Dall’Isonzo al mondo: le radici friulane di Fabio Capello

Fabio Capello non è solo uno degli allenatori più vincenti e autorevoli della storia del calcio. È anche il riflesso autentico di un luogo, di una cultura, di una geografia esistenziale. La sua storia comincia in una terra di confine, segnata dalle guerre, dalle identità sovrapposte e da una sobrietà quotidiana che ha lasciato un’impronta profonda sul suo modo di pensare, vivere e interpretare la vita. Capello nasce il 18 giugno 1946 a Pieris, piccola frazione del comune di San Canzian d’Isonzo, all’epoca compresa nella Zona A del Territorio Libero di Trieste, sotto amministrazione anglo-americana. Il nome stesso di Pieris, in friulano, significa “pietre”: le stesse pietre che venivano impiegate per costruire gli argini del fiume Isonzo, a difesa dalle sue frequenti inondazioni. Un toponimo che racconta già molto della sua terra – aspra, concreta, resistente – e della sua gente. E come le pietre, Capello ha imparato a essere solido, strutturato, resistente, impermeabile agli eccessi. Cresce in un Friuli-Venezia Giulia che si affaccia sull’Europa centrale, tra Italia e Balcani, tra mare e monti, in una zona in cui si intrecciano lingue, memorie, frontiere. Una vera terra di confine, in cui il senso dell’identità non è mai scontato ma sempre costruito, faticosamente, giorno dopo giorno. Pieris, per Capello, è tutto: luogo dell’infanzia, dei primi calci, del rispetto per il lavoro, della memoria che non si esibisce, ma si custodisce. È in questa cornice che prende forma una delle personalità più strutturate del calcio italiano. "Mi sento uno del Friuli-Venezia Giulia, per quella caratteristica che abbiamo noi friulani giuliani, che non ci arrendiamo mai, che abbiamo cominciato a lavorare la terra e - quando non era sufficiente – abbiamo fatto gli emigranti e siamo andati in giro per il mondo". [FABIO CAPELLO] Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel territorio giuliano — e in particolare a Trieste — si apre una delicata fase di tensione internazionale. Da una parte ci sono le truppe del maresciallo Tito, che rivendicano apertamente la zona dopo anni di guerra e resistenza; dall’altra, le forze anglo-americane, decise a non cedere un’area considerata strategica per gli equilibri dell’Europa che sta nascendo. Le intenzioni sembrano chiare: gli jugoslavi puntano a portare il confine fino al fiume Isonzo, mentre gli alleati occidentali vogliono mantenere il controllo dell’area anche per motivi politici. Ne nasce un duro braccio di ferro diplomatico e militare, che rischia più volte di trasformarsi in scontro aperto. La soluzione arriva con un compromesso: la Venezia Giulia viene divisa in due zone d’occupazione, separate da quella che diventerà famosa come la “linea Morgan”. La parte occidentale, chiamata Zona A, passa sotto il controllo degli anglo-americani e comprende Trieste, Gorizia e Pola. Viene istituito un governo militare alleato, con pieni poteri e nei mesi successivi, tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946, viene definito un imponente piano di difesa per tutta l’area, che prevede il dispiegamento di truppe britanniche e statunitensi, incaricate di mantenere l’ordine e garantire la sicurezza nella Venezia Giulia e nelle retrovie. In quel contesto teso e fragile, tra confini mobili e identità in bilico, nasce e cresce Fabio Capello, il figlio di una terra segnata dalla Storia. "Io sono del '46. Fino ai miei primi otto anni si decise che il confine che Tito voleva portare sull'Isonzo non sarebbe avvenuto. Intervennero gli Inglesi e gli Americani e decisero che Trieste rimaneva all'Italia. In tutto quel periodo pensavamo anche noi che avremmo potuto essere degli esuli. E questa è una cosa che mi è rimasta dentro, questo timore, quando vengo da Milano, o da Venezia, ogni volta che attraverso l'Isonzo e dico: “Sono ancora in Italia”. È qualche cosa che mi è rimasto veramente dentro e mi fa gioire ogni volta che arrivo da queste parti e ripenso a quei momenti in cui mio papà, che era tornato dai campi di concentramento e si era salvato per il rotto della cuffia e mi aveva messo al mondo, soffriva per questa possibilità che potessimo diventare esuli anche noi. È un segno che mi è rimasto dentro". [FABIO CAPELLO] UNA FAMIGLIA TRA