi lo ammira, per quello che ha fatto e per come lo ha fatto e perché non si è fatto cambiare, lo rendesse in qualche modo consapevole al di là della sua attuale condizione. Di certo gradisce le torte che Fanna non scorda mai di portargli, crostata di frutta per il compleanno in luglio, la gubana del Friuli - Pierino è di Grimacco, provincia di Udine - quando arriva l’inverno, e un goccio di grappa sull’impasto ne esalta il sapore. Bagnoli vive nella stessa casa di Valdonega, il quartiere collinare al di là dell’Adige, in cui abitava ai tempi dello scudetto. La casa al cui portone bussò la sera del 12 maggio 1985, di ritorno da Bergamo dove il pareggio con l’Atalanta aveva decretato la conquista del titolo, e dal centro di Verona in festa arrivavano appena attutiti gli echi dei clacson, dei caroselli di auto sui lungadige, dei cortei pedonali di giubilo dall’Arena a piazza delle Erbe. La signora Rosanna gli aprì, gli disse “Ciao Osvaldo”, e nelle rare interviste concesse negli anni successivi lui lo descrisse sempre come il momento in cui aveva meglio assaporato il gusto della grande vittoria. Questo è l’uomo che i vecchi ragazzi del Verona non scordano di andare a trovare, descrivendo loro stessi prima ancora delle loro imprese. Eh sì, perché questa è innanzitutto una storia di uomini, e poi di calciatori, e la gratitudine è il sentimento che meglio distingue le persone. Subito dopo viene l’amicizia che ancora oggi, quarant’anni dopo, fa andare in vacanza assieme diversi di loro, e a sentirne i racconti non è difficile carpire il segreto dell’impresa, quel mutuo soccorso in campo senza fare calcoli, senza porsi domande, senza fissare gerarchie, che è ciò che trasforma undici giocatori in una squadra. Passando delle ore con loro se ne ricava la precisa sensazione, molto cinematografica, che se mai uno si trovasse alle prese con un problema serio, tempo ventiquattr’ore e tutti gli altri sarebbero al suo fianco. D’altra parte vincere lo scudetto col Verona, unica città a farcela nel dopoguerra pur non essendo un capoluogo regionale, era un traguardo talmente impensabile da richiedere un doppio sforzo: tecnico per guadagnare un margine in classifica, mentale per difenderlo dalla propria stessa incredulità. Quando Fanna alzò il calice a Capodanno nell’albergo di Cavalese in cui quasi tutti passarono il veglione, e dopo aver chiesto un attimo di silenzio disse “Questo sarà il nostro anno”, nessuno si nascose - come succedeva invece nelle interviste ufficiali - e nessuno nemmeno sussurrò un guardingo “Sì, ma…”. Quel Verona era da tempo una squadra in missione. L’avevano visto arrivare? La buona norma delle varie ricostruzioni che si sono succedute nel tempo è dire che no, che nessuno temeva il Verona, e che l’impresa sia stata realizzata nello sbigottimento generale. Le cose non stanno esattamente così: rileggendo le collezioni dei giornali dell’epoca si scopre che a osservatori avveduti come Boniperti e Platini non erano sfuggite le due ultime e brillanti stagioni del Verona, il quarto posto da neopromosso e il sesto dell’anno successivo, con due finali di coppa Italia perdute sì, ma comunque raggiunte. Non sfuggiva, inoltre, il fatto che Briegel ed Elkjaer garantissero un vistoso salto di qualità a fronte del valore crepuscolare degli stranieri precedenti, Jordan e Zmuda. Per questi motivi il Verona era considerato sì un outsider, ma lussuoso. Nei pronostici di inizio stagione veniva citato nelle posizioni di rincalzo, diciamo un posto in coppa Uefa come obiettivo, perché comunque il suo valore era percepito. Del resto l’estate del 1984 aveva portato in Italia Diego Maradona e Karl-Heinz Rummenigge più altri due pezzi del mitico Brasile dell’82, Junior e Socrates, e quel mercato imponente come una caccia grossa era stato una sorta di ratifica del fatto che il nostro fosse “Il campionato più bello del mondo”. A farci mente locale, la scelta di Preben Elkjaer-Larsen di privilegiare l’offerta del Verona a scapito di quella del Real Madrid costituiva un segnale chiarissimo: la serie A era “The place to be” perché ci giocavano il numero uno al mondo , i due che si contendevano la piazza d’onore , mezza nazionale brasiliana e ovviamente i campioni del mondo in carica, ovvero Paolo Rossi e i suoi fratelli. Difficile trovare una concentrazione di talenti paragonabile, nemmeno nelle ricchissime Premier League di questi anni. E dunque è anche logico che in un panorama simile il bel Verona di Bagnoli e Mascetti figurasse in seconda fila. composta dall’azionista di maggioranza Ferdinando Chiampan che dava le linee-guida, dal presidente Tino Guidotti che curava i rapporti con le istituzioni del calcio e i tifosi, dall’amministratore delegato Liliano Rangogni che teneva in ordine i conti, e da Mascetti che sceglieva i giocatori in accordo con Bagnoli, che poi li allenava. Finita qui. Nella vulgata popolare quel Verona era composto dagli scarti dei grandi club, definizione spietata - e comprensibilmente mal sopportata dagli interessati - che estremizzava fino a travisare la capacità di Mascetti e Bagnoli di ‘vedere’ il potenziale ancora inespresso di un giocatore, la sua compatibilità tattica con i compagni e la cifra umana della quale era dotato, ingrediente fondamentale per cementare lo spirito di squadra. Ingrediente primo, verrebbe da dire: dei vecchi campioni con i quali ho parlato non ce n’è uno che non abbia magnificato il ruolo svolto da Joe Jordan nella stagione prima dello scudetto. Se date un’occhiata alle cifre, quell’anno il centravanti scozzese scese in campo 15 volte, 12 in campionato e 3 in coppa Uefa, soltanto 8 dall’inizio per un totale di 774 minuti, poco più di sette gare intere, e in quel lasso di tempo segnò la miseria di un gol. Un rendimento men che mediocre, ma che tutti sembrano aver dimenticato in favore del suo modo di interpretare la vita di spogliatoio: consigli ai compagni giovani che inevitabilmente gli soffiarono il posto, sostegno incondizionato a loro nei momenti difficili, difesa del gruppo nei momenti di tensione - il monumentale Joe faceva paura con quei denti da squalo - sempre su di giri nelle cene fra compagni. Una fredda lettura dei numeri può descrivere Jordan come uno scarto del Milan, ma lo spogliatoio del Verona lo ricorda come una splendida fonte di arricchimento. E poi, venendo a giocatori dalla resa straordinaria come Garella, Fanna o Di Gennaro, definirli scarti è soprattutto un espediente per proteggere dirigenti e allenatori che non li avevano ‘visti’. E dunque bravissimi Mascetti e Bagnoli, molto meno i loro colleghi.

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Paolo Condò