“Corri ragazzo corri”: la storia di Andrea Fortunato

C'era un ragazzo campano, sguardo fiero, argento vivo addosso, che correva sospinto da un'idea meravigliosa, diventare il più forte terzino sinistro del calcio italiano. Aveva tutto, fisico, tecnica, mentalità. E molto si era già conquistato, l'affetto della gente, il rispetto dei compagni, la stima dell'ambiente. Un destino, il suo, che sembrava già scritto, col lieto fine incorporato. Il Genoa, la Juve, la Nazionale e poi chissà cos’altro di straordinario. Di colpo, invece, il traumatico cambio di scenario. E la fine di tutto. Vita e fughe e sogni bruciati di Andrea Fortunato, che trent'anni fa tragicamente ci lasciava, come un arcobaleno in frantumi. Il viaggio troppo breve di un talento speciale, attorno al quale la memoria, per tante nobili ragioni, va tenuta costantemente allenata. Ventuno La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste. Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima, pronuncialo senza la minima traccia d’ombra. Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri, solo perché sono fuori dalla tua vista? Tratto da “La morte non è niente” di Henry Scott Holland 25 Aprile '95. È il giorno in cui la Spoon River dei calciatori, la Superga dello spirito, accoglie sulla collina il terzino Andrea Fortunato, sconfitto dalla leucemia, al termine di un calvario durato quasi un anno. Vola via un figlio di tutti, un fuoriclasse in divenire. L’espressione più virtuosa di un mondo, quello dello stile, delle armonie, dei corpi in apparenza infrangibili, derubato con l’inganno, come troppe volte accade, della sua presunta onnipotenza. A salutarlo, nel Duomo di Salerno, la sua città, tutti quelli, e sono migliaia, che di Andrea tutto amavano, le corse dominanti, la vitalità dirompente, la fede nel gioco, la lealtà nelle relazioni. E tra le tante lacrime a pioggia, quelle dei compagni juventini, quelle di Luca Vialli, il suo capitano, la cui orazione funebre, a risentirla, anche a distanza di trent'anni, non smette di commuovere per la sua dolcezza. Assieme alla potente suggestione di immaginare lui e Andrea, in un altrove, nuovamente insieme. Si erano conosciuti due anni prima, quando Fortunato giocava nel Genoa. Scoprendo comuni affinità. Il dare e pretendere rispetto. La gentilezza mai affettata. L'esuberanza mai scomposta. L’amicizia mai concessa con superficialità. La loro, per la Juve, si sarebbe rivelata prezioso valore aggiunto. La vita sgambetta Fortunato un istante dopo averlo premiato con la serie A, la maglia azzurra, illuso con la golosa prospettiva di diventare, nel suo ruolo, uno dei più grandi specialisti del nostro calcio. Come chi, in precedenza, sulla stessa fascia bianconera, gli aveva poeticamente tracciato la strada. Bell'antonio Antonio Cabrini da Cremona. Bello in modo oltraggioso, le sue foto hanno riempito milioni di stanze di ragazze sognanti. Sembrava un modello, ma era un guerriero, un pirata salgariano, un calciatore di tecnica latina e di carattere inglese, dall’implacabile ferocia agonistica. Cabrini fu tra i migliori terzini di ogni tempo, bravura suffragata da un dovizioso bottino di trionfi. Aveva uno stile lucente, limpido, razionale, uguale al suo modo di vivere. E non macchiò mai, neppure a carriera conclusa, la sua naturale eleganza. Tratto da “Cabrini, l’indossatore guerriero” da “Tu chiamale, se vuoi, emozioni” di Giorgio Tosatti Quel soprannome breriano, Bell'Antonio, Cabrini non lo hai mai considerato griffe da esibire. Non era nei suoi piani un futuro da sex symbol. O da icona pop. Radici solide le sue, ben piantate nella terra cremonese. Visse quell'omaggio letterario