GUERRA, CALCIO E RESISTENZA La famiglia Capello è friulana da generazioni. La madre, Evelina Tortul , è sorella di Mario Tortul, calciatore professionista del secondo dopoguerra e nazionale azzurro. In 5 stagioni alla Sampdoria colleziona 147 presenze e 46 gol . Gioca anche per un anno nella Triestina e per tre nel Padova, con un bilancio di 252 partite e 69 gol in Serie A: è probabilmente il primo punto di riferimento calcistico per il giovane Fabio, che da mamma Evelina eredita discrezione e forza morale. Dal ramo paterno, invece, arrivano le cicatrici della Storia. Il nonno Eduardo Capello è un fabbro nativo della zona di Pieris che durante la Prima Guerra Mondiale, conosciuto come Eduárd Kapelló, vive con la moglie, Mária Olívó, sua coetanea, nella cittadina ungherese di Himesháza. Proprio lì, il 28 giugno 1915, quando Eduárd ha 24 anni, nasce suo figlio Péter József Guerrino Capello : il padre di Fabio. Secondo i registri di Himesháza, tre giorni dopo Eduardo denuncia personalmente la nascita di Guerrino all'ufficiale di stato civile del villaggio nella contea di Baranya. Ma come finirono lì Eduardo e Maria? Per quanto tempo ci rimasero? Cosa sappiamo della nascita di Guerrino e delle condizioni di vita della sua famiglia? Con loro c’erano altri italiani? Grazie al lavoro di un genealogista ungherese, Krisztián Szalánczi, che in precedenza si era già occupato di rintracciare le origini magiare del nove volte campione olimpico di nuoto americano Mark Spitz, è stato ritrovato un documento fondamentale, con cui la testata Nemzeti Sport è venuta a conoscenza di molti dettagli aggiuntivi sulla vita ungherese dei Kapelló. Nel certificato di battesimo datato 1° luglio 1915, il parroco locale János Frey dà al figlio legittimo e terzogenito della coppia italiana il nome Guerino Péter József. Il padre è appunto Ede Capello, a quanto pare la stessa persona indicata nel documento di Stato come Eduárd Kapelló, un “ramaio” esule rifugiato da Pieris; la madre è Mária Olívó. Come luogo di residenza è indicata la “vecchia sala del villaggio” di Himesháza. Padrini: Giraldi Antal, profugo di S. Cancianó , e Galesits Antonia, profugo di Monfalcone. La voce fornisce un’altra informazione importante: nella sezione Commenti è stato successivamente aggiunto che Guerrino Capello è stato cresimato a Pieris, in Italia, il 13 ottobre 1926, all’età di 11 anni. Lo studio dei registri dello stato civile di Himesháza dell'epoca non ha prodotto ulteriori risultati. Eduardo e Maria non si sposarono lì e nel villaggio non nacquero altri bambini. L'indicazione dell'indirizzo della vecchia sala del villaggio suggerisce però che il soggiorno dei Kapelló potrebbe essere stato temporaneo. La coppia fu probabilmente alloggiata nell'edificio pubblico, anche se, per ora, l'identificazione rappresenta una sfida anche per gli abitanti del posto interessati alla storia locale, poiché il certificato di nascita riporta “Himesháza 13” come indirizzo, ma in base alle vecchie mappe, non si sa se l'edificio in questione fungesse effettivamente da sala del villaggio. In base ai documenti attestanti la residenza in Italia, poi, risulta che la famiglia vivesse già a Pieris a metà degli anni Venti, dove - sempre secondo i documenti - era fissata anche la loro residenza originaria. Anche i padrini provenivano direttamente dal Goriziano. Questo dimostra sia che i Capello non erano gli unici italiani a soggiornare a Himesháza, sia che - in linea con l'espressione “profughi”, è probabile che il motivo della presenza di ospiti italiani in quel villaggio ungherese sia da ricercare negli eventi della Prima Guerra Mondiale. L'Italia aderisce all'Intesa nell'aprile del 1915 con il Trattato di Londra e il 23 maggio dichiara guerra alla monarchia austro-ungarica. L’entrata ufficiale nel conflitto ha un impatto diretto e serio sulla regione degli antenati di Fabio Capello e una spiegazione quasi univoca del trasferimento della famiglia nel distretto di Baranya si può ancora trovare in un articolo del Pécsi Napló del 26 maggio 1915 sull’evacuazione di alcuni civili. Il successivo numero dell'8 giugno ne riporta anche le condizioni. Traduciamo qui di seguito un estratto di entrambi gli articoli. PÉCSI NAPLÓ Alloggio dei residenti italiani delle zone costiere e di confine a Pécs Viviamo tempi