Ravanelli ricorda Fortunato: "Era il nostro uomo in più"

Quando Fabrizio Ravanelli parla di Andrea Fortunato, i suoi occhi brillano. Di affetto e ammirazione, ricordando quanto fosse forte in campo, solare e intelligente fuori, e di commozione, pensando al suo calvario e al vuoto che ha lasciato. “Se chiudo gli occhi per un attimo e penso ad Andrea – dice Ravanelli – l’immagine è quella del primo giorno, quando ci siamo ritrovati alla Juventus, dopo esserci conosciuti al servizio militare. Abbiamo condiviso insieme dei giorni bellissimi”. “Con Andrea – racconta – ho avuto subito un rapporto fantastico. Caratterialmente, era un ragazzo molto forte, con una personalità incredibile, non aveva paura di nessuno. Diceva sempre in faccia quello che pensava, non subiva pressioni, né in campo né fuori, però allo stesso tempo era anche uno che aveva un grande cuore. Secondo me, con le qualità calcistiche che aveva e con quel suo grande temperamento, avrebbe avuto una grande carriera”. Andrea interpretava il suo ruolo di terzino in chiave nuova e più ampia, coniugando fase difensiva e offensiva. Aveva un modo di giocare che anticipava i tempi e lo rendeva un precursore del difensore moderno. “In quel periodo – ricorda Penna Bianca – alla Juventus non avevamo un terzino di ruolo, si alternavano Dino Baggio e Giancarlo Marocchi, però la coperta era sempre un po’ troppo corta. Per questo la società, con Boniperti e Trapattoni, era andata così prepotentemente su di lui, perché aveva strapotere fisico, era forte tecnicamente, quando lo puntavi uno contro uno difficilmente lo saltavi, perché aveva un’esplosività incredibile e poi aveva questo mancino che era bello... ricordava un po’ l’Antonio Cabrini degli Anni 80, della grande squadra di Trapattoni”. Era un giocatore che avrebbe sicuramente lasciato il segno anche con la Nazionale. Invece, in azzurro fece in tempo a giocare solo una partita, scelto dal ct Arrigo Sacchi per la sfida di qualificazione ai Mondiali contro l’Estonia, del 22 settembre 1993. Novanta minuti in cui dimostrò tutto il suo valore e il suo potenziale. “Sarebbe stato importantissimo per la Nazionale di Sacchi, che era un allenatore molto attento a tutti i minimi particolari, gli piacevano i giocatori esplosivi, forti fisicamente. Le sue squadre hanno sempre dimostrato una grande forza fisica e una grande mentalità nell’andare a pressare alto le squadre avversarie. Andrea era uno di questi, che poteva avere la capacità sia di attaccare sia di difendere, magari con lui in campo Sacchi avrebbe potuto spostare Maldini centralmente, o magari essere l’alternativa di Maldini. Insomma, sarebbe stato un giocatore importante anche a Usa ‘94”. lo shock Nel racconto di come la squadra scoprì, dal dottor Agricola e dal vicepresidente, Roberto Bettega, la gravità delle condizioni di Andrea, c’è tutta la disperazione e l’incredulità che investì i compagni in quel momento: “Ricordo che dentro quello spogliatoio per tutti noi era difficile tirare fuori anche una parola, fare una domanda. Uscendo, presi da parte il nostro vicepresidente e gli domandai se c’era ancora la possibilità di poterlo vedere in campo l’anno successivo e lui mi disse, ancora mi ricordo le sue parole: ‘Fabrizio, dobbiamo pregare per far sì che Andrea possa tornare non a giocare ma a vivere’. Dentro di me scattò un momento di paura incredibile, come una scossa di adrenalina”. Da lì in poi cominciò il lungo periodo di cure, a Perugia, ospite proprio di Ravanelli, che ad Andrea e alla sua famiglia mise a disposizione la sua casa. Ci fu un momento in cui sembrò che le terapie stessero facendo effetto e che Andrea si stesse rimettendo, tanto che un giorno riuscì a seguire la Juventus in trasferta contro la Sampdoria: “Era venuto a Genova a trovarci e ci aveva dato la speranza di poter tornare a giocare. Era il suo carattere, la sua determinazione, la sua leadership, voleva quello, voleva tornare a giocare. Nella sua testa, dal primo giorno che ha scoperto la malattia, Andrea ha sempre creduto di poter tornare a giocare, questa è stata la sua grande forza”. Invece, dopo pochi mesi arrivò la più dura delle sentenze, una notizia ancor più difficile da accettare, dopo aver accarezzato l’idea di poterlo rivedere correre in campo: “Il 25 aprile è una data che mi ricorderò per sempre, ho scoperto della morte di Andrea quando ero in Nazionale. Fu veramente un dramma per tutto il movimento calcistico. Non solo per i compagni di squadra, non solo per gli juventini. In quel momento tutti piangevano Andrea”. Eppure, dopo lo smarrimento e la disperazione iniziali, il suo ricordo si trasformò nella più forte delle motivazioni: la sua energia e la sua voglia di vivere divennero una linfa potentissima per i suoi compagni. “La sua morte – dice Ravanelli – ci ha ferito dentro ma allo stesso ha creato quella forza dentro al gruppo, che ci spingeva ad andare oltre la normalità, negli sforzi fisici, negli allenamenti, nella determinazione” al punto che, nelle partite successive al 25 aprile “la Juve ha giocato sempre 12 contro 11 con l’aiuto di Andrea dal cielo. Era una squadra capace di lottare anche oltre l’umano, ci sacrificavamo tutti, c’era uno spirito di rispetto che oggi nel calcio fai fatica a trovare, e anche nella vita”. Alla fine di quella stagione, la Juventus vinse il suo ventitreesimo Scudetto, 23 come gli anni di Andrea, un successo che ai bianconeri mancava da nove anni. L’anno successivo, nel 1996, a Roma contro l’Ajax, arrivò il trofeo più prestigioso: la Champions League. La partita finì ai rigori ma il gol dell’1-0 per la Juventus lo segnò Fabrizio Ravanelli, grazie un pallone che sembrava quasi perso e che invece l’attaccante riuscì a mandare in rete con un colpo difficile e imprevedibile, quasi miracoloso. Chissà, forse anche quella sera, a Roma, la Juve giocò con un uomo in più.

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