con distratto distacco, ma cavalcandolo in modo strategico. E infatti fu tra i primi calciatori italiani a diventare testimonial pubblicitario. Seducendo anche in quella veste. Nel suo spot più ricordato correva al rallentatore in un bosco. Anzi, nella natura, il Bell'Antonio lievemente fluttuava. Sorta di paradosso per chi, per mestiere, spingeva di prepotenza sulla corsia mancina. Nel suo ruolo un fenomeno, come altri totem leggendari, Facchetti, Paolo Maldini. Ma con caratteristiche tutte sue. Dentro ogni blitz, un irresistibile catalogo d'arte varia. Lo spunto esplosivo, il tempo d'inserimento, la finta imprevedibile, il cross a rientrare mai banale, da qualunque zolla periferica. E poi l'abitudine a usare la testa e quel sinistro omicida, per convertirsi, nella Juve di Trapattoni, nell'Italia di Bearzot, in spietato attaccante aggiunto. Che della partita, delle sue bizze, capiva tutto, quando temporeggiare, quando colpire, quando tornare a ringhiare sull'uomo. Pennello e scalpello, sempre. Con la Coppa del Mondo alzata al Bernabeu davanti alla Germania a stabilirne la definitiva grandezza, anche a dispetto di quel celebre errore dal dischetto sullo 0-0, che funzionò, per l'Italia, nella successiva costruzione di quel trionfo, da adrenalinico doping emotivo. Ma già quattro anni prima, in Argentina, da debuttante, Cabrini era stato votato miglior giovane di quella rassegna dipinta d'azzurro, nonostante il bugiardo quarto posto finale. Fu lì che il mondo capì che nel vocabolario del bianconero, difesa e offesa diventavano princìpi capaci di sprigionare identica sostanza. Circostanza rara nel calcio di ogni tempo. Quando arriva alla Juve, a 21 anni, dal Genoa, per 11 miliardi, ad Andrea Fortunato, bastano un paio di prestazioni per convincere il Trap attorno al suo grande potenziale: “Abbiamo risolto il problema a sinistra”, è la sentenza del suo tecnico, che copre al meglio la fascia scoperta, e per meritarsi l'investitura a erede di Cabrini, con la benedizione dello stesso Antonio, che in lui si riconosce, e non solo per le tante analogie legate all'interpretazione del ruolo. A pesare anche i percorsi umani-sportivi molto simili, con allenatori papà a svezzarne il talento, con la formativa gavetta nella Cremonese, nel Como, con club a grande vocazione giovanile, come l'Atalanta per Cabrini, il Genoa, il Pisa per Fortunato, a prepararli al meglio allo sbarco in bianconero. E quando Andrea si siede allo stesso tavolo di Giampiero Boniperti a lezione di juventinità, spiega al suo presidente che il peso della storia, della maglia non lo intimoriscono. E neppure il sacro decalogo della casa. Anzi. Alla puntuale richiesta di sfoltirsi la chioma, replica in modo spericolato: “Certo, lo farò, non appena Baggio rinuncerà al codino”. Per dire su quale rombante personalità poggiassero le sue ambizioni. Nella Juve lima i difetti, arricchisce il repertorio. Migliora il destro, placa l'irruenza, disciplina la corsa. Impone il fisico elastico con nervatura da quattrocentista, e con sorprendenti doti di recupero. E poi l'arte del cross, scolpita nei cromosomi. A Fortunato il gesto viene naturale, armonicamente perfetto. Non solo. È l'ultimo arrivato, ma sa usare le parole, come spendere quelle giuste. È un sindacalista in erba. Anche per questo entra subito in sintonia con lo spogliatoio. Roberto Baggio compreso. Che di lui dirà: “Mi fidavo di Andrea al cento per cento, era pulito, sincero, le nostre confidenze erano piene di vita, mai di pallone”. Nessun dubbio, in quei mesi, in quel tempo che si annunciava infinito. Era il decollo di una grande storia. Simile ad altre nel romanzo juventino. Quelle