storici. I cannoni già ruggiscono lungo i confini italiani e la Monarchia risponderà con tutta la sua forza all’attacco a sorpresa. Il nuovo fronte bellico ha aperto un’area operativa diversa da quelle precedenti, anche perché si estende in gran parte su territori costieri. Per ragioni operative e per garantire la libera circolazione, si è reso necessario sgomberare la popolazione civile da alcune località, poiché tali aree risultano indispensabili per l’alloggiamento delle truppe. I civili evacuati saranno trasferiti all’interno della Monarchia, e diverse città e contee dell’Ungheria hanno già accolto questi residenti italiani provenienti dalle zone costiere e di confine. Il Ministero dell’Interno ha comunicato telefonicamente oggi pomeriggio al sindaco Andor Nendtvich che un migliaio di questi sfollati, provenienti dalla regione sud-occidentale della Monarchia, sarà destinato all’area urbana di Pécs. L’arrivo avverrà in gruppi da 250 persone. Questi sfortunati saranno ospitati all’interno delle mura cittadine. Noi, che ci troviamo nella fortunata condizione di aver vissuto fino a oggi solo indirettamente il peso e le sofferenze della guerra, offriremo rifugio a questi senzatetto strappati alle loro case. Lo Stato, peraltro, non chiede che questo venga fatto gratuitamente: corrisponderà una corona e cinque pence al giorno per persona, e saranno gli stessi rifugiati a provvedere al proprio sostentamento. Queste persone potranno essere impiegate in attività industriali, lavori pubblici e privati, naturalmente dietro compenso. […] Complessivamente, saranno circa tremila i residenti costieri e di confine accolti nella contea di Baranya. Alcuni di loro sono già arrivati. 26 maggio 1915 PÉCSI NAPLÓ Condizioni dei rifugiati I rifugiati sono stati ospitati nell'Ujsörgyár. Rappresentano uno spettacolo davvero pietoso e pertanto chiediamo al pubblico di prendersi cura di alcune famiglie per 1 corona e 5 fillér a persona al giorno. La maggior parte dei rifugiati sono donne e bambini. 8 giugno 1915 Eduardo Capello e la sua famiglia sono, dunque, tra gli sfollati e, a giudicare dall'appello pubblicato lo stesso giorno su un altro quotidiano ungherese, per il suo status ha di che preoccuparsi. DUNÁNTÚL Il Ministro dell'Interno ha emanato una circolare ai primi funzionari di tutti gli enti locali e al Capo della Polizia di Stato di Budapest, in base alla quale, al termine del censimento dei cittadini italiani, si provvederà immediatamente a stabilire quali dei cittadini italiani censiti debbano essere allontanati dal loro luogo di residenza o domicilio e quali sottoposti a misure di detenzione. Saranno allontanati e internati gli uomini di età compresa tra i 18 e i 50 anni, nonché coloro che hanno ricoperto gradi militari nell'esercito italiano, indipendentemente dall'età. 8 giugno 1915 IL RITORNO IN ITALIA Al termine del conflitto mondiale, la famiglia fa ritorno in Italia, dove Guerrino, cresce come maestro elementare, con una passione per il gioco del calcio; è anche pittore autodidatta e uomo di grande cultura, ma soprattutto, è un sopravvissuto. Dopo aver prestato il servizio militare come carabiniere, una volta divenuto capitano di artiglieria non aderisce alla Repubblica di Salò. Viene fatto prigioniero e vive l'orrore dei campi di sterminio: deportato dai nazisti in sei lager diversi durante la Seconda Guerra Mondiale, torna a casa carico di silenzi e dignità. Il rispetto che ispira nella comunità segna profondamente il giovane Fabio, che ricorda ancora i pacchi di cibo inviati da mamma Evelina e mai arrivati a destinazione, e tutti i racconti di papà Guerrino sulla fame, sugli stenti patiti e su quella fragilità corporea sopraggiunta, che una semplice risata avrebbe potuto rendergli fatale. Fabio Capello cresce in questo contesto di memoria, sacrificio e valori e fa di questo vissuto un pilastro nella sua formazione personale e morale. Una vita semplice e radicata, fatta di rispetto, silenzi, rigore. Con i primi calci dati sugli sterrati friulani, tra un tuffo nell’Isonzo con gli amici e gli studi a Gorizia. "Io mi sento figlio dell'Isonzo, perché è stato sempre qualche cosa di reale, di vero. L'Isonzo per me è stata la piscina del paese. La sua acqua era limpida come una piscina e ogni volta che d'estate andavo a fare il