di predestinati dall'impetuoso sangue meridionale. Cabrini e Fortunato. Vite a cento all'ora, il gusto di seminare chiunque, quell'incessante pendolarismo a inseguire desideri, conquiste. E come confine soltanto un segno, il gesso della linea laterale. Forse ha ragione Cabrini quando sostiene che il terzino sinistro ha il Dna codificato. Di sicuro lui e Andrea hanno fieramente condiviso lo stesso. A testa alta e capelli al vento. In deroga allo stile Juve d'antan. Promessa Che spettacolo era Giacinto Facchetti quando lasciava andare le sue lunghe leve e si fiondava negli spazi lasciati liberi dalle divagazioni di Mariolino Corso? Poi si può discutere attorno a chi in quel ruolo di esterno sinistro sia stato l’italiano più forte del dopoguerra. Tra Maroso, Facchetti, Cabrini e Maldini non c’è che l’imbarazzo della scelta a livello mondiale. Chi li ha visti giocare tutti, sostiene che i fenomeni assoluti erano il primo e l’ultimo. Ma nemmeno qui c’è controprova. Tratto da “Giacinto Facchetti, il minuto di silenzio” di Gigi Garanzini 22 settembre ‘93. A Tallinn si gioca Estonia Italia per le qualificazioni mondiali. È il debutto azzurro di Andrea Fortunato, sul quale Sacchi punta con fiducia in ottica Usa ‘94. Il Ct da tempo, ne monitora la crescita, ora intende testarne voglia, attitudine alla complessa comprensione dei suoi codici. Ma si è già convinto, come tutti, che la rinomata scuola italiana degli esterni sinistri abbia scelto Andrea per ribadire, anche in Nazionale, la sua floridissima tradizione. E poi, in quella fase storica, Paolo Maldini ridefinisce il suo ruolo, reimpostandosi da centrale difensivo. L’opzione Fortunato per sostituirlo in fascia appare, anche in prospettiva, la più affidabile. Tra gli emergenti sembra il più adatto per caratteristiche a sposare la rivoluzione di Arrigo. All'alba di quell’autunno l'Italia batte l’Estonia 3-0 con graffio di Mancini e doppietta di Roberto Baggio. E Andrea si segnala tra i migliori interpreti dello spartito sacchiano. Nella sua prestazione, nella copertura delle due fasi, neppure una sbavatura. S’impadronisce della corsia, annulla il diretto avversario, sfrutta la sua formidabile intensità a sostegno della costruzione offensiva. Un esordio eccellente. È nata una stella, strillano i media. E il Mondiale lo aspetta tra i suoi protagonisti. Ma è soltanto una crudele illusione. Quello in Estonia resterà l'unico transito di Andrea nella volta azzurra. Di lì a poco un misterioso calo di forma, la corsa non più fluida, le energie a prosciugarsi, la paura a frustrare la speranza. Quella di riuscire a tenersi stretto un sogno che quel giorno, a Tallinn, per il debuttante Andrea Fortunato, sembrava davvero una sicura promessa di felicità. Legami Ci sono campioni morti sul campo, calciatori crollati sul prato e mai più rialzatisi, “eroi assunti in cielo su un carro di fuoco”, li definì Gianni Brera. Ad Andrea Fortunato tocca una sorte più maligna, subdola. Qualcosa dentro al suo corpo che si ribella, il sangue che impazzisce, le cellule cattive. E inizialmente l’incomprensione dell’ambiente. Perché, dicono, due più due fa sempre quattro, il ragazzo si è montato la testa, non fa più vita da atleta. E invece Andrea è malato, è la leucemia acuta linfoide a fiaccarlo, a consumarlo, a frustrarne ogni sforzo. Tratto da “Ricordo di Andrea” di Gianni Mura da “Una stella cometa” di Roberto Guerriero e Jvan Sica All’improvviso Andrea rallenta. Assieme alla carriera in ascesa. Comincia a sentirsi stanco, sfinito, avverte la fatica di allenamenti e trasferte, ha gambe impiombate, una persistente febbriciattola lo tormenta. Non può nulla davanti al rendimento che si appanna. Non ha spiegazioni per quei tifosi, e sono tanti, che lo accusano di scarso impegno, di avere la testa da un'altra parte. Ma quando, nel Maggio '94, scopre la causa di tutto, Andrea non si dimette da sé stesso, insiste nel sentirsi un atleta. Anche se a correre, da lì in poi, sarà solo la sua tenacia. Dai medici vuole sapere ogni cosa attorno a sintomi, terapie, trapianti, possibili conseguenze. Non è il tumore a spaventarlo, è il timore di restarne ostaggio. Ma a confortarlo la certezza che quella salita non l'affronterà in solitudine. La Juve fa blocco a sostegno del compagno in ginocchio. Un percorso travagliato. Che lui trasforma in un capolavoro di dignità. Quando sembra riprendersi, si riappropria della sua vita, torna a respirare il profumo dell'erba, va in tribuna a Marassi a seguire la sua Juve, nel frattempo passata a Lippi, e destinata a vincere tutto, s'impegna persino in attività benefiche a favore dei bimbi oncologici. Neppure per un istante stacca la spina al suo ottimismo, non si identifica con la malattia, sbandiera l'orgoglio della normalità. Conferma che non c'è nulla di più potente, nella percezione collettiva, di uno sportivo pronto a dialogare con le proprie paure. Ma è un ulteriore imbroglio del destino. Alla fine, il fisico senza più difese si arrende ad una banale, maledetta influenza. Fortunato si spegne a Perugia, dove aveva trovato una seconda famiglia. Un transito, il suo, nel lato notturno dell'esistenza, durato undici mesi. La Nazionale lo ricorda con un minuto di silenzio a Vilnius, gli dedica il gol partita di Zola ai lituani. La Juve, il sabato seguente alle esequie, il successo sulla Fiorentina al Franchi. E la prima firma, nel rabbioso 4-1 finale, non può che essere quella di Gianluca Vialli. Senso La malattia ti insegna che nella vita c’è di peggio di uno stiramento che ti impedisce di giocare per due settimane. Che ogni giorno muoiono bambini leucemici senza che nessuno lo sappia e senza che si possa fare nulla. Che in Italia abbiamo i medici migliori, i più umani e capaci, a Perugia arrivano da tutto il mondo ad imparare le nostre tecniche. Però le strutture sono quelle che sono, mancano gli spazi, c’è gente in coda da mesi per un trapianto. Bisogna donare il midollo, senza paura, perché questo salva vita agli altri e dà un senso alla tua. Tratto da “L’ultima intervista di Andrea Fortunato” di Maurizio Crosetti Trent’anni a volte sono tanti, a volte sono niente. Il tempo è concetto relativo, come nella storia di Andrea. La scia luminosa lasciata dietro di sé continua a rischiararne il ricordo. Assieme alla certezza che nulla di lui, del suo volo spezzato, finirà per essere dimenticato. Attorno al suo nome sono sbocciate tante iniziative, un Premio, un Museo del Calcio, una biblioteca sportiva, anche una Fondazione, che ha in Fortunato il simbolo della sua battaglia per introdurre, rendere obbligatorio il passaporto ematico, strumento di prevenzione, a supporto degli atleti, di tutte le patologie del sangue e cardiache. Diceva Jesse Owens: “Non importa cosa trovi alla fine di una corsa, l'essenziale è quello che provi mentre stai correndo”. La corsa di Fortunato si era interrotta proprio sul più bello. Ma lui l'aveva respirata, sudata, spremuta, sino all'ultimo centimetro. È questa la lezione di Andrea. L'impresa non è arrivare al traguardo, è avere il coraggio di partire senza paura di fermarsi. E godersi il panorama, come ha fatto lui, finché le stelle gli hanno sorriso, sprintando inafferrabile sulla fascia. Visita il sito della Fondazione Polito per il passaporto ematico

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