bagno, quando assieme ai miei compagni facevamo i tuffi e andavamo a divertirci, era una cosa indimenticabile. Andavamo sul ponte della ferrovia e siccome ci tuffavamo da un'altezza di dieci metri, prendevamo dei sassi e li buttavamo giù, per far sì che l'onda facesse vedere il pelo dell'acqua. Ci si divertiva in questa maniera, perché Pieris è un paese di mille abitanti: si giocava a calcio e d'estate si andava sull'Isonzo". [FABIO CAPELLO] Parte di questa storia difficilmente la sentirete raccontare, perché la vita di Fabio Capello è esattamente così: essenziale, rigorosa, riservata. Semplice. Così sarà il capitolo privato che “Don” Fabio Capello ha voluto condividere nella nuova puntata speciale di “Federico Buffa Talks” disponibile da venerdì 16 maggio su Sky Sport, disponibile anche on demand e in streaming su Now, per la prima volta in scena dal vivo, davanti al pubblico del gremito Teatro Verdi di Gorizia, capitale europea della cultura senza frontiere, con Nova Gorica, in una serata unica, organizzata da Sky Tg24. Nessun effetto speciale: solo parole, immagini e memoria. Le voci di Buffa e Ferri a scandire il racconto e sullo sfondo, poche, essenziali istantanee della sua carriera, a scorrere discrete per evocare volti e traguardi. Un viaggio dentro la biografia di un protagonista assoluto del nostro tempo, tra identità, sport e consapevolezza. Un’occasione per scoprire Capello come non lo abbiamo mai visto: fuori dagli schemi, ma sempre fedele a sé stesso, con lo sguardo severo di chi ha visto il calcio cambiare, ma non ha mai smesso di cercarne il senso più profondo. "Io giocavo nei ragazzi del Pieris, giocavo con quelli di 16 anni, ne avevo 13. Qualcuno si è accorto di me e mi hanno portato a fare una prova a Ferrara. Feci la prova e Mazza decise. Si mise d'accordo con mio papà che mi avrebbe acquistato. Perché una volta eravamo merce di scambio, tu non avevi nessuna possibilità di dire non accetto. Quando papà firmava una cosa era fatta, non potevi più muoverti". [FABIO CAPELLO] LA SPAL E L’ESILIO VOLONTARIO Dal Friuli arriva a Ferrara acquistato dalla Spal come un “furlan in esilio”, ma quell’“esilio” è il primo vero trampolino. Dopo Ferrara, la carriera decolla: Roma, Juventus, Milan. Vince trofei, indossa la maglia della Nazionale per 32 volte, segna 8 reti, tra cui lo storico gol a Wembley nel 1973 — la prima vittoria dell’Italia sull’Inghilterra in casa loro. Ai Mondiali del 1974 gioca al fianco di leggende come Gigi Riva e Gianni Rivera. E con altri grandi allenatori — da Herrera a Liedholm — comincia ad assorbire idee, visioni e metodo. Quando passa dall’altra parte, quella della panchina, costruisce un’epopea. Con il Milan vince 4 Scudetti, una Champions League e resta imbattuto per 58 partite di fila. Conduce al titolo una Roma affamata di gloria, una Juventus schiacciasassi, un Real Madrid in crisi di identità. E chiude il cerchio con le Nazionali inglese e russa, prima di diventare un volto autorevole del commento sportivo su Sky e altre emittenti internazionali. "Mio padre mi disse: “Fabio, provaci!”. È stata una spinta talmente forte nella mia vita, che per me “Provaci” è stato tutti gli ostacoli che ho superato. Dove volevo sono arrivato. Perché quello che mi aveva detto mio padre mi è rimasto dentro". [FABIO CAPELLO] L’EREDITÀ FRIULANA DI UN VINCENTE UNIVERSALE Fabio Capello ha allenato i più grandi, ha vinto ovunque, ha attraversato generazioni e mutazioni del calcio. Ma ha sempre portato con sé quel senso friulano di misura, quel culto della fatica, quella capacità di stare nei margini, senza mai uscirne, ma sapendo dominarli. Non è mai stato un uomo da copertina. È stato — e resta — un uomo da fondamenta. Come quelle pietre dell’Isonzo che danno il nome al suo paese natale. Dure, essenziali, invisibili, ma necessarie per non far tracimare la corrente. E oggi, guardandolo raccontare la sua vita con il tono pacato di chi non ha bisogno di apparire, si capisce che il suo vero successo non è solo nei trofei. È nella coerenza con cui ha attraversato il tempo, con cui ha custodito l’eredità di un Friuli profondo e testardo. Un’eredità fatta di confini vissuti, e mai subiti. Dall’Isonzo al mondo, Fabio Capello ha portato il Friuli sul tetto del calcio.

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